a cura di Claudia Carta.
Prof. Maurizio Virdis, tracciamo un parallelismo fra periodi storici differenti e cerchiamo di capire come è cambiata l’Università da quando lei ha cominciato a lavorare in Ateneo fino a oggi, relativamente ad alcuni elementi: numero degli studenti, proposta formativa, rispondenza alle esigenze del mercato del lavoro.
Quando ho cominciato a lavorarvi, l’Università si avviava a diventare un Università di massa, ma ancora non lo era del tutto. V’era un po’ più di certezza di trovare un posto di lavoro dopo il conseguimento del titolo, che allora era, per quanto non sempre, il top della carriera di studi. Ma tutto era in trasformazione: erano gli anni della contestazione, non era più l’università d’élite, ma ne portava ancora i segni; e si avviava a offrire un sapere maggiormente diffuso nella società. Tutto ciò con esiti forse contradditori – ma ci vorrebbe un sociologo, ciò che io non sono, per sviscerare il significato di questi esiti e di questo andamento delle cose – in quanto il progredire delle conoscenze di carattere scientifico e tecnologico, ma pure umanistico, rendeva quel top, la laurea, solo un gradino relativamente alto, ma non il più alto; per cui oggi dopo la laurea si deve molto spesso continuare a studiare, conseguire titoli di livello più alto: dottorati (che allora in Italia non esistevano), o specializzazioni, master, corsi di perfezionamento, non necessariamente offerti solo dall’Università.
Oggi, con le riforme del primo decennio di questo secolo, l’offerta formativa è certamente mutata rispetto ai decenni trascorsi: sono aumentati i corsi di laurea, i percorsi interni ai corsi, è cresciuto il novero delle discipline insegnate, vi sono due livelli di laurea (laurea e laurea magistrale); ci sono più opzioni e più flessibilità, anche in prospettiva professionalizzante, pur, almeno in genere, nel solco della tradizione, e nella stabilità di una base-quadro disciplinare. Altro è dire come e quanto il mondo del lavoro intercetta tutto ciò. Soprattutto il primo livello (triennale) di laurea non sembra aver avverato gli auspici del legislatore.
Quali sono, oggi, i maggiori punti di forza del nostro sistema universitario e quali, invece, le criticità?
Il nostro sistema, io credo, ha la capacità di dare agli studenti – quando la frequentino con convinzione e partecipazione reali – una preparazione generale e qualificata, un senso critico, che permettono loro di avere le competenze necessarie per poter affrontare con maggior sicurezza, con solide basi e con maggior predisposizione, campi più specifici del sapere; offre un sapere maggiormente svincolato da predeterminazioni pragmatiche, spesso di breve durata se non pure effimere. Poi c’è il rovescio di questa medaglia, e cioè la sostanziale mancanza di titoli universitari professionalizzanti, anche di più breve durata, che possano interfacciarsi e interagire con il mondo della produzione e dunque del lavoro.
Le due cose per quanto possano apparire contradditorie, così come le ho esposte, dovrebbero, invece, a mio avviso convergere. L’università italiana porta in sé forse ancora l’inerzia ideale dell’Università elitaria di una volta, idea che in sé stessa non sarebbe neppure un male, purché la si faccia convergere con esigenze reali e con la realtà tout court. Non è un’utopia, né la quadratura del cerchio: vorrebbe dire indirizzare, senza snaturarla, una tradizione di alto valore verso la concretezza, in una duttile e proficua dialettica. Se manca l’idealità si è succubi del pragmatico immediato, se manca la concretezza si crea disaffezione e frustrazione, che si risolve nel mancato appeal degli studi universitari: dati statistici alla mano, si riscontra che l’Università italiana ha smesso da un po’ di essere motore di crescita sociale, tanto a livello generale quanto a livello individuale.
Poi certo c’è, rispetto ad altri paesi europei, un finanziamento scarso dell’Università, come dell’istruzione in genere, e una non adeguata politica del diritto allo studio.
Ci sarebbe infine da verificare se la struttura produttiva italiana ha, e in che misura ha necessità di laureati e la volontà di acquisirli a sé. Ma è un discorso che lascio a chi più di me ne sa.
Sul piatto ci sono sei miliardi del Pnrr per Università e ricerca, più i fondi nazionali. Eppure l’università italiana continua ad avere un grosso problema: l’alto numero di studenti che si laureano e non riescono a trovare lavoro. Cosa non funziona nel meccanismo che collega studio e occupazione?
