Quel silenzio che non fa paura
di Fabiana Carta.
L’emozione e la curiosità di incontrare per la prima volta un vero monaco benedettino derivano dall’amore verso un grande romanzo, Il nome della rosa, e da tutto quello che avevo immaginato su quel mondo. «Andrea ti sta aspettando», mi dicono. Con gli occhi lo cerco ma non lo vedo, resto spaesata per un momento. Nessuna tonaca! Andrea si alza; un sorriso tra la lunga barba, una forte stretta di mano, pantaloncini e t-shirt. «Fa troppo caldo per la tonaca», dice.
Sono ormai passati 12 anni da quando è entrato nel monastero benedettino di San Pietro di Sorres, Borutta, in provincia di Sassari. Ma il sentiero che ha battuto per arrivare a questa scelta è disseminato di cadute, errori, perfino peccati…, perché i peccati non sono altro che una distruzione di sé. «Ho fatto una vita dissoluta, come la chiamano».
Andrea dopo la Cresima inizia il suo allontanamento dalla chiesa. Narra del suo primo lavoro, in un maneggio con i cavalli, sua grande passione. Estenuante. Un mondo senza pause, feste, non esiste Natale né Pasqua, non vi è differenza tra il giorno e la notte. «Dieci anni dopo ho iniziato a lavorare in un resort, avevo ritmi di lavoro devastanti. Così è iniziata la mia avventura spericolata». Si occupa di tante cose, ma soprattutto segue il maneggio frequentato da persone benestanti, vivendo un contesto di vita semplice e godereccia. «Posso dire, senza vergogna alcuna, che ho fatto uso di tutte le sostanze in circolazione, però senza arrivare a bucarmi. All’inizio era solo puro e semplice divertimento». Poi sono arrivati i problemi alla schiena, dolori lancinanti che nessuno è riuscito ad alleviare, «facevano effetto solo gli stupefacenti». Cattive compagnie, brutti giri, frequentazione di locali notturni. La vita andava allo sbando. «Nessuno si sarebbe mai aspettato la mia scelta di vita, tutti mi conoscevano per quello che ero».
Poi, il trasferimento a Como e un lavoro nella ristorazione. Come se nessun luogo fosse mai quello giusto, come se i problemi lo seguissero, neanche nel trasferimento trova la serenità che cercava. «A Como sono stato male, di nuovo problemi alla schiena e ad una gamba che si addormentava. Sentivo sempre una vocina, come un richiamo. Mi entrava in un orecchio e la lasciavo uscire subito, pensavo: non sono ancora pronto ad ascoltarla». Il rientro in Sardegna e la malattia aprono la strada a un cambiamento di prospettive, alla possibilità di fermarsi e riflettere.
Nel maneggio di Tortolì dove aveva ripreso a lavorare avviene l’incontro con il suo parroco di allora, don Giorgio, a cui dava lezioni di equitazione. Nasce un rapporto di confidenza. «Quando sono rientrato ad Arbatax mi sono riavvicinato alla chiesa e ho chiesto un colloquio con don Giorgio. Dalla nostra chiacchierata è partito tutto».
Nel percorso che segue quest’incontro c’è la confessione de i peccati, una liberazione totale dell’anima, un ritorno al vero sé. «Mi sentivo come san Paolo! Non posso dire di aver perseguitato la Chiesa, ma certo non me ne importava niente. Non so spiegare cosa sia successo dopo quell’incontro, fatto sta che continuavo a sentire quella vocina». Per Andrea diventa fondamentale tagliare i ponti con le vecchie amicizie, con il mondo che aveva frequentato; e il riavvicinamento alla parrocchia di San Giorgio, all’oratorio, al coro della chiesa e la partecipazione ai pellegrinaggi gli regalano l’equilibrio che aveva perso.
Con emozione Andrea ricorda il giorno in cui, durante un pellegrinaggio ad Arezzo, il gruppo aveva fatto visita ad un monastero di camaldolesi dell’Ordine di san Benedetto. «Ho pensato subito: io non vado più via! Sono rimasto completamente folgorato da quell’ambiente. Ero circondato da fotografie di monaci che davano da mangiare ai lupi in mezzo alla neve. Il mio tempo fuori era scaduto. Era ora di rientrare alla base».
Comincia così il suo cammino monastico, come un colpo di fulmine, come quando capisci immediatamente che quello è il posto che fa per te. Provo a capire che cosa gli ha fatto pensare «questa è la vita che voglio». «Il silenzio, il raccoglimento, la disciplina. Dopo la prima settimana di prova volevo già restare in monastero, anche se non era possibile. Sono entrato ufficialmente il 18 dicembre 2005». Nel monastero di San Pietro di Sorres sono in otto, ognuno di loro ha un ruolo o una mansione, secondo il motto benedettino ora, lege et labora. Preghiera, studio, lavoro. Così, Andrea è diventato uno dei massimi esperti di restauro di libri antichi in Sardegna, anche se lui minimizza definendosi «aiuto-restauratore». Crea anche oggetti con la pelle, si occupa della preparazione di miscele d’erbe e liquori, ma all’occorrenza diventa anche giardiniere, elettricista e idraulico. Nella lettura, nella riflessione, nell’isolamento ha trovato la sua dimensione più vera. Lo provoco. Questa scelta è anche una bella fuga dal mondo! Non si scompone: «Entrare in monastero non è una fuga dal mondo; alla fine dipende tutto da te, è una cosa interiore. Io a volte faccio più una vita da monaco a casa mia che in monastero, perché oggi sono talmente affollati e aperti ai visitatori… In monastero ti devi scontrare con tanti caratteri diversi, siamo esseri umani. Vita communis, maxima poenitentia…».
Stiamo per salutarci quando, soddisfatto, mi mostra due tatuaggi: «Questi li ho fatti quando ero già monaco!, precisa. Fra poco mi tatuerò un’araba fenice che rinasce dalle ceneri». Lo guardo andar via e ripenso al De Andrè di Smisurata preghiera: «Ricorda Signore questi servi disobbedienti / alle leggi del branco, / non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti / come una svista / come un’anomalia / come una distrazione / come un dovere…».
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