Il ragazzo dell’olmo cavo
di Tonino Loddo.
Conoscendolo, gli erano stati dietro tutta l’estate. «La scuola è bella, imparerai tante cose e starai in mezzo a tanti bambini. Vedrai che divertimento!». Ed Ernesto aveva finito per crederci. Così, quando fu il 1 ottobre 1946, cartella in mano, si avviò a scuola. Il primo impatto fu eccellente. Un ragazzone di quattordici anni, ancora scolaro alle elementari, cavato dalla cartella un calamaio pieno d’inchiostro, l’aveva lanciato contro il muro della scuola dove s’era andato a spiaccicare. Applausi, risate fragorose. «A scuola ci si diverte davvero!», pensava, salendo i ripidi gradini della scuola, accompagnato dal fratello. Una volta dentro, la prima delusione. Dovunque un silenzio quasi cimiteriale: adulti col berretto in mano, donne con le spalle basse che parlavano sottovoce, nessuno che sorridesse almeno un poco.
Tenuto per mano, attraversa la ressa ed ecco i maestri. Ernesto non crede ai suoi occhi. Tre omaccioni occhialuti («non avevo mai visto uomini con gli occhiali»), accigliati e contegnosi. E avevano pure il pizzetto. Uno, perfino gli stivali. Un brivido gli attraversa la schiena. Con uno strattone si libera dal fratello e corre, corre verso la porta. C’è chi ride. Il fratello pensa di riacciuffarlo in un amen. Ma non è così. Il terrore gli raddoppia le forze. Guadagnata l’uscita, si getta a capofitto tra gli orti terrazzati sottostanti. Uno, due, cinque, dieci. Non fa neppure caso ai muretti che salta. Poi, nel vasto orto di famiglia si ferma. Si guarda intorno. Solo. Il fratello non aveva neppure provato ad inseguirlo. «No. La scuola non fa davvero per me».
Eppure, aveva a lungo sognato quel primo giorno di scuola. Immaginava che i maestri gli avrebbero insegnato ad arrampicarsi fin sui rami più alti degli alberi, a prendere la mira con la fionda, a scalare i costoni rocciosi, a colpire un bersaglio in corsa lanciando una pietra… Tutte cose che quei tre individui non sapevano certamente fare; figurarsi insegnarle!
Sta lì fino al pomeriggio. Al rientro nessuno fa molto caso a lui. È il penultimo di nove figli. Il giorno dopo al primo rintocco della campana è già per strada. Breve conciliabolo con due amichetti. Si va. No. Non a scuola. Manco a parlarne. Conosceva un luogo che faceva al caso loro. Una campagna in cui si trovava un grosso olmo cavo. Quello sarebbe stato il quartier generale. Così fu quel giorno e per molti mesi ancora. Vi giungevano al mattino. All’interno dell’olmo depositavano le cartelle e poi via a piazzare trappole per uccelli, a giocare a chi si arrampicava più in alto, a chi colpiva meglio il bersaglio…
Un giorno decisero che forse era il caso di tornare a scuola. Trovò ad accoglierlo un maestro diverso, altissimo. «Fai le aste!», gli intimò. E lui lo guardò sorpreso. Di aste non ne aveva mai fatte! «M’as intesu?», gli urlò con malagrazia. «Non sa neppure parlare il sardo, pensò. Bel maestro!». E più quello s’arrabbiava, più Ernesto si convinceva che la scuola non era roba per lui. Così ricominciarono le scorribande nelle campagne intorno all’olmo cavo, interrotte da qualche fugace puntatina a scuola. A fine anno giunse puntuale la zucca.
L’anno successivo la musica cambiò. La scuola era più organizzata e in caso di assenze prolungate si provvedeva ad avvisare le famiglie. Così le assenze si fecero sempre meno frequenti e mai troppo prolungate. Andava (quando ci andava!) a scuola controvoglia, senza interesse: rispetto ai suoi bisogni era solo una gran perdita di tempo. Ma, a fine anno, giunge, inattesa, la promozione. «Per incoraggiamento», disse il maestro con gli occhiali.
Intanto, Ernesto aveva preso a frequentare una delle tante botteghe del rione. Vi lavoravano due calzolai simpatici, grandi novellatori e là si riunivano gli uomini nelle brutte giornate. Gli volevano bene e gli avevano anche dato un ruolo: ogni lunedì doveva andare a comprare L’Informatore. Come gli piaceva stare a sentirli mentre raccontavano storie senza fine o discutevano di sport! Il giornale, poi, lo attirava e cominciò a prenderlo in mano. Fu il suo primo abbecedario. A motivo di questo nuovo impegno, le puntate all’olmo cavo si diradarono, ma a fine anno fu nuovamente zucca.
Ottobre sa di nuovo. Era giunta in paese una maestrina bella come il sole, gentile e sorridente. Un’orgolese, Ninetta Davoli. Abitava nel vicinato di Ernesto e volentieri si fermava a chiacchierare con le donne quando passava per strada mentre si recava in chiesa o tornava dalla scuola. Per prudenza, temendone i rimproveri per le sue assenze, lui le girava ben bene alla larga. E poi aveva un nuovo impegno. Passava, infatti, le giornate in compagnia di un puledrino dalla vita tormentata che aveva chiamato Arcilivrighi per quel suo goffo modo di incedere sfregando le ginocchia. Non era bello, ma era il suo cavallo e ne andava fiero. E quando entrava in paese ritto sulla sella, le bisacce piene delle patate dell’orto, Ernesto si sentiva un principe.
Quel giorno se la vide dinanzi all’improvviso, quando gli fu proprio impossibile scansarla. «Ma che bel cavallo! È tuo?» gli chiese, accarezzando il muso del puledro. Sapeva che non era un bel cavallo, ma quell’inatteso complimento lo riempì di gioia. «Sì, è mio». «Perché non vieni a scuola domani?». Come dire no a quel sorriso?!
L’indomani Ernesto è a scuola. E al pomeriggio, in un canto della grande cucina, fa i suoi primi compiti tra lo stupore di tutti. Quel sorriso aperto, quel dire e chiedere semplice ma affettuoso se li porta ancora dentro, dopo una laurea in lettere con Giovanni Lilliu e una vita trascorsa ad insegnare e a fare il preside. Sempre ricordando a sé stesso e ai propri alunni che l’insegnamento è prima di tutto un grande gesto di amore. Perché il vero insegnante può toccare una vita per sempre.
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