A mio avviso, la scarsa sinergia fra Università e mondo del lavoro; ma pure un mancato impegno da parte del mondo del lavoro da adoperarsi verso una formazione post-laurea finalizzata, che non può essere demandata solo all’Università, con la quale si deve certo collaborare, ma appunto collaborare: lavorare insieme.
Non si possono riversare tutte le colpe sull’Università, che pure ne ha. Il sistema produttivo (anche non immediatamente produttivo) ha esso pure le sue responsabilità, che non sono necessariamente una colpa, ma spesso il frutto della storia, della storia d’Italia. Quanto reale bisogno di laureati ha il mondo produttivo italiano? Si dice che il sapere e la ricerca siano volano di crescita e di progresso, e questo è vero; ma il mondo produttivo e più in generale la società, sfruttano realmente o almeno sollecitano nei fatti la crescita del sapere? Il discorso, a mio avviso, non deve essere fatto a senso unico: cioè unicamente nel senso che il mondo dell’istruzione deve guardare al mondo dell’economia e del lavoro, ad esso così mentalmente e di fatto subordinandosi; si potrebbe/dovrebbe anche inventare un percorso inverso: la produzione dovrebbe a sua volta guardare a ciò che l’istruzione elabora e fornisce, e da lì prendere spunto. Una prospettiva a senso unico mortifica entrambe le parti interessate.
Bisognerebbe poi, certo, creare un efficiente sistema di informazione e di orientamento rivolto agli studenti, che faccia loro conoscere quale tipo di studi dà una maggiore possibilità di impiego. Ma in senso capillare e non rivolto all’immediato, affinché la domanda/offerta di lavoro non diventi una gabbia esistenziale: mi iscrivo a tal corso di laurea perché mi garantisce o almeno mi facilita – si spera… – un lavoro, che però non mi piace e mi deprime. L’informazione dovrebbe essere completa in ogni campo e costantemente aggiornata e dettagliata per l’immediato e in prospettiva.
Come si posizionano, qualitativamente e quantitativamente, gli atenei sardi nel panorama nazionale?
Direi a un livello di piena dignità, con anche punte di eccellenza, come dati recenti pure dimostrano.
Come sono gli studenti che scelgono oggi l’università? Che ragazzi vede e incontra alle sue lezioni?
Vedo ragazzi alcuni pieni di attese e di speranza, ma forse un po’ meno consapevoli di ciò che li attende dopo la fine degli studi, soprattutto rispetto alla complicata realtà del mondo del lavoro; altri demotivati fin dal principio. Alcuni sono pienamente (auto)incentivati e motivati, e danno risultati più che sufficienti o anche di alta qualità, spesso più alta che non nel mitizzato passato; altri, diciamo così, ‘tirano a campare’, si preoccupano di superare esami più che di acquisire, rafforzare e stabilizzare conoscenze reali e critiche, che restano in loro volatili e approssimative. Il che è spesso il risultato di una difficoltà di elaborare un interesse che li coinvolga, e concentrarvisi, anche perché gli stimoli del loro mondo sono tanti, ma in genere confusi e disordinati. È peraltro difficile trovare una via maestra se si pensa in termini solo pragmatici e ci si amputa della passione: motore primario, benché non esclusivo, dell’apprendere. L’ideale sarebbe far coincidere o almeno far avvicinare passione e necessità in maniera convergente.
Maurizio Virdis (Roma 1949) nel 1972 si laurea in Lettere all’Università di Cagliari, dove dal 1974 diventa assistente della cattedra di Linguistica sarda e successivamente, dal 1986, professore associato di Filologia francese e dal 1992 di Filologia romanza. È stato professore ordinario (dal 2004-2005 al 30/09/2019) presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari, con insegnamenti di Filologia romanza, di Linguistica sarda e di Filologia sarda e italiana. Già presidente della Classe delle Lauree in Lettere e direttore del Dipartimento di Filologie e Letterature moderne. Ha fatto parte parte del Collegio dei docenti della Scuola di Dottorato in Studi filologici e letterari. È socio della SIFR: Società Italiana di Filologia romanza. Fa parte del direttivo del Centro di Studi filologici sardi. È autore di numerosi saggi e pubblicazioni scientifiche su letteratura francese e medioevale, linguistica e filologia sarda, letteratura e poesia sarda.
