Le parole dell’odio
di Angelo Sette.
Qualcuno non ha retto e ha compiuto gesti estremi; tutti hanno riportato ferite laceranti e indelebili; pochi sono riusciti a reagire e ribellarsi.
Sono le vittime delle parole di odio che rimbalzano nelle reti social. Parole e frasi malefiche, intrusive e corrosive che travolgono tanti, preferibilmente persone fragili e in difficoltà: donne, stranieri, minoranze, bambini e adolescenti. Colpiscono singoli individui, gruppi o intere etnie; soggetti considerati “inferiori” e “diversi”, e quindi potenziali veicoli di minacce e contaminazioni, anche solo perché portatori di quelle novità e originalità che rendono il mondo interessante, plurale e dinamico.
Parole cattive che hanno conseguenze dirette e durature sulla vittima (stress, paura, perdita di fiducia e di autostima, angoscia e ritiro sociale); ma che comportano effetti deleteri anche a livello sociale quali l’assuefazione e desensibilizzazione all’odio, la sottovalutazione della sofferenza dell’altro, il consolidamento e la moltiplicazione dei pregiudizi, delle intolleranze e delle discriminazioni.
Il fenomeno travalica la semplice aggressione e offesa personale per assumere una dimensione e una funzione sociale, e replica le note dinamiche del pregiudizio, del capro espiatorio e della pseudospeciazione (non riconoscere come umani altri umani), prodotti della contaminazione paranoica delle masse, a opera di certa propaganda e informazione senza etica, visione e responsabilità.
Esso agisce nella realtà virtuale, ma concretizza il suo potenziale distruttivo in ambienti concreti di vita e di relazione, scuole, quartieri, aggregazioni.
Isolare e annientare la persona o la comunità, storicamente ha assolto la funzione di compattare società e gruppi, insicuri e succubi, demarcando un noi e un loro; noi-buoni-belli-eletti; loro-cattivi-brutti-reietti. Un modo di fare proseliti e di attrarre persone alla propria causa e sotto la propria influenza.
Il fenomeno nella sua dimensione sociale pertanto è noto e atteso. La novità consiste nello strumento, che ne amplifica a dismisura la portata e il tasso offensivo e ne stabilizza nel tempo la memoria e l’effetto. Con la specificità della lontananza fisica dalla vittima che agevola atti senza freni, mediazioni e controlli; senza responsabilità e possibilità di riparazione.
All’origine c’è vuoto affettivo, frustrazione e miseria culturale, ma anche cattiveria e disumanità: povertà mentali in cerca di illusorie conferme appaganti e difensive. Ma soprattutto c’è la gravissima carenza educativa in una società, confusa e distratta, spesso tollerante e complice, la cui incapacità di intercettare e contrastare le immagini e le parole dell’odio, lascia che l’impulso prevalga sul pensiero, la competizione sulla solidarietà e la logica dell’economia e del profitto sulle ragioni dell’umanità. I social media non sono il male né la causa del male; sono opportunità comunicative preziose, persino utili a svelare l’animo umano e i suoi segreti. La distruttività è per intero prodotto dell’uomo, se incapace di educare, di pensare e di amare.
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