Il terremoto e Sodoma
di Tonino Loddo
A Cristina, non ancora dieci anni, la nonna morta accanto a lei sotto le macerie di Amatrice, e agli altri bambini della tendopoli, raccontano che è tutta colpa di un drago. C’è un drago qui sotto che batte la testa e cerca di uscire. Ma i bambini non la bevono. E neppure il web ha bevuto la sparata twittata da un sedicente Movimento Cristiano, secondo cui il terremoto sarebbe una punizione divina per la recente approvazione della legge sulle unioni civili. A parte che le nonne e i bambini di Amatrice forse di quella legge non ne sapevano neppure nulla e che – se il ragionamento fosse stato corretto, a rigor di giustizia e se proprio devastazione doveva essere – il terremoto avrebbe dovuto avere come epicentro ben altri palazzi e non le spesso povere case dei paesi dell’Appennino; a parte questa logica considerazione, e a parte il fatto che di idioti è purtroppo pieno il mondo (e non solo il web), potremmo anche chiudere la questione limitandoci a definire spregevole quel tweet. Se non fosse che esso riporta alla mente l’eterna querelle sul perché nel mondo della distruzione, della malattia e della morte, e sul perché esse colpiscano al pari buoni e malvagi, innocenti e delinquenti.
C’era una volta un uomo, chiamato Giobbe, benestante e timorato di Dio. Facile, dirà qualcuno, essere credenti quando si è ricchi e felici! Così la pensava anche il demonio che si rivolse a Dio dicendogli: prova a sottrarre a Giobbe tutto ciò che possiede e vediamo se ti resta fedele. Dio accetta la sfida. Il raccolto va in fiamme, la terra non fa più frutti, gli armenti muoiono, perde tutte le ricchezze. Muoiono anche i figli. Giobbe è ridotto alla rovina. Avrai ben combinato qualcosa!, gli dicono gli amici; chissà quale peccato ci nascondi! «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto! Sia benedetto il nome del Signore!», è – tra le lacrime – la sua unica risposta.
Il demonio non si dà per vinto. Prova a toccare non quello che lui ha, ma quello che lui è, dice ancora a Dio, e vedrai se ti maledice. La malattia colpisce Giobbe e lo porta ad un passo dalla morte. Diventa impaziente e chiede conto a Dio delle troppe sofferenze in cui lo ha fatto precipitare. Non ti ho mai abbandonato – gli urla -, non ho peccato, non ti ho mai voltato le spalle; voglio sapere cosa mi rimproveri, perché ti accanisci tanto contro di me! Dio non si sottrae. «Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Sei mai giunto alle sorgenti del mare e hai mai passeggiato nel fondo dell’abisso? Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino o puoi guidare l’Orsa insieme con i suoi figli?». Giobbe si sente sprofondare e avverte tutta la sua pochezza dinanzi a Dio. E capisce. Finalmente. Se non era presente quando la vita aveva inizio, come può pretendere di essere presente quando la vita finisce? Se non c’era quando Dio annodava le stelle, come può pretendere di sapere i nodi dell’esistenza? Lui che esigeva una risposta da Dio, che cercava una giustificazione a ciò che pensava essere assurdo (la sofferenza e la morte), si ritrova invece a prendere coscienza che assurda è solo la sua pretesa di accusare Dio di fare cose assurde. «Mi metto una mano sulla bocca. Non parlerò più. Non replicherò», mormora.
Il celebre poema biblico si conclude con Dio che, colpito dalla fede di Giobbe, gli rende figli, salute e ricchezza. Ma questa è un’altra storia. Interessa, invece e qui, sottolineare l’atteggiamento di Giobbe che capisce e tace. Non è la sconfitta di uno che dice: va bene, ho capito, tanto hai sempre ragione tu! No. È la presa di coscienza di trovarsi dinanzi a un mistero che il suo gracile intelletto non sa (né può) contenere. Dinanzi al quale non gli resta che tacere e pregare. Non ci resta che tacere e pregare. Evitando, soprattutto, di pensare di avere in tasca risposte preconfezionate, buone per tutte le occasioni. Così, riconciliati con la nostra fragilità di uomini e accettato Dio come Dio scansando la pretesa di metterci al suo posto, potremo aprirci alle dimensioni dell’eterno e della vita definitiva. In attesa del giorno che non conosce tramonto, quando la morte sarà sconfitta e non ci sarà più lutto, né lacrima, né fame, né sete. Né terremoti. Né idioti che pensano di sapere tutto già fin da ora.
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