Le madri

di Claudia Carta.
La morte di un figlio. Niente di più innaturale. Una madre svegliata nel sonno. Scopre, sente. Lo strazio di un pezzo di carne strappato dal suo corpo. E tutto ciò che è sempre stato non è più.
Un urlo. Quello del dolore. Novella Pietà di madre che spera ancora per un attimo di tenere tra le braccia un bambino ormai uomo. Quello che vorrebbe spezzare silenzi e abbattere muri, infrangere meschinità e dissolvere paure, svelare moventi e richiamare dignità.
1897. Tertilo, presso Funtana ’e Littu, campagne di Nuoro. Mauro Manca, Muredda, trentanni, muore per mano di Giuseppe Lovicu, con la complicità di Elias e Giacomo Serra Sanna. È il codice della vendetta sarda.
Francesco Ciusa, 14 anni, si precipita a Funtana ’e Littu e lì vede una madre spuntare dal ciglio di un monte «urlante, come ombra nera di malaugurio» avvicinarsi al figlio ucciso, «e poi il suo chiuso silenzio accanto al cadavere». Una triste e lontana nenia di morte (sa ria) riempie cielo e terra.
La madre dell’ucciso – che Francesco Ciusa realizza tra il 1906 e il 1907 e porta alla Biennale di Venezia – è una donna vecchia, triste, sofferente, con le ginocchia alzate al petto, le braccia intorno, il busto eretto, la testa alta e le rughe a scavarle il viso. È madre di tutti i figli ammazzati. Per odio, per follia, per scherzo, per niente.
Ma anche Caino ha una madre. Una donna che, prima o poi, vedrà “morire” il figlio che credeva di vedere e di sapere. Sangue del suo sangue. Cresciuto con amore. Non può essere lui. Oltre ogni presunzione di innocenza. Eppure quel sangue ha sparso altro sangue. La mano stringe un coltello o impugna una pistola. Colpisce per uccidere. E anche qui la morte risuona truce. Anche qui una madre diventa pietra. Il dolore come l’amore. Oltre ogni misura. Non giustifica, ma accompagna, perché nessuno tocchi Caino. In quel chiuso silenzio che solo le madri sanno avere.
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