In breve:

Perché il Dio di Baba è il tuo stesso Dio …

baba

di Fabiana Carta

«Ma lo sai che da piccolina avevo sempre con me dei bambolotti neri che appendevo nell’albero di Natale? E dicevo sempre: se da sposata non riuscirò ad avere dei figli andrò in Africa, per poterne adottare uno». In Africa Carmen poi non ci è andata, perché ha avuto due figli, ma un ragazzo l’ha adottato lo stesso. Carmen Corrias, 52 anni, un concentrato di vitalità e determinazione e Walter Pusole, 54 anni, suo marito, non amano la pubblicità. «Mia madre mi ricordava sempre il Vangelo: “quello che fa la tua mano destra non lo deve sapere la sinistra”». Ma chiedo che raccontino. Ed ecco la storia di Baba, un ragazzone senegalese con la cassettina in mano che Walter, un giorno del 2005, si trova dinanzi alla porta della sua falegnameria artigiana. Osserva in silenzio. Qualche parola, un po’ di curiosità. Fammi provare, gli dice. E il giorno dopo lo assume senza incertezze, poiché a Walter era bastato vedere come teneva in mano gli attrezzi per capire che era bravo.
Ma non era solo bravo e capace. Era anche responsabile e riservato e aveva legato subito con la famiglia. Lavoro e un sogno fisso: portarsi dietro la famiglia. Aveva persino una casa in affitto, Baba e Walter e Carmen gli avevano donato anche una stufa a legna, perché il caminetto non riscaldava per niente. L’inverno a Baunei non è come quello del Senegal. Quando fa freddo, fa freddo davvero. E Baba, quell’inverno del 2010, si era ammalato. «Il giorno prima gli avevo di non venire a lavoro perché da un po’di giorni vedevo che non stava bene, avvertendolo che al mattino successivo gli avrei portato un carico di legna.» Ma quella maledetta mattina Baba non risponde al telefonino. Walter deve quasi sfondare l’uscio per entrare. Baba è nel suo letto privo di sensi. Accanto al letto dei carboni ormai spenti dentro a un piccolo recipiente. L’intossicazione da monossido di carbonio, insieme ad una broncopolmonite in corso non riconosciuta, lo avevano mandato in coma.
Da quel momento inizia un’altra storia di accoglienza, contro chi voleva fregarsene, contro chi non vedeva speranze per lui, contro chi ne avrebbe volentieri dimenticato anche il viso. Tutto il paese si mobilita, ma è a loro, a Carmen e a Walter, che tocca iniziare viaggi e discussioni. E lacrime. «Prima hanno visto un ragazzo di colore. E chi se ne frega. Poi hanno capito che non era solo – dice Carmen con rabbia -; che c’eravamo anche noi, con lui! E poi, c’erano la moglie e i tre figli che lo attendevano in Senegal: che fine avrebbe fatto questo ragazzo se non ci fossimo occupati di lui? Non potevamo abbandonarlo». Lanusei, Jerzu, Flumini di Quartu, Cagliari. Le stazioni della via crucis hanno nomi di ospedali. «I medici ci dicevano che ormai c’era poco da fare. Ma non abbiamo mai mollato. Gli parlavamo della moglie e dei figli. Le lacrime che scendevano sul suo viso ci dimostravano che poteva capire».
Carmen ogni giorno va a trovarlo in ospedale. Intorno a lui solo disinteresse. La voce si fa quasi strozzata: «Ho dovuto combattere anche con le formiche. Quando entravo nella sua stanza d’ospedale c’era un odore fortissimo. Gli lavavo io le mani, il viso, i piedi. Mi portavo dietro tutto, bagnoschiuma, rasoio e sapone da barba. Ho imparato persino a fargli la barba. E gli portavo da mangiare, perché mangiava solo se ad imboccarlo ero io. Ma quando ho capito che anche il personale, solitamente cortese, aveva smesso di credere in una sua possibile riabilitazione, al punto da aver cessato quasi del tutto la fisioterapia, mi sono sentita tradita e impotente». E quando, al pomeriggio, Carmen deve riprende il suo viaggio verso casa, non le resta che piangere al sapere quel ragazzo solo in un lettino di ospedale.
Prova e riprova, si riesce a far arrivare a Baunei la moglie Fatou, che Carmen e Walter ospitano in casa per mesi, per consentirle di stare vicino al marito. Inutile dire che Carmen e Fatou non si capiscono. «Ho dovuto scaricare da internet il vocabolario di wolof, la lingua del Senegal. Mi sono dovuta arrangiare». Baba non migliora. È sempre immobile nel suo lettino di sofferenza. Carmen tenta l’ultima carta: si fa nominare tutore del ragazzo e riesce a farlo trasferire a Lanusei. «Ormai sta morendo», le ripetono. Ormai… Quell’avverbio la ferisce più di ogni altra cosa. Grazie al parroco e alla solidarietà di tante persone, raccolgono a Baunei la cifra necessaria per consentire anche ai figli di raggiungere il padre. A Lanusei combattono. Accanto ai medici adesso non c’è più solo Carmen, ma una famiglia unita. Un intero paese. «Come mai l’avete trasferito? Sicuramente non supererà la notte», le avevano detto il giorno in cui Baba era arrivato. Ma l’amore è più forte. E loro lo sanno. Baba comincia a sorridere. Dice perfino qualche parola. Ma l’ospedale di Lanusei non è luogo adatto a lui. Tempo un mese e ne viene ordinato il ricovero in una struttura specializzata, ma molto distante. «Hanno deciso di allontanarmelo ancora di più!», esclama Carmen, sconsolata. 135 chilometri ogni fine settimana.
Fino ad pochi mesi fa, quando riescono a portarlo a Baunei. «Siamo contenti che sia tornato in paese. Fa fisioterapia due volte al giorno. Non ci siamo mai arresi. La fede ci ha dato la forza di non mollare, insieme agli insegnamenti dei nostri genitori». Pregiudizi e commenti maligni non li hanno mai fermati. «Il problema è l’ignoranza, il fatto di credersi migliori di altri. Ma lo stesso Dio che ha creato Baba ha creato anche loro». Oggi Baba, pur immobile a letto, si fa capire e muove perfino un braccio. I suoi figli (18, 15 e 13 anni) frequentano la scuola e i gruppi sportivi. Carmen è sicura che rifarebbe tutto quello che ha fatto e si chiede perfino se avrebbe potuto fare di più. Ogni giorno va a trovarlo. Spesso le famiglie di Walter e di Baba stanno insieme anche a pranzo.
«Ma lo sai quanto è felice?».

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