Le chiamano regole
di Claudia Carta.
“Un topo di terra, per sua disgrazia, fece amicizia con una ranocchia. La ranocchia, malintenzionata, legò la zampa del topo alla sua e così se ne andarono insieme, in un primo tempo, a mangiar grano per i campi; poi si avvicinarono all’orlo di uno stagno e la ranocchia trascinò dentro il topo nel fondo, mentre essa sguazzava nell’acqua. Il povero topo si gonfiò d’acqua e affogò, ma galleggiava, legato alla zampa della rana. Lo vide un nibbio e se lo portò via tra gli artigli. La rana, legata, gli tenne dietro e servì anch’essa per la cena del nibbio”.
Sarà anche classica la favola di Esopo, ma è nelle cose piccole e semplici che risiede il senso di quelle grandi e complesse. La morale, ci dicevano a scuola. Sì, proprio quella. Ora, siamo umanamente tutti dalla parte del topo, poveraccio, troppo buono e convinto della buona fede della ranocchia. Mai fidarsi delle apparenze, direbbe qualcuno. Sembrava tanto cara, aggiungerebbe un altro. Il topo è uno stupido, chioserebbe il terzo. Però, la rana non è che possa fare il bello e il cattivo tempo come crede. O meglio, lo può fare una volta, lo può fare due – e il topo di terra nel frattempo si gonfia d’acqua e galleggia stecchito – può arrivare a farlo una terza volta. Fino a quando arriva il nibbio che porta a casa doppia razione di cena. E qui potete scegliere: la ruota gira per tutti – che in genere va per la maggiore – seguita immediatamente da “esiste una giustizia divina”, che pochi dubbi lascia circa la giusta distribuzione di premio e castigo.
Io però preferisco un altro punto di vista: la mia libertà finisce dove inizia la tua. Perché posso anche legarmi a te a doppia mandata e andare nei campi a mangiare il grano, ma quando arriviamo sull’orlo dello stagno, tu ti devi fermare perché io nell’acqua non ci posso entrare. E lo sai benissimo per mille ragioni: perché mi conosci, perché sai chi sono e come vivo. Perché te l’ho detto dal principio. Eppure, mi trascini dentro ugualmente. Nessuno se ne abbia a male, allora, se sopraggiunge il nibbio e – senza mezzi termini – sistema la situazione. L’etica della reciprocità insegna quel “non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”.
Regole. Le chiamano così. E ci sono un’infinità di citazioni e aforismi più sul fatto di infrangerle, le regole, che sul rispettarle. In un eterno, sconfinato gioco a chi più riesce a farla franca, a fregarti, a fartela sotto il naso. E se uno ti fa notare che hai sbagliato, apriti cielo! Mi direte: «È l’Italia». Mi verrebbe da rispondere: «E si vede!». Ma a rischio di sembrare obsoleta, non ci sto. Specialmente davanti a chi oggi ostenta tutto questo nella piazza più globale che esista, la rete, dove qualunque cosa diviene notiziabile, ma dove le notizie vere si contano sulle dita di una mano. Dove tutti, invece, sono eccellenti a puntarlo, il dito, e a emettere sentenze, detentori di verità assolute “da monitor e tastiera”, in uno tsunami di luoghi comuni e accuse che fanno trasudare tristemente la più bieca ignoranza.
E qui anche noi, operatori della comunicazione, non siamo esenti da colpe, anzi. Nel rincorrere lo scoop che fa vendere i giornali in edicola o strappare i consensi sui social, perdiamo di vista l’essenziale che risponde a una sola domanda: la notizia qual è? Ecco: l’opportunità di scrivere e parlare. È davvero utile? «Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, e infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire». Le regole, ovvero l’indispensabile cornice del vivere civile.
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