Il magistero di Francesco una vera rivoluzione l’ha compiuta: ha sconfitto quella che il teologo francese Luis Bouyer chiamava «nausea della parola». Quella nausea provocata dall’inflazione di parole abusate, svitalizzate, frutto di una predicazione non genuina, astrusa, moralistica. Una predicazione che, a motivo delle sue deficienze, già prima del Concilio aveva contribuito alla desertificazione materiale e spirituale ed è stata riconosciuta poi tra le cause più profonde della progressiva scristianizzazione.
Ne prendeva atto lo stesso Osservatore Romano già agli inizi degli anni Sessanta, facendo notare come in particolare l’omelia apparisse «una convenzione cui troppo spesso il cristiano è obbligato a sottomettersi quando si reca in chiesa. Una specie di pedaggio che deve pagare per soddisfare al precetto della messa festiva», tanto da spingere non pochi a preferire le messe nelle quali non si predica. «La disistima tra i fedeli e tra gli stessi sacerdoti verso questo ministero è ormai un luogo comune, un fatto indiscutibile. Negarlo o trascurarlo sarebbe porsi fuori della realtà», affermava allora il quotidiano della Santa Sede e il dato, in sé, non poteva non indurre i teologi a riflettere su questa realtà divenuta marginale quando non addirittura dannosa. La crisi della predicazione perciò, nella quale papa Bergoglio irrompe, non è una novità dei nostri tempi, anche se questi hanno contribuito a manifestarla in tutta la sua drammaticità.
Nella sua prima Esortazione apostolica, Francesco non esita a rilevare: «Molti sono i reclami… e non possiamo chiudere le orecchie» (EG 135). Non solo. Il Successore di Pietro pone l’ufficio stesso della predicazione al centro della sua Esortazione programmatica. L’intera parte terza dell’Evangelii Gaudium riguarda l’omiletica, quella che, unita alla prima, costituisce il fulcro sostanziale dell’Esortazione: l’annuncio della salvezza. E non solamente l’atto innovativo delle sue omelie feriali ma tutta la sua predicazione ordinaria dispiegano questa centralità. L’oralità, la parola intesa nel suo statuto comunicativo e relazionale che è propria della Parola di Dio, è la cifra distintiva del suo ministero. Francesco ha così rimesso la predicazione in primo piano. Di più: l’ha rimessa in ogni piano. Ha compiuto e continua un’opera decisiva, portante, fondante, ben più ardita di una riforma funzionale. Una riforma della quale è cuore ma anche inizio e fine, perché lo scopo ultimo è la fede e la crescita della Chiesa.
Le ragioni di questa scelta decisiva, che costituisce quindi non un ‘magistero piccolo’ ma la sorgente di un pontificato, risiedono nella natura stessa di questo ministero e alla sua funzione nella vita della Chiesa. Che cos’è la predicazione? Cos’è questa realtà fondamentale che se tenuta in un modo causa la fede e tenuta in modo diverso ne causa l’affievolimento e la perdita? Che cosa significa predicare? Sono domande a cui risponde la teologia della predicazione, che è alla base dell’elaborazione dell’Evangelii Gaudium e quindi del pensiero di Francesco. È la scienza specifica che prende avvio alla fine degli anni Trenta con il teologo austriaco Josef Andreas Jungmann – poi membro della commissione per la Riforma liturgica al Concilio. Ne ‘Il Vangelo e la nostra evangelizzazione’, Jungmann osservava lo stato di anemia spirituale tra il popolo e lo imputava, almeno in parte, alla proposizione della fede fatta dal clero. Un clero che non aveva consapevolezza della natura di quest’ufficio e per formazione considerava la predicazione come insieme di norme da inculcare e una volgarizzazione dei trattati teologici. Ne aveva trascurato l’aspetto vivo della storia della salvezza: quella che ci mette in diretto contatto con Cristo, l’aspetto cioè più propriamente kerigmatico che è l’annuncio della Buona Novella. È quanto più tardi riprenderà anche Hugo Ranher in ‘Una teologia della predicazione’, il quale per kerigma intende «la predicazione delle verità divine secondo quella connessione in cui le ideò e anche le proclamò la rivelazione di Dio nel suo messaggio ordinario».
«La Chiesa non evangelizza se non si lascia evangelizzare continuamente dalla Parola di Dio», afferma il teologo gesuita Domenico Grasso ne ‘L’annuncio della salvezza’. E spiega come in concreto ciò significhi una predicazione centrata sulla Scrittura e sulla storia della salvezza sperimentata dal messaggero nella propria vita così come ebbe luogo con gli apostoli e nei primi secoli della Chiesa, nella predicazione di Cirillo di Gerusalemme, di Agostino e in genere dei Padri fino al Dodicesimo secolo. E sono proprio questi i testi di riferimento del capitolo cen-trale dell’Evangelii Gaudium, seppure non esplicitati da Francesco.
