#indueparole. Vite bruciate
di Graziano Canu.
Sette giovani operai morti nel 1945 ad Anela. La contabilità dell’orrore potremmo iniziarla qui, ma se vogliamo andare a tempi più recenti, gli ultimi 40 anni, ecco le stragi di Currraggia nel 1983 (9 morti) e due anni dopo quella di Porto San Paolo (altri cinque morti). Nel 1989 tredici i turisti (compresi un bambino di due anni e uno di 10) uccisi da fiamme e fumo a San Pantaleo. Ma l’elenco delle vittime è lunghissimo e comprende allevatori, forestali, turisti, volontari, interi equipaggi di elicotteri.
Nella lotta ai roghi estivi, nell’isola il contributo di vite umane è stato pesantissimo e anche l’estate appena iniziata si è aperta fra non pochi timori, con gli incendiari subito all’opera: 500 focolai in poco meno di un mese. Le statistiche non lasciano spazio a molti dubbi e dietro gran parte degli incendi, c’è la mano dell’uomo.
Nel mio lavoro ho seguito tante vicende collegate ai roghi estivi. Ho visto piangere chi aveva perso tutto, ho visto greggi incenerite, case crollate, aziende devastate, allevatori e pastori in ginocchio. I sacrifici di una vita ridotti in cenere in poche ore. Ero ragazzino quando dal belvedere della Cattedrale di Nuoro, ho assistito al grande incendio del Monte Ortobene. Quelle fiamme uccisero un uomo, Francesco Catgiu, intento a salvare il suo gregge, devastarono la montagna cantata della Deledda e da Sebastiano Satta e ci sono voluti quasi 50 anni per riavere quel patrimonio boschivo, andato perduto in poche ore.
L’estate 2020 è appena iniziata e già siamo sotto pressione. Sardi dalla memoria corta, incapaci di scrollarsi di dosso questa piaga fatta di cenere e morte. La domanda è sempre la stessa: perché? Cosa spinge questi infami a bruciare la propria terra e (la storia insegna) a rischiare di diventare assassini? L’inasprimento delle pene e i vincoli sui terreni bruciati non sembrano aver prodotto molti risultati. L’apparato antincendio sardo è preso a modello, eppure ogni estate la Sardegna brucia.
Abbiamo fatto molto sull’aspetto repressivo, ma quanto su quello della prevenzione? Probabilmente ha ragione chi insiste a indicare la necessità di lavorare ancor di più per far crescere quella ”cultura del bosco”, e della tutela del patrimonio ambientale, inteso come bene imprescindibile che appartiene alla collettività e ne assicura la sopravvivenza. Salvare la natura per salvare noi stessi, perché, come diceva Mario Rigoni Stern: «L‘uomo che distrugge e cementifica il territorio recide le radici del futuro».
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