di Anna Lisa Lai e Paola Diana.
«La comunicazione del malessere dei bambini non inizia dalla bocca di chi parla ma dall’orecchio di chi ascolta». Questa frase del dottor C. Foti – psicologo, psicoterapeuta, direttore del Centro Studi Hansel e Gretel – evidenzia l’importanza dell’ascolto quale strumento imprescindibile nella prevenzione e cura del malessere sia psicologico che sociale.
Proviamo a pensare a come si reagisce quando una persona comunica una situazione di disagio. Spesso le parole sono indirizzate all’azione: incoraggiando a trovare una soluzione; rinviando il carattere temporaneo della condizione nella quale ci si trova: «Ci vuole tempo. È solo un brutto periodo. Vedrai che passerà…»; esortando ad avere fiducia nel prossimo, a coltivare la speranza: «Andrà meglio». Frasi pronunciate con l’intento sincero di aiutare, di offrire conforto e vicinanza. Inviti e sollecitazioni, però, che nella realtà potrebbero non restituire quel senso di accoglienza e comprensione di cui la persona ha bisogno ma, al contrario, essere recepite come uno sminuire la portata della propria sofferenza.
Questa è l’esperienza che hanno vissuto molte donne maltrattate. Quando giungono al centro antiviolenza raccontano una storia trascorsa nella solitudine di un contesto non in grado di prendere contatto con il loro dolore. Le poche volte che si sono concesse un momento di condivisione, le risposte ottenute hanno segnato un confine tra il proprio bisogno di essere riconosciute e il bisogno dell’altro di mostrarsi sollecito. Tante volte si sono sentite manifestare una solidarietà che, nel suo richiamo ad accogliere le difficoltà e i problemi di coppia come naturali espressioni di una relazione fondata sull’amore, trascurava la presenza e il comportamento di un partner che quotidianamente disattendeva e violava quel patto di amore e rispetto reciproco alla base di un rapporto affettivo.
Quando l’ambiente non è in grado di offrire supporto, si rafforza una condizione di abbandono e isolamento che ostacola la possibilità di esprimere una richiesta aiuto.
Dobbiamo aver consapevolezza che la priorità di chi vive un momento difficile è quella di affidare le parole e il loro contenuto emotivo a una persona disposta a sentirle, riconoscerle, comprenderle. Questo è il senso dell’ascolto.
L’ascolto indica una disposizione ad accettare di sentire l’altro, con attenzione e partecipazione, lasciando che il racconto trovi spazio dentro di noi e contatti il nostro essere, le nostre emozioni. Colei che è deputata al ruolo di ascoltatrice deve rappresentare per la donna quel testimone soccorrevole di cui parlava Alice Miller, psicoanalista, cioè «una persona che sta accanto (sia pure episodicamente) […] e […] offre un appoggio, un contrappeso alla crudeltà che caratterizza la sua vita quotidiana”. Dato questo presupposto, l’operatrice del centro antiviolenza è colei che assicura la funzionalità, la validità, della relazione. Attraverso la sua capacità di saper stare in modo autentico, non giudicante ed empatico nella interazione con la donna, ne stimola la consapevolezza, ne sostiene il processo di elaborazione, attiva le risorse di autosostentamento, affinché possa percepirsi supportata e, allo stesso tempo, diventi e si senta artefice del proprio cambiamento in senso positivo.
La relazione d’aiuto si fonda sulla capacità di essere contemporaneamente presenti a se stessi e all’altro. Vale a dire che quando viviamo un’esperienza che ci porta a contatto con una vittima di abuso o maltrattamento, la possibilità di rappresentare per lei un ambiente di sostegno dipende dalla nostra capacità di portare l’attenzione al suo vissuto e contemporaneamente non trascurare la risonanza che ha in noi. Il nostro atteggiamento deve essere di apertura e amorevolezza affinché ci predisponiamo ad «accettare che una quota di dolore entri dentro di noi». (Claudio Foti). Se la donna trae la percezione di essere accolta porrà con fiducia nelle mani dell’operatrice il suo vissuto.
Il centro antiviolenza, quindi, deve rappresentare ed essere avvertito come una base sicura, un ambiente protetto, che offre stabilità in una vita che appare confusa e piena di incertezza. Colei che vi si rivolge è una persona provata nell’animo. Il maltrattamento, spesso protratto per lunghi anni, l’ha resa fragile, estremamente insicura, ma anche ipervigile, nei rapporti interpersonali. Un aspetto da non trascurare nel momento in cui ci si approccia con lei. Dobbiamo innanzitutto contattare empaticamente quella parte diffidente, non avvezza – dopo anni di solitudine e incomprensione – a condividere il proprio dolore, la paura, il senso di colpa, la vergogna, la rassegnazione.
Questo è quello che cerca di essere il Centro Antiviolenza Mai più Violate, aperto a Tortolì il 14 agosto 2012 dall’Associazione FiguraSfondo – Onlus. Un luogo che, nell’anonimato e nella riservatezza, offre gratuitamente a tutte le donne vittime di violenza e ai loro figli/e minori, supporto psicologico, consulenza sociale e legale.
Il centro è prossimo a compiere sei anni di attività. Un periodo di maturazione, nel corso del quale, le donne incontrate hanno insegnato alle operatrici a definire le priorità: percepire quello spazio come un luogo di autenticità, dove poter rivelare se stesse; dedicare tempo all’ascolto, avendo consapevolezza che è proprio l’orecchio di chi ascolta a donare un sostegno e uno stimolo per avviare quel cambiamento che, seppur gradualmente, apporterà nella loro vita un senso di benessere.
