In breve:

Vite sospese

guardia-carcere

di Rosella Manca.
Il difficile compito della polizia penitenziaria è condensato nel motto: “despondere spem est munus nostrum”: il nostro compito consiste nell’assicurare, mantenere viva la speranza rafforzandone il fondamento, che riflette la complessità del ruolo di chi è chiamato a mettere insieme sicurezza e riabilitazione.

Le strutture penitenziarie racchiudono una popolazione di persone detenute che, fin dall’ingresso in carcere, portano con se il vissuto personale che esprime in sé il concentramento in un unico ambiente di disagio, e che si configura come la connotazione principale relativa alla privazione della libertà: ci si trova a vivere un periodo di tempo, spesso non prevedibile, seguendo regole e ritmi stabiliti da altri, in una sorta di “attesa sospesa”. Il disagio che si percepisce fin dal primo momento all’interno della struttura carceraria è correlato a vari elementi: la perdita effettiva delle persone care, la promiscuità esistenziale con persone estranee, la mancanza di intimità e riservatezza, la limitazione del diritto di scelta, l’assenza di autodeterminazione… E il poliziotto penitenziario, che vive a contatto quotidiano con questa realtà di sofferenza, non ne è inconsapevole, e nel limite delle sue possibilità, cerca di limitarne in peso sulla vita del singolo.
Anche la fede ed il mantenimento delle relazioni familiari sono fondamentali per il benessere psichico dei detenuti. La detenzione, infatti, non consente di decidere con chi interagire, e tiene lontani gli affetti; la solitudine, la lontananza e l’impossibilità di avere continui contatti con i propri cari finiscono, perciò, per costituire un grave elemento di criticità sia per il detenuto che per i suoi familiari. Si può comprendere facilmente quindi come il mantenimento delle relazioni interpersonali con l’esterno sia un fattore decisivo sotto il profilo emotivo.
Da questo punto di vista, quindi, i colloqui rivestono un ruolo cruciale, in quanto costituiscono gli unici momenti in cui i detenuti riescono a riportare in essere i propri legami vitali. Inoltre, le visite dei familiari sono anche un importante strumento di resistenza a tutte le difficoltà quotidiane che si possono incontrare durante la detenzione, quali lo scoramento e la tristezza. A noi operatori spetta anche il compito di sostenere i familiari, soprattutto nelle loro prime visite al carcere, scandito e caratterizzato da regole sconosciute all’esterno, a volte ritenute incomprensibili, e che perciò vanno spiegate affinché siano accettate con serenità.
Non è sicuramente un lavoro facile. Essere a contatto con esseri umani privati della propria libertà personale ha un impatto emotivo non indifferente, rilevante agli inizi della propria attività lavorativa, ma che non perde la sua pregnanza anche negli anni a seguire, e può perfino arricchire sia professionalmente che umanamente. Ci troviamo, infatti, a gestire due elementi che guardano a versanti differenti dell’esperienza umana di ciascun operatore gestiti da due matrici opposte: i criteri normativi da una parte con cui gestire tutto quel che concerne l’aspetto concreto della carcerazione, contrapposti alla sfera della soggettività a cui ci si appella, invece, nell’interazione umana non solo con il detenuto ma anche con i familiari, quando presenti, portatori anch’essi di una sofferenza e di un disagio che si cerca di ridurre al minimo, una volta che è stato accolto con empatia e garbo.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>