“Prendersi cura” non è uno slogan
di Mons. Antonello Mura.
Oggi il tema della sanità è sempre all’ordine del giorno, non solo per la crisi pandemica. E il termine “cura” risuona continuamente nei discorsi, negli incontri e nelle iniziative pubbliche. Al di là della pandemia affiora una urgenza, una fretta, unanecessità di comprendere in profondità l’esperienza di una malattia molto più radicale, che sta mettendo in evidenza la fragilità della vita umana e, insieme, una serie di criticità che riguardano il sistema di vita nel quale abbiamo finora creduto.
Chi appare malato è il mondo nel suo insieme: di quali e quante malattie? Con quanti sintomi e con quali diagnosi? Quali farmaci andranno usati? Per ottenere che cosa? Quale guarigione? E con quali aspettative? Per questo l’idea di cura va continuamente aggiornata, perché stiamo comprendendo che non basta più pensare a un farmaco che faccia scomparire un sintomo, ma piuttosto a un modo diverso di stare al mondo.
Studiando con più realismo la gravità dei mali che affliggono il pianeta, comprendendone le connessioni, avvertendo l’urgenza di correre ai ripari, non tanto per scegliere una sorta di terapia salvavita, ma per programmare una strategia di cura che metta in atto tutte le risorse possibili per riparare almeno i danni che dipendono dal comportamento umano.
L’irruzione del virus in tutti i paesi della terra ha scoperchiato in maniera drammatica i diversi pericoli in cui incorre il pianeta. Non c’è solo l’emergenza sanitaria, ma anche quella economica e sociale, che trova fondamento nelle diseguaglianze tra i popoli, mai realmente affrontate.
L’impoverimento delle risorse del suolo, le deforestazioni, gli incendi, la cementificazione e l’inquinamento stanno trasformando la terra in un luogo non più adatto ai viventi. Se è vero che non tutto dipende dalla responsabilità umana, adoperarsi davvero per la sua “cura” significa non soltanto far fronte all’emergenza, ma elaborare pensieri, fare profezie, scegliere le priorità, orientare le abitudini, studiare, soccorrere, aiutare.
Aver cura non è solo accudire, non è solo risposta immediata a un bisogno, ma sguardo che va oltre ordinario, il provvisorio. È eccedere con passione nella cura.
Riflettendo in conclusione sugli ambiti quotidiani, fa tristezza verificare ad esempio una sanità imbrigliata dentro una dimensione utilitaristica, funzionale, senza progetto, senza futuro, senza visioni, che dimostra in tutta la sua brutale evidenza – localmente e globalmente – la differenza tra la cura e l’incuria. Basti pensare ai vecchi che si trascinano spenti e in solitudine nelle case di riposo, a quelli che rimangono in una abitazione priva di conforti affettivi, magari accuditi in maniera sbrigativa, privati di lacrime consolanti e di ricordi condivisi, con la mente che si spegne perché non si alimenta di nulla. Certo i problemi non sono semplici da risolvere. Ci occorrono però persone che inventino nuovi modelli di cura, nuove forme di integrazioni familiari e comunitari, impedendo che le esistenze umane finiscano con l’essere inumane. Che non vuol dire accanirsi per prolungare a tutti i costi il numero dei giorni, ma addestrarsi a preparare anche il distacco finale: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Salmo 89).
✠ Antonello Mura
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