di Giovanni Deiana.
La sofferenza prima o poi ci tocca tutti. Purtroppo, se il dolore è un’esperienza che teoricamente colpisce ogni essere umano, in questi ultimi anni è diventato una realtà che, direttamente o indirettamente, tutti abbiamo dovuto affrontare: due anni di pandemia, ai quali si è aggiunta la tragedia della guerra ucraina, hanno drammaticamente riproposto alla nostra riflessione il problema della sofferenza umana. È uno degli argomenti più difficili da affrontare e al quale è impossibile dare unasoluzione. Non perché l’umanità non abbia cercato di offrire una risposta, ma perché tutte quelle formulate sono risultate insoddisfacenti. Ai sacerdoti poi spesso tocca il delicato compito di confortare persone che vivono situazioni veramente drammatiche: sarebbe forse utile in quei momenti fare tesoro di quanto la Parola di Dio ci dice in proposito. Prima di tutto, sarà necessario richiamare alla mente l’esperienza vissuta da Gesù. È attraverso la croce che egli ci ha salvati. E ogni cristiano, se vuole essere seguace suo, dovrà “prendere la propria croce” e andare dietro a lui (Mc 8,34). Insomma, chi vuole seguire le orme di Cristo deve sapere che la passione non è solo un racconto edificante, ma un paradigma, ossia un modello di comportamento al quale adeguare la nostra vita nei momenti bui.
La sofferenza ha accompagnato il lungo cammino della storia umana. La storia del pensiero umano offre un nutrito catalogo di opere che hanno come protagonisti persone disperate le quali considerano l’esistenza un peso insopportabile di cui disfarsi. Si spiega così il numero veramente impressionante di suicidi (ben 872.000) che si verifica ogni anno nel mondo. Sembra che l’uomo (homo sapiens) abbia una storia di almeno 200mila anni; di essa conosciamo quel poco che gli antropologi sono riusciti a ricostruire dagli esami dei reperti archeologici. La lotta per la sopravvivenza è stata la compagna di buona parte della storia umana. Non stupisce perciò che le prime testimonianze scritte pervenuteci lamentino la triste condizione dell’essere umano: ecco alcune preghiere che i fedeli rivolgevano alla loro divinità: “Dio mio, il giorno splende sulla terra, ma per me il giorno è tenebra!”; e ancora; “mio dio, tu mi hai generato, degnati di guardarmi; fino a quando non vorrai far caso a me e lasciarmi senza protezione?”.
Giobbe. Se dal mondo profano passiamo a quello biblico, il libro che cerca di dare una risposta al dolore umano è senza dubbio quello di Giobbe. Egli nel primo capitolo del libroci viene presentato come un uomo fortunatoo meglio, per usare il linguaggio religioso dell’Antico Testamento, benedetto da Dio: è ricco, ha una famiglia esemplare composta da sette figli maschi e tre figlie. Naturalmente al centro della vita familiare la religione occupava il primo posto e l’offerta dei sacrifici era un appuntamento fisso per tutti i parenti. Da parte sua Dio, seguiva compiaciuto lo scorrere tranquillo della vita di questo suo fedele. Ma un giorno il Satan, un angelo della corte celeste che si era riservato il compito di cercare nella vita degli uomini le magagne per chiederne la punizione davanti a Dio, avanza il sospetto che Giobbe agisca rettamente non tanto per amore di Dio, ma perché il Signore gli rende tutto facile; in altre parole, a giudizio di Satan,perché Giobbe possa essere considerato un modello di vita religiosa, deve essere messo alla prova! E Dio a malincuore accetta che il suo fedele la subisca.
Giobbe messo alla prova. Il compito è svolto con zelo dal Satan in persona e, da quel momento, la vita del povero Giobbe diventa un inferno: una valanga di sciagure si abbatte su di lui e in un solo giorno perde tutti i suoi averi e persino la famiglia. Da tanta rovina emerge la straordinaria forza interiore di Giobbe:«Egli si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!»(Gb 1,21).Ma per il Satan l’esame non è finito e Giobbe viene sottoposto alla terribile prova della malattia fisica: la scabbia gli allontana gli amici e persino la moglie. A quest’ultima che gli suggerisce di mettere da parte Dio risponde: «Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).
La disperazione di Giobbe. Ma la sua imperturbabilità e sicurezza scompaiono quando gli si presentano alcuni suoi amici con l’intenzione di esprimergli la loro solidarietà e il loro conforto. Falliscono miseramente e invece di dargli conforto non fanno che scatenare la disperazione che interiormente lo strazia; arriva perfino a maledire il giorno della sua nascita: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono?» (Gb 3,3-12).
