Il tempo del merito non arriva mai
di Tonino Loddo
C’è una cosa di cui i giovani di questo Paese hanno disperatamente bisogno: che venga riconosciuto il loro merito e non vengano costretti a fuggire in altri Paesi che sappiano riconoscerlo e valutarlo. Recenti studi ci dicono che nel decennio 2010-2020 l’Italia perderà circa 30mila giovani ricercatori costati agli italiani (per la loro formazione) qualcosa come 5 miliardi, che andranno a contribuire allo sviluppo economico di altre nazioni. Non proprio un affare! Ma le statistiche ci dicono (se possibile!) anche di peggio: l’Italia è l’unico paese europeo che esporta più ricercatori di quanti non ne importi (-13%). Perfino la Spagna, la cui economia non brilla certamente, ci tiene a debita distanza con un attivo all’1%. Un’emorragia degna di un paese sottosviluppato.
La verità è che viviamo in un sistema-paese che sembra caratterizzato da una pressoché inesistente cultura del merito, intesa come fattore chiave per raggiungere risultati; un sistema in cui, per riuscire a far valere le proprie competenze, si preferisce fare ricorso alle conoscenze personali o affidarsi ad altre forze aleatorie; un sistema figlio di una società sostanzialmente opaca nei meccanismi di selezione, in genere basati su regole poco trasparenti. Non a caso i vari sondaggi condotti, anche da enti internazionali, confermano che per gli italiani il valore più importante per arrivare ad una certa posizione è ancora oggi la rete di conoscenze e non il talento, l’impegno, la capacità professionale.
E dire che il principio della valorizzazione della capacità individuale è un punto chiave della nostra Costituzione e che, pertanto, la nozione del merito dovrebbe appartenere al sistema di valori della nostra società e impregnarne la cultura! Ma non è esattamente così, e questo paradosso tutto italiano sta nel fatto che a parole si tratta di un concetto più o meno universalmente condiviso e accettato, mentre nei fatti è facile riscontrare una gigantesca frattura tra l’importanza a esso attribuita e la sua applicazione concreta.
Ma perché il merito, inteso come risultato di un’alchimia riuscita fra talento e impegno (come lo definì Michael Young) si è affermato nelle società anglosassoni, nei Paesi del Nord Europa, in Francia e in Germania, e resta un sogno nel cassetto nel nostro Paese? Probabilmente per due ragioni. La prima è legata al familismo e alla sua capacità di far prevalere la logica dell’appartenenza su quella della comunità, di cui cerca di limitare i riconoscimenti, sia economici sia di prestigio pur di favorire i propri componenti. La seconda è legata ad una tradizione culturale di matrice eccessivamente egualitaria, che per troppo tempo ha letto i processi di selezione come meccanismi di esclusione sociale e, come tali, da combattere. La somma infausta di queste due ragioni è poi confluita in un sistema politico complessivamente mediocre, che ha fatto della struttura clientelare il fondamento della sua propria esistenza in vita. Così è nata questa nostra società che fa della mediocrità l’unico punto di arrivo, in cui bisogna accontentarsi ed evitare accuratamente di aspirare al meglio.
Quando il presidente del consiglio nelle scorse settimane per spiegare la manovra economica ha evocato “il merito e il bisogno”, abbiamo fatto un salto sulla sedia. Vorremmo prenderlo molto sul serio. Perché le donne, gli uomini e soprattutto i giovani di questo Paese attendono ostinatamente che vengano riconosciuti i loro meriti. Quindi c’è solo da augurarsi che possa farcela davvero. Che si chiami Matteo Renzi o Pinco Pallino, non importa. Il Paese ha un bisogno disperato di nuovi riformisti, anche in campi politici diversi dal suo. Ma sempre e solo riformisti. Di populisti, massimalisti, neo nazionalisti, settari, giustizialisti e rivoluzionari (da salotto e non solo), un Paese democratico come il nostro potrebbe e dovrebbe cominciare a farne a meno. Fanno parte dell’anomalia italiana. Cioè di una democrazia che ha paura di cambiare.
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