L’ascolto, prima forma di aiuto
di Anna Lisa Lai e Paola Diana.
«La comunicazione del malessere dei bambini non inizia dalla bocca di chi parla ma dall’orecchio di chi ascolta». Questa frase del dottor C. Foti – psicologo, psicoterapeuta, direttore del Centro Studi Hansel e Gretel – evidenzia l’importanza dell’ascolto quale strumento imprescindibile nella prevenzione e cura del malessere sia psicologico che sociale.
Proviamo a pensare a come si reagisce quando una persona comunica una situazione di disagio. Spesso le parole sono indirizzate all’azione: incoraggiando a trovare una soluzione; rinviando il carattere temporaneo della condizione nella quale ci si trova: «Ci vuole tempo. È solo un brutto periodo. Vedrai che passerà…»; esortando ad avere fiducia nel prossimo, a coltivare la speranza: «Andrà meglio». Frasi pronunciate con l’intento sincero di aiutare, di offrire conforto e vicinanza. Inviti e sollecitazioni, però, che nella realtà potrebbero non restituire quel senso di accoglienza e comprensione di cui la persona ha bisogno ma, al contrario, essere recepite come uno sminuire la portata della propria sofferenza.
Questa è l’esperienza che hanno vissuto molte donne maltrattate. Quando giungono al centro antiviolenza raccontano una storia trascorsa nella solitudine di un contesto non in grado di prendere contatto con il loro dolore. Le poche volte che si sono concesse un momento di condivisione, le risposte ottenute hanno segnato un confine tra il proprio bisogno di essere riconosciute e il bisogno dell’altro di mostrarsi sollecito. Tante volte si sono sentite manifestare una solidarietà che, nel suo richiamo ad accogliere le difficoltà e i problemi di coppia come naturali espressioni di una relazione fondata sull’amore, trascurava la presenza e il comportamento di un partner che quotidianamente disattendeva e violava quel patto di amore e rispetto reciproco alla base di un rapporto affettivo.
Quando l’ambiente non è in grado di offrire supporto, si rafforza una condizione di abbandono e isolamento che ostacola la possibilità di esprimere una richiesta aiuto.
Dobbiamo aver consapevolezza che la priorità di chi vive un momento difficile è quella di affidare le parole e il loro contenuto emotivo a una persona disposta a sentirle, riconoscerle, comprenderle. Questo è il senso dell’ascolto.
L’ascolto indica una disposizione ad accettare di sentire l’altro, con attenzione e partecipazione, lasciando che il racconto trovi spazio dentro di noi e contatti il nostro essere, le nostre emozioni. Colei che è deputata al ruolo di ascoltatrice deve rappresentare per la donna quel testimone soccorrevole di cui parlava Alice Miller, psicoanalista, cioè «una persona che sta accanto (sia pure episodicamente) […] e […] offre un appoggio, un contrappeso alla crudeltà che caratterizza la sua vita quotidiana”. Dato questo presupposto, l’operatrice del centro antiviolenza è colei che assicura la funzionalità, la validità, della relazione. Attraverso la sua capacità di saper stare in modo autentico, non giudicante ed empatico nella interazione con la donna, ne stimola la consapevolezza, ne sostiene il processo di elaborazione, attiva le risorse di autosostentamento, affinché possa percepirsi supportata e, allo stesso tempo, diventi e si senta artefice del proprio cambiamento in senso positivo.
La relazione d’aiuto si fonda sulla capacità di essere contemporaneamente presenti a se stessi e all’altro. Vale a dire che quando viviamo un’esperienza che ci porta a contatto con una vittima di abuso o maltrattamento, la possibilità di rappresentare per lei un ambiente di sostegno dipende dalla nostra capacità di portare l’attenzione al suo vissuto e contemporaneamente non trascurare la risonanza che ha in noi. Il nostro atteggiamento deve essere di apertura e amorevolezza affinché ci predisponiamo ad «accettare che una quota di dolore entri dentro di noi». (Claudio Foti). Se la donna trae la percezione di essere accolta porrà con fiducia nelle mani dell’operatrice il suo vissuto.
Il centro antiviolenza, quindi, deve rappresentare ed essere avvertito come una base sicura, un ambiente protetto, che offre stabilità in una vita che appare confusa e piena di incertezza. Colei che vi si rivolge è una persona provata nell’animo. Il maltrattamento, spesso protratto per lunghi anni, l’ha resa fragile, estremamente insicura, ma anche ipervigile, nei rapporti interpersonali. Un aspetto da non trascurare nel momento in cui ci si approccia con lei. Dobbiamo innanzitutto contattare empaticamente quella parte diffidente, non avvezza – dopo anni di solitudine e incomprensione – a condividere il proprio dolore, la paura, il senso di colpa, la vergogna, la rassegnazione.
Questo è quello che cerca di essere il Centro Antiviolenza Mai più Violate, aperto a Tortolì il 14 agosto 2012 dall’Associazione FiguraSfondo – Onlus. Un luogo che, nell’anonimato e nella riservatezza, offre gratuitamente a tutte le donne vittime di violenza e ai loro figli/e minori, supporto psicologico, consulenza sociale e legale.
Il centro è prossimo a compiere sei anni di attività. Un periodo di maturazione, nel corso del quale, le donne incontrate hanno insegnato alle operatrici a definire le priorità: percepire quello spazio come un luogo di autenticità, dove poter rivelare se stesse; dedicare tempo all’ascolto, avendo consapevolezza che è proprio l’orecchio di chi ascolta a donare un sostegno e uno stimolo per avviare quel cambiamento che, seppur gradualmente, apporterà nella loro vita un senso di benessere.