La sofferenza supera la saggezza umana. Il dolore di Giobbe si concretizza in precisi quesiti che non sono espressioni retoriche, ma autentiche grida disperate a cui nessuna saggezza umana è mai riuscita a dare risposta: «Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro? Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido?» (Gb 3,20-24). Il libro propone quesiti, ma non offre risposte soddisfacenti; lascia solo intravvedere un percorso spirituale che Giobbe percorre proprio nel corso della sua terribile esperienza. Alla fine del libro (Gb 42,5-6) e dopo un incontro con Dio in cui il Signore lo invita a meditare la straordinaria perfezione dell’universo, s’intravede un barlume di luce: se Dio è in grado di governare tutto il creato è forse incapace di dare un senso alla sofferenza umana? Giobbe alla fine riconosce il significato profondo della sua esperienza e confuso esclama: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere».
Giobbe matura con la sofferenza. A leggere bene le parole di Giobbe si intravvede in esse una profonda maturazione religiosa; l’espressione “ti conoscevo per sentito dire” è illuminante: la religione di Giobbe era fatta di usanze ripetute per abitudine, senza una conoscenza diretta di Dio; la sua pietà si esauriva in riti e formule esteriori. Mancava a Giobbe il dialogo personale con Dio. Attraverso la sofferenza, egli è passato da una religiosità fatta di esteriorità all’esperienza di Dio. Il Signore accetta la maturazione di Giobbe e a conclusione di tutto, lo ristabilisce nella situazione felice antecedente la sua sventura: «Il Signore raddoppiò quanto Giobbe aveva posseduto» (Gb 42,10).
Da Giobbe a Cristo. La sofferenza di Giobbe è come un grido straziante al quale non possiamo fornire una risposta convincente: possiamo solo ascoltarlo con il cuore sanguinante, lasciandoci penetrare dalle sue sconvolgenti domande. Arriverà la risposta chiara qualche secolo dopo, con Cristo, il nuovo Giobbe che sulla croce ha sentito il peso del silenzio del Padre.
Il mistero del dolore
di Giovanni Deiana.
La sofferenza prima o poi ci tocca tutti. Purtroppo, se il dolore è un’esperienza che teoricamente colpisce ogni essere umano, in questi ultimi anni è diventato una realtà che, direttamente o indirettamente, tutti abbiamo dovuto affrontare: due anni di pandemia, ai quali si è aggiunta la tragedia della guerra ucraina, hanno drammaticamente riproposto alla nostra riflessione il problema della sofferenza umana. È uno degli argomenti più difficili da affrontare e al quale è impossibile dare unasoluzione. Non perché l’umanità non abbia cercato di offrire una risposta, ma perché tutte quelle formulate sono risultate insoddisfacenti. Ai sacerdoti poi spesso tocca il delicato compito di confortare persone che vivono situazioni veramente drammatiche: sarebbe forse utile in quei momenti fare tesoro di quanto la Parola di Dio ci dice in proposito. Prima di tutto, sarà necessario richiamare alla mente l’esperienza vissuta da Gesù. È attraverso la croce che egli ci ha salvati. E ogni cristiano, se vuole essere seguace suo, dovrà “prendere la propria croce” e andare dietro a lui (Mc 8,34). Insomma, chi vuole seguire le orme di Cristo deve sapere che la passione non è solo un racconto edificante, ma un paradigma, ossia un modello di comportamento al quale adeguare la nostra vita nei momenti bui.
La sofferenza ha accompagnato il lungo cammino della storia umana. La storia del pensiero umano offre un nutrito catalogo di opere che hanno come protagonisti persone disperate le quali considerano l’esistenza un peso insopportabile di cui disfarsi. Si spiega così il numero veramente impressionante di suicidi (ben 872.000) che si verifica ogni anno nel mondo. Sembra che l’uomo (homo sapiens) abbia una storia di almeno 200mila anni; di essa conosciamo quel poco che gli antropologi sono riusciti a ricostruire dagli esami dei reperti archeologici. La lotta per la sopravvivenza è stata la compagna di buona parte della storia umana. Non stupisce perciò che le prime testimonianze scritte pervenuteci lamentino la triste condizione dell’essere umano: ecco alcune preghiere che i fedeli rivolgevano alla loro divinità: “Dio mio, il giorno splende sulla terra, ma per me il giorno è tenebra!”; e ancora; “mio dio, tu mi hai generato, degnati di guardarmi; fino a quando non vorrai far caso a me e lasciarmi senza protezione?”.
