Ricercando l’anima
di Tonino Loddo.
Francesco Spatara, unico pittore sardo invitato alla Biennale di Venezia 2017, nei suoi quadri va oltre i volti e le forme, alla ricerca dell’anima, scomponendo e riunificando i brandelli perduti di mille esistenze.
«Fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo: la verità», dice Socrate sul punto di morte (Fedone, 65C). Ed è forse tutta qui, la chiave per tentar di comprendere la maggiore età artistica di Francesco Spatara ed il perché di quelle opere continuamente fatte, sfatte e ricomposte, di quei brandelli di materia che pendono tra larghi tratti di colore rilevati e tra le tinte che volentieri perdono brillantezza e volgono all’oscuro. Strappando strato dopo strato, l’artista furiosamente non solo denuda, ma squarcia perfino corpi e volti, incurante del sangue e dei tessuti che si slabbrano, quasi a volerla afferrare con le mani quell’anima che incessantemente cerca per poi, esausto, chinarsi sorpreso e spaventato dinanzi al mistero che ha dinanzi. Ed ogni volta, ogni opera è questo: cercare l’anima e poi trovarsi con gli occhi sbarrati dinanzi al mistero che si fa beffardamente sempre più profondo, sempre più insondabile, lasciando l’artista spossato, stupefatto e attonito.
Una pittura unica, originale, diversa non solo quanto alla tecnica utilizzata, ma soprattutto quanto al risultato estetico cui perviene e quanto all’emozione intensa, sconvolgente e coinvolgente che elargisce. Una pittura che scaraventa dentro alle fibre più intime dell’esistenza, svelando la fatuità e perfino l’inutilità della forma, trappola di mille e mille seduzioni, creata per impedire di scoprirne il segreto intimo, la verità terribile. Una pittura che dà la stessa sensazione di infinito che solo potrebbe dare – chissà – lo sbattere a viso nudo correndo a duecento all’ora contro un blocco di ferro arrugginito. Una pittura che, a differenza di mille e mille altre pitture, non scava nell’anima, secondo un’abusata maniera, ma scava i corpi cercando l’anima. Perché l’anima bisogna prima di tutto trovarla, per poterla sondare.
Ma Francesco Spatara, non sempre è stato così. Le lusinghe del figurativo l’hanno sedotto a lungo fino ad averle a noia. Fino a fargli gettare il pennello nel secchio della spazzatura. Non era quella la sua strada, non lo appagavano quelle figure identificabili nel mondo circostante, trionfo di colori e di forme. Così ha cominciato a scomporre e ricomporre, deformando le immagini ed allontanandosi mille miglia da ogni forma di rappresentazione di un reale che sempre più gli appariva effimero e sovrastrutturale. Inutile, perfino. È il tempo del deserto che dura fino alla metà degli anni Novanta, quando comincia a guardare con nuovo interesse ai cellophan di Alberto Burri e ai manifesti di Mimmo Rotella. È così che dà inizio ad un lungo cammino di progressiva essenzializzazione che non riguarda solo l’aspetto tecnico, ma che conforma il senso stesso della sua opera e della stessa sua arte; negli anni i cromatismi perdono via via ogni frangia sensoriale e ogni rapporto con la realtà e si pongono nudi, poveri e stupiti al cospetto del mistero.
Giunge così alle opere di questi ultimi anni in cui, soprattutto i neri, i colori scuri comunque uniformi, sono la testimonianza non di una povertà di espressione sopraggiunta nel tempo della crisi ma di una personale sintesi del linguaggio maturata sul filo di una ricerca estrema, drammatica e definitiva.
Gli strati di cellohpan su cui Spatara stende tormentate mani di colore vengono volta per volta strappati e ricollocati per essere ancora strappati e ricollocati in una equilibrata e non casuale veemenza che solo si ferma quando, dissolta la forma, comincia finalmente a comparire quell’altrove imprescindibile e misterioso che ammutisce anche la paura. Ma vi è, se possibile, un livello ancor più non ordinario in quest’arte che Spatara immagina anche in funzione dell’osservatore, in modo che anch’esso ne possa far parte compiendovi un’avventura d’anima. In occasione delle sue personali, infatti, egli ama talvolta predisporre l’intera esperienza in funzione d’una tale avventura, chiamando lo stesso spettatore a essere in qualche misura comprimario non solo della redazione dell’opera quanto piuttosto di un comune progetto spirituale. Con risultati sorprendenti.
Un’arte che può anche non produrre una suggestione visiva appagante, soprattutto nell’osservatore frettoloso e distratto, ma che certamente genera un’avventura in cui lo spirito naufraga e si sperde. E il dover prender atto che l’oltre si presenti come mistero invisibile e inconosciuto, nulla toglie alla profondità e allo stupore dell’esperienza di un mistero portato fino all’estremità del buio. Così, la pittura di Francesco Spatara diventa una forma di impaziente indagine sull’intimo dell’umano, perché vive nella tensione di capire, di stabilire nessi, di cercare risposte alla domanda ultima che ogni vivente porta sempre con sé: ma poi, davvero, chi sono io? Ecco perché i suoi cento e cento ritratti, le sue mille figure di donna raccontano cento e mille storie diverse, perché diversa è ogni storia e diversa è ogni anima.
Ed ora, Francesco Spatara (Lamezia Terme 1960, tortoliese da sempre) compie il grande balzo dalla bottega di provincia e dalle aule del bel Liceo Artistico di Lanusei (dove da decenni insegna con passione Discipline Pittoriche) fino al grande palcoscenico mondiale della Biennale d’Arte di Venezia (padiglione Guatemala, presso lo storico Palazzo Albrizzi-Capello, dal 26 ottobre al 26 novembre), dove lo hanno chiamato critici del calibro di Danele Radini Tedeschi e Luciano Carini. Un salto che ha il sapore di un logico (ma tutt’altro che scontato!) punto di approdo dopo la partecipazione alla Triennale d’Arte di Roma del 2016 che molto deve anche alla passione dell’Onart Gallery di Firenze e alla sua curatrice Romina Sangiovanni. Un grande risultato per la sua genialità e la sua interminata ricerca artistica. Un grande onore per l’Ogliastra, il cui cielo è stato per lui prodigo di illimitate seduzioni.
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