In breve:

Tempo a perdere

il-tempo

di Tonino Loddo

«È tempo di non perdere tempo», ha ripetuto il vescovo Antonello nel corso della Messa del Te Deum celebrata il 31 dicembre. Il tempo. Ci sembra di non averne mai abbastanza e ci affanniamo tutti, giorno dopo giorno, a determinarne esattamente l’incedere con agende e con precisi processi volti alla sua pianificazione e controllo. Abbiamo perfino inventato una scienza, per definire esattamente questi processi e le abbiamo dato un bel nome inglese, che la fa tanto esatta: Time menagement. E così abbiamo finito col vivere sempre di corsa, pensando di non doverne perdere neppure una minima frazione, persuasi che il perso è perso e non torna più. Ci sembra, così, di possederlo e di impedirgli di sfuggirci. Ci sembra, appunto. Perché niente appare più problematico nella storia del pensiero umano del desiderio di conoscere (e, quindi, di possedere) il tempo, come ci ricorda la celebre espressione agostiniana: «… se nessuno me lo chiede so cos’è, se cerco di spiegarlo, non lo so più…» (Confessioni, XI, 14).
Che, poi, la nostra concezione del tempo non sia proprio oggettiva ce lo dimostra un fatto sconcertante e singolare: non ne abbiamo mai abbastanza quando dobbiamo fare qualcosa che non ci va di fare e ne troviamo a bizzeffe quando facciamo quel che ci va di fare. Un esempio banale, tra tanti. Neppure troppo recenti studi di sociologia religiosa hanno rivelato che la maggior parte degli italiani non va a Messa «perché non ha tempo». Provare a chiedere in giro, per crederci! Più in generale, possiamo facilmente scoprire che quando ci si chiede di fare qualche attività che rompa il monotono andare dei nostri giorni e delle nostre ore, la risposta è immancabilmente quella: «Non ho tempo». Qualsiasi cosa ci si chieda di fare che non ci piaccia fare o che non ci interessi fare, quella è la risposta: «Non ho tempo». Proviamo a pensarci. E scopriremo che il nostro normale uso del tempo è legato esclusivamente a fattori soggettivi di interesse o tornaconto.
Ed allora occorre che ci chiediamo in che termini stia veramente la relazione tra il tempo e il cammino della nostra personale felicità. Sull’argomento, Erich Kästner ha scritto: «Ci sono due tipi di tempo. Uno può essere misurato col braccio, la bussola e il sestante. È quello che serve a misurare strade e terreni. L’altro modo di contare il tempo, la nostra memoria, non sa cosa farsene del metro e del mese, dei lustri e degli ettari. Ciò che si è dimenticato è vecchio. Mentre le cose indimenticabili sono sempre appena accadute. Il metro in questo caso non è l’orologio, ma il valore».
Ecco, assai probabilmente il trovare o non trovare tempo per fare qualcosa non è una questione di orologio ma una questione direttamente collegata al valore che quel qualcosa ha per noi. Perché, a ben pensarci, tutto ha inizio nel senso che diamo al nostro tempo: solo penetrando nell’orizzonte valoriale del nostro vivere quotidiano, possiamo comprendere cosa e perché dobbiamo (e possiamo) trovare il tempo di fare. Ebbene, a noi credenti oggi è chiesto di assumere proprio tale consapevolezza di valore: il tempo è un dono privilegiato, gratuito e liberante, e sprecarlo nel disvalore è quanto di più grave possiamo fare.
Ma per poter giungere a questa consapevolezza, occorre che passiamo da una concezione utilitaristica del tempo (legata all’interesse e al consumo), ad una concezione valoriale o, se vogliamo, provvidenziale, di esso, legata alla gratuità. Scopriremmo così che il tempo di perder tempo è finito e che – comunque – tutto quello che abbiamo perduto finora non è quello degli interessi che non abbiamo coltivato, ma quello delle disponibilità e delle relazioni che non abbiamo attivato. Scopriremmo anche che il tempo, come gran parte delle cose serie della vita, non si compra e non si vende, perché non ci appartiene, essendoci solo dato in uso. Scopriremmo, perciò, che perdere tempo è la più straordinaria idiozia che possiamo commettere.

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