È dottrina biblica che la fede viene dalla predicazione ( Rm 10,17). Ed è proprio la stretta relazione tra fede e predicazione che spiega la sua preminenza tra i ministeri della Chiesa. La predicazione è, infatti, secondo tradizione, l’officium principalissimum degli apostoli e dei loro successori. È l’ufficio principale e il proprium dei pastori istituito da Cristo per la diffusione del suo messaggio. Cristo stesso lo ha messo in cima a tutti gli altri mezzi, primo nelle opere di carità, perché è mediante la proclamazione del Vangelo, come come dice san Paolo, «che è piaciuto a Dio di salvare il mondo». Ma la predicazione non è solamente il veicolo della comunicazione tra Dio e l’uomo, il mezzo attraverso cui Dio porta a conoscenza dell’uomo il suo piano di salvezza, è esso stesso un mezzo di grazia, un atto salvifico. La predicazione, quindi, non solo annuncia la salvezza, ma la conferisce. E producendo la fede e la salvezza, essa produce la comunità dei fedeli e della salvezza che è la Chiesa; la genera, la edifica, la sviluppa. Ecco quindi perché è essenziale. La predicazione è perciò un avvenimento. È l’hodie di Dio, è la realtà dell’amore Dio che, come afferma sant’Agostino, attraverso la voce del predicatore nella Chiesa, mediante lui desidera incontrarci e continua a interpellarci. Da qui la responsabilità massima del predicatore che continua e prolunga la missione di Cristo e ha «la bellissima e difficile missione di unire i cuori: quello del Signore e quelli del suo popolo» ( EG 143). Da qui la necessità che il predicatore non sia tribuno di un sistema di idée, ma servo e testimone credibile della Parola di Dio, lasciando che questa realmente lo interpelli e lo cambi continuamente: «Lascia che Gesù predichi a te e lascia che ti guarisca. Così io posso anche predicare agli altri, insegnare le parole di Gesù e aiutare a guarire tante ferite, perché lascio che Lui predichi a me», dice Francesco. E con l’autorità che gli viene dall’essere Vicario di Cristo esige quanto afferma: «È indispensabile che la Parola di Dio diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale» ( EG 174). ‘Ogni’. Cioè per ognuno tutto.
Stefania Falasca
La comunicazione al centro
Il magistero di Francesco una vera rivoluzione l’ha compiuta: ha sconfitto quella che il teologo francese Luis Bouyer chiamava «nausea della parola». Quella nausea provocata dall’inflazione di parole abusate, svitalizzate, frutto di una predicazione non genuina, astrusa, moralistica. Una predicazione che, a motivo delle sue deficienze, già prima del Concilio aveva contribuito alla desertificazione materiale e spirituale ed è stata riconosciuta poi tra le cause più profonde della progressiva scristianizzazione.
Ne prendeva atto lo stesso Osservatore Romano già agli inizi degli anni Sessanta, facendo notare come in particolare l’omelia apparisse «una convenzione cui troppo spesso il cristiano è obbligato a sottomettersi quando si reca in chiesa. Una specie di pedaggio che deve pagare per soddisfare al precetto della messa festiva», tanto da spingere non pochi a preferire le messe nelle quali non si predica. «La disistima tra i fedeli e tra gli stessi sacerdoti verso questo ministero è ormai un luogo comune, un fatto indiscutibile. Negarlo o trascurarlo sarebbe porsi fuori della realtà», affermava allora il quotidiano della Santa Sede e il dato, in sé, non poteva non indurre i teologi a riflettere su questa realtà divenuta marginale quando non addirittura dannosa. La crisi della predicazione perciò, nella quale papa Bergoglio irrompe, non è una novità dei nostri tempi, anche se questi hanno contribuito a manifestarla in tutta la sua drammaticità.
Nella sua prima Esortazione apostolica, Francesco non esita a rilevare: «Molti sono i reclami… e non possiamo chiudere le orecchie» (EG 135). Non solo. Il Successore di Pietro pone l’ufficio stesso della predicazione al centro della sua Esortazione programmatica. L’intera parte terza dell’Evangelii Gaudium riguarda l’omiletica, quella che, unita alla prima, costituisce il fulcro sostanziale dell’Esortazione: l’annuncio della salvezza. E non solamente l’atto innovativo delle sue omelie feriali ma tutta la sua predicazione ordinaria dispiegano questa centralità. L’oralità, la parola intesa nel suo statuto comunicativo e relazionale che è propria della Parola di Dio, è la cifra distintiva del suo ministero. Francesco ha così rimesso la predicazione in primo piano. Di più: l’ha rimessa in ogni piano. Ha compiuto e continua un’opera decisiva, portante, fondante, ben più ardita di una riforma funzionale. Una riforma della quale è cuore ma anche inizio e fine, perché lo scopo ultimo è la fede e la crescita della Chiesa.
