Sanità obsoleta e cattiva politica: binomio distruttivo. A tu per tu con Nerina Dirindin.
Il Covid ha messo a dura prova il Servizio Sanitario Nazionale. Quali sono stati i punti di forza e di carenza?
Grazie alla Costituzione e alla legge 833 del 1978, l’Italia ha potuto affrontare l’emergenza Coronavirus senza aggiungere alle tante sofferenze per la malattia e alla paura della morte la preoccupazione del costo di trattamenti che avrebbero potuto essere insostenibili per molte famiglie italiane. Grazie alla Carta costituzionale e al Ssn, nessuna persona esposta al rischio di disoccupazione, fenomeno purtroppo non raro in questa profonda crisi economica, ha temuto di perdere il diritto alle cure insieme al posto di lavoro.
Non è poco. E ce ne stiamo rendendo conto (forse) solo ora, con la pandemia.
Abbiamo la fortuna di vivere in un paese che ha saputo dotarsi di un servizio sanitario disegnato in modo da garantire a tutti, indistintamente, la tutela della salute. Un patrimonio che ci è stato consegnato dalle generazioni che ci hanno preceduto e che dovremo consegnare intatto ai nostri figli, anzi possibilmente migliorato. Perché la sanità pubblica è un patrimonio che tutti noi prendiamo in prestito dai nostri figli.
Dal lato delle carenze, la pandemia ha colpito il nostro paese in un momento in cui il Ssn aveva raggiunto il suo punto di massima debolezza. Personale dipendente ridotto di oltre 40 mila unità nell’ultimo decennio, mancato ricambio generazionale di medici e infermieri (la cui età media è ormai da tempo superiore ai 50 anni), aumento del precariato e del ricorso a personale esterno (attraverso equivoche forme di intermediazione di mano d’opera), ospedali obsoleti e insicuri (poco flessibili di fronte a una emergenza pandemica), servizi territoriali impoveriti, scarsa cultura della prevenzione nei luoghi di vita e di lavoro, dotazione di posti letto ospedalieri fra le più contenute dell’Europa continentale, diseguaglianze geografiche e socio-economiche in crescita, disimpegno dei vertici decisionali a tutti i livelli.
Lo stato sociale (sanità, scuola, assistenza, previdenza) ha subito negli anni tagli e rimodulazioni di spesa; non pensa che occorra una inversione di rotta visto quanto accaduto con la pandemia virale?
Di fronte alle tante debolezze del nostro welfare, l’unica strada che possiamo cercare di percorrere è quella di impegnarci seriamente a “immaginare un altro mondo”, verso il quale procedere senza egoismi e inutili distinguo, con un paziente lavoro di trasformazione di ognuno di noi e della società.
«Storicamente le pandemie hanno forzato gli uomini a rompere con il passato e a immaginare un nuovo mondo. Questa volta non è diversa». Così scrive Arundhati Roy, scrittrice indiana e attivista dei diritti umani, per ricordarci che «abbiamo bisogno di un cambiamento». Un cambiamento reale, che non può limitarsi alle tante affermazioni di circostanza. Un cambiamento che ci impone di guardare al futuro senza il peso delle carcasse, degli errori del passato, delle sudditanze culturali e politiche nei confronti di chi guarda alla sanità solo come a un settore potenzialmente molto redditizio per gli operatori privati. L’emergenza coronavirus è in tal senso una opportunità.
La ricerca sui vaccini è stata tempestiva, ma l’Europa ha dimostrato le sue debolezze disorganizzative, sia nella distribuzione che nel contrastare la pandemia. Lei che opinione ha al riguardo?
La partita che si sta giocando per l’accesso al vaccino, essenziale per sconfiggere il virus, si sta rivelando complessa e iniqua. A oggi oltre 234 milioni di dosi sono state somministrate in tutto il mondo, di queste il 75% sono concentrate in soli 10 paesi mentre la maggior parte dei paesi a medio e basso reddito sono rimasti sostanzialmente esclusi da questa prima fase della campagna vaccinale.
Per questo abbiamo chiesto al Governo italiano di impegnarsi a operare ogni sforzo nell’ambito dell’Unione Europea, del G20 di cui ha la presidenza e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) per garantire la tutela della salute al di sopra di ogni protezione della proprietà intellettuale. E per rendere i vaccini economicamente accessibili, consentendo una produzione su larga scala per soddisfare l’intera domanda globale.
Questa situazione pandemica ha evidenziato le fragilità psicologiche di ognuno di noi specialmente se disabili, anziani, vulnerabili, persone sole. Noi come Chiesa abbiamo dato il massimo supporto spirituale e sociale. Lo stato invece?
L’emergenza è stata affrontata dalla sanità pubblica con grande dispendio di energie, risorse, professionalità e senso di responsabilità, soprattutto da parte di medici e infermieri. Di fronte a una situazione del tutto eccezionale, molti si sono prodigati per alleviare le sofferenze e contrastare l’epidemia. Di questo dobbiamo essere tutti grati. Ma non abbiamo fatto tutto il necessario e forse neanche tutto il possibile.
L’emergenza ci ha insegnato molto: ci ha insegnato che la rete dei servizi distrettuali, servizi vicini ai luoghi in cui vivono le persone e che possono intervenire prima che le condizioni di salute peggiorino in modo irreparabile, deve ritornare a essere uno dei pilastri fondamentali della sanità pubblica. Ci ha fatto capire che dobbiamo chiedere alle università di investire di più, e meglio, nella formazione dei medici e di tutti gli altri professionisti della salute. E che dobbiamo imparare a programmare la formazione del personale sanitario in base ai bisogni della popolazione e non alle esigenze del mondo accademico.
La pandemia ci ha insegnato, inoltre, che dobbiamo favorire ovunque possibile la permanenza degli anziani nell’ambiente in cui hanno vissuto da autosufficienti, nella comunità di cui hanno fatto parte, fra una moltitudine di persone in grado di offrire loro stimoli e solidarietà, e non solo fra persone con la loro stessa condizione di fragilità. Le morti nelle Rsa devono interrogarci non solo sulla organizzazione dell’assistenza nelle strutture in presenza di una pandemia, ma prima di tutto sul superamento delle strutture residenziali come soluzione ordinaria alla fragilità delle persone. Non è una questione di spesa pubblica. È una questione culturale, perché dobbiamo imparare a rispettare anche chi non è più produttivo.
In Sardegna come si può potenziare il Sistema Sanitario dal centro alla periferia, in particolare in queste situazioni particolari?
La Sardegna, come altre regioni, deve imparare a liberare la sanità dagli appetiti della (cattiva) politica e dagli interessi dei privati for profit. Deve imparare a confrontarsi regolarmente con il resto del Paese, perché il confronto è sempre illuminante. Deve rafforzare la prevenzione collettiva, nei luoghi di vita e di lavoro delle persone, nelle scuole e nelle comunità. Deve adeguare il suo sistema per renderlo capace di far fronte a eventi che ormai non sono più imprevedibili: le epidemie globali fanno parte della nostra vita, non dell’imponderabile. Deve attrezzarsi per progettare gli interventi che saranno possibili grazie all’ingente quantità di risorse europee pensando al futuro delle prossime generazioni, evitando di restare prigioniera delle vecchie ricette, puntando a una vera riqualificazione della sanità nella consapevolezza del compito storico cui siamo tutti chiamati. (Ted)
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