Università e mondo del lavoro: servono sinergia e passione
a cura di Claudia Carta.
Prof. Maurizio Virdis, tracciamo un parallelismo fra periodi storici differenti e cerchiamo di capire come è cambiata l’Università da quando lei ha cominciato a lavorare in Ateneo fino a oggi, relativamente ad alcuni elementi: numero degli studenti, proposta formativa, rispondenza alle esigenze del mercato del lavoro.
Quando ho cominciato a lavorarvi, l’Università si avviava a diventare un Università di massa, ma ancora non lo era del tutto. V’era un po’ più di certezza di trovare un posto di lavoro dopo il conseguimento del titolo, che allora era, per quanto non sempre, il top della carriera di studi. Ma tutto era in trasformazione: erano gli anni della contestazione, non era più l’università d’élite, ma ne portava ancora i segni; e si avviava a offrire un sapere maggiormente diffuso nella società. Tutto ciò con esiti forse contradditori – ma ci vorrebbe un sociologo, ciò che io non sono, per sviscerare il significato di questi esiti e di questo andamento delle cose – in quanto il progredire delle conoscenze di carattere scientifico e tecnologico, ma pure umanistico, rendeva quel top, la laurea, solo un gradino relativamente alto, ma non il più alto; per cui oggi dopo la laurea si deve molto spesso continuare a studiare, conseguire titoli di livello più alto: dottorati (che allora in Italia non esistevano), o specializzazioni, master, corsi di perfezionamento, non necessariamente offerti solo dall’Università.
Oggi, con le riforme del primo decennio di questo secolo, l’offerta formativa è certamente mutata rispetto ai decenni trascorsi: sono aumentati i corsi di laurea, i percorsi interni ai corsi, è cresciuto il novero delle discipline insegnate, vi sono due livelli di laurea (laurea e laurea magistrale); ci sono più opzioni e più flessibilità, anche in prospettiva professionalizzante, pur, almeno in genere, nel solco della tradizione, e nella stabilità di una base-quadro disciplinare. Altro è dire come e quanto il mondo del lavoro intercetta tutto ciò. Soprattutto il primo livello (triennale) di laurea non sembra aver avverato gli auspici del legislatore.
Quali sono, oggi, i maggiori punti di forza del nostro sistema universitario e quali, invece, le criticità?
Il nostro sistema, io credo, ha la capacità di dare agli studenti – quando la frequentino con convinzione e partecipazione reali – una preparazione generale e qualificata, un senso critico, che permettono loro di avere le competenze necessarie per poter affrontare con maggior sicurezza, con solide basi e con maggior predisposizione, campi più specifici del sapere; offre un sapere maggiormente svincolato da predeterminazioni pragmatiche, spesso di breve durata se non pure effimere. Poi c’è il rovescio di questa medaglia, e cioè la sostanziale mancanza di titoli universitari professionalizzanti, anche di più breve durata, che possano interfacciarsi e interagire con il mondo della produzione e dunque del lavoro.
Le due cose per quanto possano apparire contradditorie, così come le ho esposte, dovrebbero, invece, a mio avviso convergere. L’università italiana porta in sé forse ancora l’inerzia ideale dell’Università elitaria di una volta, idea che in sé stessa non sarebbe neppure un male, purché la si faccia convergere con esigenze reali e con la realtà tout court. Non è un’utopia, né la quadratura del cerchio: vorrebbe dire indirizzare, senza snaturarla, una tradizione di alto valore verso la concretezza, in una duttile e proficua dialettica. Se manca l’idealità si è succubi del pragmatico immediato, se manca la concretezza si crea disaffezione e frustrazione, che si risolve nel mancato appeal degli studi universitari: dati statistici alla mano, si riscontra che l’Università italiana ha smesso da un po’ di essere motore di crescita sociale, tanto a livello generale quanto a livello individuale.
Poi certo c’è, rispetto ad altri paesi europei, un finanziamento scarso dell’Università, come dell’istruzione in genere, e una non adeguata politica del diritto allo studio.
Ci sarebbe infine da verificare se la struttura produttiva italiana ha, e in che misura ha necessità di laureati e la volontà di acquisirli a sé. Ma è un discorso che lascio a chi più di me ne sa.
Sul piatto ci sono sei miliardi del Pnrr per Università e ricerca, più i fondi nazionali. Eppure l’università italiana continua ad avere un grosso problema: l’alto numero di studenti che si laureano e non riescono a trovare lavoro. Cosa non funziona nel meccanismo che collega studio e occupazione?