Le ragioni di questa scelta decisiva, che costituisce quindi non un ‘magistero piccolo’ ma la sorgente di un pontificato, risiedono nella natura stessa di questo ministero e alla sua funzione nella vita della Chiesa. Che cos’è la predicazione? Cos’è questa realtà fondamentale che se tenuta in un modo causa la fede e tenuta in modo diverso ne causa l’affievolimento e la perdita? Che cosa significa predicare? Sono domande a cui risponde la teologia della predicazione, che è alla base dell’elaborazione dell’Evangelii Gaudium e quindi del pensiero di Francesco. È la scienza specifica che prende avvio alla fine degli anni Trenta con il teologo austriaco Josef Andreas Jungmann – poi membro della commissione per la Riforma liturgica al Concilio. Ne ‘Il Vangelo e la nostra evangelizzazione’, Jungmann osservava lo stato di anemia spirituale tra il popolo e lo imputava, almeno in parte, alla proposizione della fede fatta dal clero. Un clero che non aveva consapevolezza della natura di quest’ufficio e per formazione considerava la predicazione come insieme di norme da inculcare e una volgarizzazione dei trattati teologici. Ne aveva trascurato l’aspetto vivo della storia della salvezza: quella che ci mette in diretto contatto con Cristo, l’aspetto cioè più propriamente kerigmatico che è l’annuncio della Buona Novella. È quanto più tardi riprenderà anche Hugo Ranher in ‘Una teologia della predicazione’, il quale per kerigma intende «la predicazione delle verità divine secondo quella connessione in cui le ideò e anche le proclamò la rivelazione di Dio nel suo messaggio ordinario».
«La Chiesa non evangelizza se non si lascia evangelizzare continuamente dalla Parola di Dio», afferma il teologo gesuita Domenico Grasso ne ‘L’annuncio della salvezza’. E spiega come in concreto ciò significhi una predicazione centrata sulla Scrittura e sulla storia della salvezza sperimentata dal messaggero nella propria vita così come ebbe luogo con gli apostoli e nei primi secoli della Chiesa, nella predicazione di Cirillo di Gerusalemme, di Agostino e in genere dei Padri fino al Dodicesimo secolo. E sono proprio questi i testi di riferimento del capitolo cen-trale dell’Evangelii Gaudium, seppure non esplicitati da Francesco.
È dottrina biblica che la fede viene dalla predicazione ( Rm 10,17). Ed è proprio la stretta relazione tra fede e predicazione che spiega la sua preminenza tra i ministeri della Chiesa. La predicazione è, infatti, secondo tradizione, l’officium principalissimum degli apostoli e dei loro successori. È l’ufficio principale e il proprium dei pastori istituito da Cristo per la diffusione del suo messaggio. Cristo stesso lo ha messo in cima a tutti gli altri mezzi, primo nelle opere di carità, perché è mediante la proclamazione del Vangelo, come come dice san Paolo, «che è piaciuto a Dio di salvare il mondo». Ma la predicazione non è solamente il veicolo della comunicazione tra Dio e l’uomo, il mezzo attraverso cui Dio porta a conoscenza dell’uomo il suo piano di salvezza, è esso stesso un mezzo di grazia, un atto salvifico. La predicazione, quindi, non solo annuncia la salvezza, ma la conferisce. E producendo la fede e la salvezza, essa produce la comunità dei fedeli e della salvezza che è la Chiesa; la genera, la edifica, la sviluppa. Ecco quindi perché è essenziale. La predicazione è perciò un avvenimento. È l’hodie di Dio, è la realtà dell’amore Dio che, come afferma sant’Agostino, attraverso la voce del predicatore nella Chiesa, mediante lui desidera incontrarci e continua a interpellarci. Da qui la responsabilità massima del predicatore che continua e prolunga la missione di Cristo e ha «la bellissima e difficile missione di unire i cuori: quello del Signore e quelli del suo popolo» ( EG 143). Da qui la necessità che il predicatore non sia tribuno di un sistema di idée, ma servo e testimone credibile della Parola di Dio, lasciando che questa realmente lo interpelli e lo cambi continuamente: «Lascia che Gesù predichi a te e lascia che ti guarisca. Così io posso anche predicare agli altri, insegnare le parole di Gesù e aiutare a guarire tante ferite, perché lascio che Lui predichi a me», dice Francesco. E con l’autorità che gli viene dall’essere Vicario di Cristo esige quanto afferma: «È indispensabile che la Parola di Dio diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale» ( EG 174). ‘Ogni’. Cioè per ognuno tutto.
Stefania Falasca