Giobbe. Se dal mondo profano passiamo a quello biblico, il libro che cerca di dare una risposta al dolore umano è senza dubbio quello di Giobbe. Egli nel primo capitolo del libroci viene presentato come un uomo fortunatoo meglio, per usare il linguaggio religioso dell’Antico Testamento, benedetto da Dio: è ricco, ha una famiglia esemplare composta da sette figli maschi e tre figlie. Naturalmente al centro della vita familiare la religione occupava il primo posto e l’offerta dei sacrifici era un appuntamento fisso per tutti i parenti. Da parte sua Dio, seguiva compiaciuto lo scorrere tranquillo della vita di questo suo fedele. Ma un giorno il Satan, un angelo della corte celeste che si era riservato il compito di cercare nella vita degli uomini le magagne per chiederne la punizione davanti a Dio, avanza il sospetto che Giobbe agisca rettamente non tanto per amore di Dio, ma perché il Signore gli rende tutto facile; in altre parole, a giudizio di Satan,perché Giobbe possa essere considerato un modello di vita religiosa, deve essere messo alla prova! E Dio a malincuore accetta che il suo fedele la subisca.
Giobbe messo alla prova. Il compito è svolto con zelo dal Satan in persona e, da quel momento, la vita del povero Giobbe diventa un inferno: una valanga di sciagure si abbatte su di lui e in un solo giorno perde tutti i suoi averi e persino la famiglia. Da tanta rovina emerge la straordinaria forza interiore di Giobbe:«Egli si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!»(Gb 1,21).Ma per il Satan l’esame non è finito e Giobbe viene sottoposto alla terribile prova della malattia fisica: la scabbia gli allontana gli amici e persino la moglie. A quest’ultima che gli suggerisce di mettere da parte Dio risponde: «Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).
La disperazione di Giobbe. Ma la sua imperturbabilità e sicurezza scompaiono quando gli si presentano alcuni suoi amici con l’intenzione di esprimergli la loro solidarietà e il loro conforto. Falliscono miseramente e invece di dargli conforto non fanno che scatenare la disperazione che interiormente lo strazia; arriva perfino a maledire il giorno della sua nascita: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono?» (Gb 3,3-12).
La sofferenza supera la saggezza umana. Il dolore di Giobbe si concretizza in precisi quesiti che non sono espressioni retoriche, ma autentiche grida disperate a cui nessuna saggezza umana è mai riuscita a dare risposta: «Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro? Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido?» (Gb 3,20-24). Il libro propone quesiti, ma non offre risposte soddisfacenti; lascia solo intravvedere un percorso spirituale che Giobbe percorre proprio nel corso della sua terribile esperienza. Alla fine del libro (Gb 42,5-6) e dopo un incontro con Dio in cui il Signore lo invita a meditare la straordinaria perfezione dell’universo, s’intravede un barlume di luce: se Dio è in grado di governare tutto il creato è forse incapace di dare un senso alla sofferenza umana? Giobbe alla fine riconosce il significato profondo della sua esperienza e confuso esclama: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere».
Giobbe matura con la sofferenza. A leggere bene le parole di Giobbe si intravvede in esse una profonda maturazione religiosa; l’espressione “ti conoscevo per sentito dire” è illuminante: la religione di Giobbe era fatta di usanze ripetute per abitudine, senza una conoscenza diretta di Dio; la sua pietà si esauriva in riti e formule esteriori. Mancava a Giobbe il dialogo personale con Dio. Attraverso la sofferenza, egli è passato da una religiosità fatta di esteriorità all’esperienza di Dio. Il Signore accetta la maturazione di Giobbe e a conclusione di tutto, lo ristabilisce nella situazione felice antecedente la sua sventura: «Il Signore raddoppiò quanto Giobbe aveva posseduto» (Gb 42,10).
Da Giobbe a Cristo. La sofferenza di Giobbe è come un grido straziante al quale non possiamo fornire una risposta convincente: possiamo solo ascoltarlo con il cuore sanguinante, lasciandoci penetrare dalle sue sconvolgenti domande. Arriverà la risposta chiara qualche secolo dopo, con Cristo, il nuovo Giobbe che sulla croce ha sentito il peso del silenzio del Padre.