A mio avviso, la scarsa sinergia fra Università e mondo del lavoro; ma pure un mancato impegno da parte del mondo del lavoro da adoperarsi verso una formazione post-laurea finalizzata, che non può essere demandata solo all’Università, con la quale si deve certo collaborare, ma appunto collaborare: lavorare insieme.
Non si possono riversare tutte le colpe sull’Università, che pure ne ha. Il sistema produttivo (anche non immediatamente produttivo) ha esso pure le sue responsabilità, che non sono necessariamente una colpa, ma spesso il frutto della storia, della storia d’Italia. Quanto reale bisogno di laureati ha il mondo produttivo italiano? Si dice che il sapere e la ricerca siano volano di crescita e di progresso, e questo è vero; ma il mondo produttivo e più in generale la società, sfruttano realmente o almeno sollecitano nei fatti la crescita del sapere? Il discorso, a mio avviso, non deve essere fatto a senso unico: cioè unicamente nel senso che il mondo dell’istruzione deve guardare al mondo dell’economia e del lavoro, ad esso così mentalmente e di fatto subordinandosi; si potrebbe/dovrebbe anche inventare un percorso inverso: la produzione dovrebbe a sua volta guardare a ciò che l’istruzione elabora e fornisce, e da lì prendere spunto. Una prospettiva a senso unico mortifica entrambe le parti interessate.
Bisognerebbe poi, certo, creare un efficiente sistema di informazione e di orientamento rivolto agli studenti, che faccia loro conoscere quale tipo di studi dà una maggiore possibilità di impiego. Ma in senso capillare e non rivolto all’immediato, affinché la domanda/offerta di lavoro non diventi una gabbia esistenziale: mi iscrivo a tal corso di laurea perché mi garantisce o almeno mi facilita – si spera… – un lavoro, che però non mi piace e mi deprime. L’informazione dovrebbe essere completa in ogni campo e costantemente aggiornata e dettagliata per l’immediato e in prospettiva.
Come si posizionano, qualitativamente e quantitativamente, gli atenei sardi nel panorama nazionale?
Direi a un livello di piena dignità, con anche punte di eccellenza, come dati recenti pure dimostrano.
Come sono gli studenti che scelgono oggi l’università? Che ragazzi vede e incontra alle sue lezioni?
Vedo ragazzi alcuni pieni di attese e di speranza, ma forse un po’ meno consapevoli di ciò che li attende dopo la fine degli studi, soprattutto rispetto alla complicata realtà del mondo del lavoro; altri demotivati fin dal principio. Alcuni sono pienamente (auto)incentivati e motivati, e danno risultati più che sufficienti o anche di alta qualità, spesso più alta che non nel mitizzato passato; altri, diciamo così, ‘tirano a campare’, si preoccupano di superare esami più che di acquisire, rafforzare e stabilizzare conoscenze reali e critiche, che restano in loro volatili e approssimative. Il che è spesso il risultato di una difficoltà di elaborare un interesse che li coinvolga, e concentrarvisi, anche perché gli stimoli del loro mondo sono tanti, ma in genere confusi e disordinati. È peraltro difficile trovare una via maestra se si pensa in termini solo pragmatici e ci si amputa della passione: motore primario, benché non esclusivo, dell’apprendere. L’ideale sarebbe far coincidere o almeno far avvicinare passione e necessità in maniera convergente.
Maurizio Virdis (Roma 1949) nel 1972 si laurea in Lettere all’Università di Cagliari, dove dal 1974 diventa assistente della cattedra di Linguistica sarda e successivamente, dal 1986, professore associato di Filologia francese e dal 1992 di Filologia romanza. È stato professore ordinario (dal 2004-2005 al 30/09/2019) presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari, con insegnamenti di Filologia romanza, di Linguistica sarda e di Filologia sarda e italiana. Già presidente della Classe delle Lauree in Lettere e direttore del Dipartimento di Filologie e Letterature moderne. Ha fatto parte parte del Collegio dei docenti della Scuola di Dottorato in Studi filologici e letterari. È socio della SIFR: Società Italiana di Filologia romanza. Fa parte del direttivo del Centro di Studi filologici sardi. È autore di numerosi saggi e pubblicazioni scientifiche su letteratura francese e medioevale, linguistica e filologia sarda, letteratura e poesia sarda.