In breve:

Pasqua di riflessione

Infermiera

di Giovanni Deiana.

La solidarietà tra uomini e nazioni per sconfiggere il virus dell’egoismo

Non sarà la solita Pasqua. Nella tradizione cristiana, la settimana di Pasqua è caratterizzata dalle manifestazioni di pietà popolare che coinvolgono migliaia di persone. A iniziare dalla domenica delle palme, fino alla via crucis e alle suggestive celebrazioni del giorno di Pasqua, era raro che un cristiano non si sentisse costretto a uscire dalla solita apatia per lasciarsi coinvolgere dalla pietà collettiva. Tutto questo, per quest’anno, sarà solo un ricordo e i più devoti si accontenteranno di seguire le cerimonie essenziali alla Tv.
Sarà l’occasione per riflettere. Probabilmente riscoprire il significato della Pasqua ci aiuterà anche ad affrontare da cristiani questa tragedia che improvvisamente è piombata su tutto il mondo. Nella tradizione biblica, le sciagure erano interpretate come punizioni divine. Il profeta Gioele, tanto per fare un esempio, visse un dramma abbastanza simile al nostro: un’invasione di cavallette distrusse le coltivazioni all’inizio dell’estate e di conseguenza tutti i frutti, grano, orzo e cereali andarono persi (Gl 1-2). La fame gettò nel terrore uomini e bestie. Furono organizzate cerimonie penitenziali per scongiurare Dio ad avere pietà.«Or dunque – oracolo del Signore –, ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male», Gl 2,12-13.
Questo cliché non vale per il Nuovo Testamento e per il cristianesimo. Il dolore fa parte integrante della vita e chi vuole seguire Cristo deve imparare da lui come trasformare la sofferenza in forza vitale. Siamo abituati a considerare la Pasqua secondo il modello elaborato dalla Chiesa primitiva e che San Paolo riassume in poche parole nella prima lettera ai Corinti: «Vi ho trasmesso… quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture» (15,3).
La morte di Gesù fu prima di tutto un omicidio. Se un cronista dei nostri giornali fosse stato presente in quel triste pomeriggio del venerdì santo alla crocifissione di Gesù, a tutto avrebbe pensato fuorché ai propri peccati o a quelli dell’umanità. Ci avrebbe informato che era stata semplicemente eseguita una sentenza, emessa dal sinedrio (che era il tribunale locale), regolarmente ratificata dal procuratore romano, Ponzio Pilato. Se poi il nostro ipotetico cronista avesse avuto il tempo di assistere a tutto il processo, avrebbe al massimo rilevato che all’imputato non erano state mosse accuse tali da giustificare una condanna e che i testimoni dell’accusa in tribunale erano caduti in vistose contraddizioni; insomma, uno spettacolo, se si vuole, di giustizia “farsa”, un processo imbastito alla meno peggio per eliminare una voce scomoda, che dava fastidio (e tanto!) al gruppo politico dominante, costituito dai Farisei. In pratica, uno dei tanti linciaggi politici a cui la storia di tutti i tempi ci ha abituati. Cristo ha trasformato questo delitto in resurrezione. Come? Ce lo spiega San Paolo: «Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome», (Fil 2,8-9). Accettare il piano del Padre non è stato facile neanche per Gesù: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». (Lc 22,42).
Gesù ha trasformato un delitto in forza di resurrezione. I primi a essere travolti dalla forza di Cristo risorto sono i suoi discepoli, quelli che a parole erano pronti a morire con Gesù e che invece, appena visto il pericolo, sono scappati a gambe levate. Gesù li trova rinchiusi nel cenacolo «per paura dei Giudei» (Gv 20,19). Quando Egli appare trasforma la loro paura. Certo non subito! È stata necessaria una “quarantena” di preghiera: ma dopo, la forza della resurrezione si è sprigionata e ha dato luogo al fenomeno della Chiesa primitiva di cui gli Atti degli apostoli ci tratteggiano le caratteristiche fondamentali: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune»(At 4, 32).
Secondo un altro testo di Atti (2, 42) i cristiani «erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere». La comunità primitiva esigeva che l’individuo vivesse la vita quotidiana nella solidarietà verso i meno fortunati ponendo al servizio di tutti anche i propri beni.
Ma non era una cosa nuova! La Chiesa aveva riscoperto una verità fondamentale presente nella Sacra Scrittura già nelle prime pagine. Dio ha creato il mondo per le sue creature e ogni persona che riceve da Dio la vita ha diritto ad avere i mezzi per la sussistenza. Se l’essere umano priva un suo simile di questo diritto fondamentale stravolge il senso della creazione, in quanto la terra con le sue risorse è stata concessa all’uomo non come individuo, ma come collettività (umanità); di conseguenza, ogni membro dell’umanità ha diritto ad avere la sua parte. La dimensione sociale della creazione risulta chiara in Gen 1,26-29: Dio crea l’uomo «maschio e femmina», quindi con capacità di dare la vita ad altri; poiché la terra è stata data alla prima coppia umana munita di capacità generativa, questo comporta che anche i discendenti abbiano uguale diritto ai mezzi di sussistenza. Se pensiamo che, secondo le statistiche, il 90% della ricchezza mondiale è posseduto dal 10% della popolazione ci rendiamo conto della profonda ingiustizia che governa il mondo!
Il virus dell’egoismo. Questa pandemia ha rivelato in larghi strati della popolazione e in modo particolare nel personale sanitario, una straordinaria capacità di rischiare anche la vita per assistere i malati. Più in generale ha fatto capire a tutti che non ci si può rinchiudere nel proprio piccolo mondo, ma che è necessaria la solidarietà! Se il coronavirus ci avrà fatto capire che non possiamo chiudere gli occhi su chi ha bisogno del nostro aiuto, ci avrà resi più cristiani. L’umanità riuscirà a debellare, speriamo presto, questo terribile nemico, ma come valore perenne e universale dovrà invece restare la solidarietà tra i singoli e specialmente tra i popoli.

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