Luce antica
di Bruno Mulas.
Percorrendo le strade del paese, sino a non più di cinquant’anni fa, ci si imbatteva in straordinari personaggi che, senza insegne e senza vetrine, portavano avanti singolari attività, oggi solo nei ricordi di chi ha vissuto quei tempi.
Tanto per citarne una delle più emblematiche, se le tue scarpe tendevano a sbadigliare o lasciavano filtrare l’acqua delle prime piogge potevi ricorrere al calzolaio, a due passi da casa. Ancora sconosciuto il regime dell’usa e getta, perché le scarpe quelle erano e quegli anni dovevano durare.
Un’attività ormai rimossa dall’immaginario collettivo, in bilico tra arte e mestiere, era quella del fabbricante di candele.
Nel passare in via San Sebastiano, a Ulassai, vieni attratto da una vetrina che fa intravedere una locandina, magari con su scritto Oggi Pardulas. Se entri, o soltanto osservi attentamente, ti accorgi di una serie di candele di varia grandezza e variamente istoriate, che fanno bella mostra di sé su una parete del locale.
Ogni qualvolta passo di lì mi tornano alla mente zio Giuseppe e zia Silvia, primi anni Sessanta, quando abitavano nella casa posta in Su Porci. Un profumo intenso di miele caldo che stordiva, la luce fioca del magazzino, il calderone sul fuoco a squagliare la cera d’api e loro, col mestolo, a scolare la cera fusa sugli stoppini appesi a un robusto bastone di corbezzolo.
Maria Depau, 29 anni, un compagno e due figli, è la titolare del Mani in pasta, laboratorio artigianale di pasta fresca ed è nipote d’arte. L’attività ereditata dai nonni materni, Giuseppe e Silvia, l’ha raccolta non per mestiere, ma per passione. Perché, come spiega Maria, non è un mestiere che ti possa dare da vivere. E allora? «Allora lo devo fare, è più forte di me. Non posso abbandonare all’oblio questa storia che ha accompagnato la vita dei miei nonni e, prima ancora, di mio bisnonno Pietro».
Spiega ancora Maria che, nonostante l’impegno gravoso della sua attività artigianale, che svolge nel rispetto della tradizione culinaria ulassese, si ritaglia il tempo per conservare la sapienza di un’attività unica, destinata altrimenti a scomparire. Ha chiesto con forza, prima a sua nonna e poi a sua madre, di entrare nel ristretto cerchio dei detentori delle tecniche di lavorazione di questo prodotto. Con la curiosità, la pazienza e quella passione che non la lascia in pace, si impadronisce del mestiere e adesso sa, ne può parlare e spiegare di cosa si tratta.
Il prodotto finito della candela o del cero è l’ultimo anello di una filiera naturale. Si parte dalle api: suo nonno le allevava, suo padre e il compagno le allevano. Le api producono il miele, ma anche un sottoprodotto utile all’attività, la cera.
Tradizione familiare vuole che il miele venga utilizzato, in gran parte, per produrre il torrone, quello giallo ambrato e profumato, non quello commerciale, bianco candido che sa di zucchero. Poi la cera, ripulita dalle scorie, viene fusa in un calderone e con la pazienza e la tecnica, affinata in oltre un secolo di attività, vengono alla luce le candele, i ceri e altri prodotti particolari che vengono, di volta in volta, commissionati. Ma chi commissiona questi prodotti? «Quasi esclusivamente i fedeli che si accingono a celebrare le funzioni ricorrenti nella vita di un cristiano cattolico – spiega la giovane artigiana ulassese – nello specifico il battesimo e il matrimonio. Fino a qualche tempo fa anche in occasione delle funzioni funebri. C’è chi li utilizza più semplicemente come ex voto. Attualmente le comunità di Ulassai e Perdasdefogu sono quelle più legate a queste pratiche. Ultimamente, forse per la mia abitudine di esporle nel laboratorio artigianale, vengono richieste anche da qualche turista per arredo o collezione».
Una passione che restituisce a Maria valori e gratificazioni profonde: «Ritrovo principalmente il senso dell’appartenenza, il senso della famiglia. Mi spiego. Mi fa sentire parte di una scuola di vita dedicata alle cose genuine, lavorate con sudore e dignità, rispettando i cicli naturali, senza forzature.
C’è poi il godere dei legami di discendenza da persone che, anche in tempi bui, hanno tenuto viva questa passione per poi consegnarla a me. Ancora, il sentirmi responsabile di un lascito spirituale importante: trasmettere alle generazioni future i ritmi lenti del lavoro artigianale e l’amore per le cose semplici, fatte a mano, così come mi è stato insegnato. Infine, la soddisfazione di fare qualcosa che mi piace e che appaga l’esigenza di creare con le mie mani».
Maria dissimula, ma è emozionata, perfettamente capace di trasmettere a chi la ascolta e la osserva lavorare, la sincera passione che la guida, descrivendo nei particolari i passaggi della lavorazione. Mi informa, ad esempio, del fatto che le candele venivano arricchite con una sottilissima fettuccia di carta dorata, “s’indoru”, non più reperibile in commercio. Maria oggi interviene su ogni pezzo, eseguendo un delicato disegno con lo smalto. Ne ho visti di bellissimi.
Forse vorrebbe dirmi di quante volte ha accompagnato sua nonna e sua madre alle feste paesane per la vendita dei ceri e delle candele e dell’atmosfera che si respirava. Di quando, alla prima assenza della nonna, all’ingresso di settentrione della Chiesa campestre di Santa Barbara, le persone si commuovevano. O del tributo offerto alla nonna dai foghesini, in Piazza della Longevità, con la sua effigie nell’atto di vendere i ceri in via Roma, in occasione dei festeggiamenti del SS. Salvatore, davanti al portone di casa degli amici Cabitza.
Da questi ricordi emana una luce particolare. Una luce antica che scalda il cuore.
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