Il silenzio che uccide
di Claudia Carta.
Il mondo intero, oggi, ha il sorriso buono di Denis Mukwege e gli occhi profondi di Nadia Murad.
Il Nobel per la pace 2018 accarezza le loro storie, rendendole universali. Come se dal Congo e dall’Iraq, insieme al profondo grido di dolore per le violenze, le atrocità e la morte subite da donne e bambini, salisse al cielo, più forte e prepotente, l’amore di due mani che sanno curare, alleviare, lenire e la forza di una voce che denuncia, racconta, scuote e sferza.
Pace non è solo assenza di guerra. Pace è diritto alla vita. È diritto e vita. Rispetto e uguaglianza.
Lo chiamano l’uomo che ripara le donne, Denis Mukwege, ginecologo congolese. Quattordici anni di lavoro a Bukawu, nella Repubblica Democratica del Congo. Quarantamila donne curate. Quarantamila donne vittime di stupro. Perché qui lo stupro è arma di guerra. Perché qui ogni uomo, difficile definirlo tale, lascia la propria firma sul corpo della donna, con bottiglie, coltelli, pezzi di vetro. Perché la violenza terrorizza, costringe a fuggire. Se resti, devi tacere e subire. Se resti, muori.
Il gigante buono opera, cura, guarisce. E mentre fa questo ascolta l’orrore. Lo vede con i suoi occhi, lo sente: «Tutte le testimonianze che ho raccolto sono importanti – ha spiegato Mukwege –. Alcune hanno profondamente trasformato la mia vita. È difficile immaginare fino a che punto il mondo possa essere insensibile alla sofferenza degli altri, chiudendo gli occhi, chiudendo le orecchie. È totalmente inaccettabile». E aggiunge: «Non c’è globalizzazione positiva senza il rispetto universale dei diritti dell’uomo. Abbiamo bisogno di rendere universali i diritti umani per permettere l’uguaglianza. Violenza e razzismo sono forme di degrado della nostra umanità».
Nadia Murad – che, come Denis Mukwege e Lamiya Aji Bashar, ha ricevuto dal Parlamento europeo anche il premio Sakharov, riconoscimento per le personalità e le organizzazioni che difendono i diritti umani e le libertà individuali – ha 25 anni. È irachena. Yazida. Una giovinezza che dice schiavitù, torture, uccisione dei propri cari e violenza per mano dell’Isis. Poi la fuga in Germania. Da qui a diventare prima ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani il passo è stato breve. A Strasburgo, in occasione dello Sakharov, con la giovanissima Lamiya poche, accorate parole: «Questo è un premio che ci dà voce, il mondo deve sapere. Guardiamo all’Europa come simbolo di umanità».
Il mondo deve sapere. È giusto. Quello che però spaventa di più è che molto spesso il mondo sa e non fa nulla, non dice nulla, non muove nulla.
Qualche anno fa il ginecologo congolese vincitore del Premio Nobel per la pace rilasciò al quotidiano Le Monde un’intervista, ripresa poi da Internazionale: «Il dottor Mukwege, un gigante sorridente con lo sguardo pacifico e la voce rassicurante, sembrava sfinito. Stanco di parlare a vuoto. Stanco di cercare invano di scuotere le coscienze. Stanco di raccontare la tragedia delle donne congolesi senza che niente cambi. Stanco di descrivere stupri e torture spaventose, di citare numeri raccapriccianti (500mila donne violentate in sedici anni) senza che nessuna autorità politica internazionale si dia da fare per prendere provvedimenti concreti. Stanco di ricevere premi e omaggi senza che le organizzazioni governative facciano qualcosa di più che inviare medicinali. È una situazione incomprensibile. Com’è possibile che nessuno lo ascolti? “Come si può pensare di tradire i traguardi della civiltà a tal punto da restare inerti e con le mani in mano?”, chiede il dottore. Ci sono centinaia di prove, foto e testimonianze, ma non è stato fatto nulla. “Non si potrà dire, come accaduto in altri momenti bui della storia, che la comunità internazionale non sapeva. Loro sanno tutto”».
Stiamo attenti, dunque, a non girare la faccia dall’altra parte, a non uccidere nessuno stando zitti, fermi, a occhi chiusi per paura di essere anche noi, come a qualcuno è capitato, “accusati di umanità”.
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