di Augusta Cabras
La storia di Angelo è forse la storia di tanti uomini e donne che si trovano a dover passare un tempo della propria vita tra le mura di una cella. Non è stato facile, non è stato per niente facile mi ripete quasi come un mantra. E c’è da credergli. Soprattutto quando il carcere arriva all’improvviso e in questo caso ingiustamente. In quel periodo lavoravo come pastore. Aiutavo un mio conoscente con il bestiame. Era una mattina come tante altre, mi ero svegliato prestissimo e avevo iniziato subito a lavorare. Quel giorno ho visto arrivare i carabinieri nel terreno… Ero certo che non stavano cercando me. Io non avevo nulla da nascondere e niente da temere. I carabinieri cercavano della droga e lì la trovarono, nella casa della persona per cui lavoravo. Questa persona, che credevo amica, per salvare se stesso mi aveva accusato di essere io il proprietario di quella roba. Pensavo che non poteva essere così meschino. E invece… Lui continuava ad accusarmi e io continuavo a difendermi. Ma non era servita a niente la mia difesa! Il processo infatti si era chiuso con una condanna per me e per lui ad oltre tre anni di carcere. Il mondo in quel momento mi era crollato addosso! Mi sentivo solo e anche abbandonato. I primi mesi del processo li avevo passati a Lanusei e lì ho vissuto il duro mondo del carcere. Gli spazi per i detenuti erano ridotti al minimo; non era prevista nessuna attività; potevamo fare una doccia alla settimana, e dovevamo dormire sempre con il finestrino della cella aperto per far circolare l’aria. Ricordo ancora i rumori della notte, il freddo, il gelo…
Gelo fuori e dentro queste anime perse nella propria fragilità, nei propri errori, nella lotta continua tra il passato che ha le sembianze di un macigno, un presente che ha ancora le sembianze del passato e un futuro così nebuloso e incerto che non si riesce neanche a immaginare. Angelo dopo i primi mesi passati nel carcere di Lanusei viene trasferito alla Colonia Penale di Isili dove le condizioni generali sono decisamente migliori, soprattutto perché si può lavorare. Anche quando sono arrivato a Isili avevo tanta rabbia dentro di me, soffrivo per l’ingiustizia che avevo subito ma ad un certo punto ho pensato che se avessi continuato a tormentarmi sarebbe stato peggio e allora mi sono detto: lavoro questi anni come se fossi emigrato da qualche altra parte e il tempo piano piano passerà. Sai qual è la verità? E’ stato proprio il lavoro che mi ha salvato! Angelo anche ad Isili continua a fare quello che ha sempre fatto con passione ed interesse: il pastore. E’ lui ad occuparsi di capre e pecore, le accudisce e le cura. È lui a segnalare problemi e proporre ai responsabili qualche soluzione. Il gruppo di lavoro di cui fa parte è composto da altre cinque persone. Ad un certo punto sembrava un po’ di essere come in una famiglia. Insieme, infatti, tutti i giorni, lavorano, fanno la spesa e le pulizie degli spazi comuni, condividono la preparazione e la consumazione dei pasti e insieme affrontano le normali incombenze del quotidiano. Mediamente con serenità. Altre volte con la rabbia, la stanchezza e la voglia di libertà che vorrebbe prendere il sopravvento. Ma il gruppo sa bene che ogni mossa sbagliata, a questo punto del percorso, può farli tornare indietro per cui è meglio resistere. In questa storia il punto di snodo nel recupero umano e sociale del detenuto è il lavoro. Non la pena in sé stessa, dura e cruda, generatrice di altra rabbia, solitudine, emarginazione, senso di impotenza ma la rieducazione tramite il lavoro che riconsegna dignità. Dignità e possibilità di riprendere in mano la propria vita, guidati, supportati, “disciplinati”, aiutati nel riconoscimento dell’errore ma accolti. Perché l’espiazione della colpa non può essere fine a sé stessa ma deve condurre alla riabilitazione del carcerato soprattutto in vista del suo rientro nella società civile. Chiedo ad Angelo come ha vissuto la fine della sua pena e il ritorno a casa e lui mi risponde: all’inizio è stato difficile. La sensazione è che tutto fuori fosse cambiato. Le persone sembravano invecchiate ma forse perché io mi sentivo invecchiato. Ogni rumore mi insospettiva, ogni atteggiamento degli altri lo studiavo e controllavo. Poi lentamente tutto è tornato come prima. Con il tempo mi sono accorto che moltissime persone hanno creduto e credono ancora nella mia innocenza. Tutti i giorni continuo a svegliarmi prestissimo, mi occupo sempre del bestiame, spesso faccio il giardiniere, insomma la voglia di lavorare non mi è mai mancata!
Qual è il tuo sogno? gli chiedo. Avere un lavoro stabile. Svegliarmi e fare quello che mi piace ma avendo la certezza di poter vivere serenamente. E perché no? Avere un giorno una famiglia.
E ti auguriamo Angelo di realizzare i tuoi sogni. Perché oltre le sbarre ci può essere sempre una speranza. Basta saperla coltivare.
Il lavoro nobilita l’uomo. Anche in galera
di Augusta Cabras
La storia di Angelo è forse la storia di tanti uomini e donne che si trovano a dover passare un tempo della propria vita tra le mura di una cella. Non è stato facile, non è stato per niente facile mi ripete quasi come un mantra. E c’è da credergli. Soprattutto quando il carcere arriva all’improvviso e in questo caso ingiustamente. In quel periodo lavoravo come pastore. Aiutavo un mio conoscente con il bestiame. Era una mattina come tante altre, mi ero svegliato prestissimo e avevo iniziato subito a lavorare. Quel giorno ho visto arrivare i carabinieri nel terreno… Ero certo che non stavano cercando me. Io non avevo nulla da nascondere e niente da temere. I carabinieri cercavano della droga e lì la trovarono, nella casa della persona per cui lavoravo. Questa persona, che credevo amica, per salvare se stesso mi aveva accusato di essere io il proprietario di quella roba. Pensavo che non poteva essere così meschino. E invece… Lui continuava ad accusarmi e io continuavo a difendermi. Ma non era servita a niente la mia difesa! Il processo infatti si era chiuso con una condanna per me e per lui ad oltre tre anni di carcere. Il mondo in quel momento mi era crollato addosso! Mi sentivo solo e anche abbandonato. I primi mesi del processo li avevo passati a Lanusei e lì ho vissuto il duro mondo del carcere. Gli spazi per i detenuti erano ridotti al minimo; non era prevista nessuna attività; potevamo fare una doccia alla settimana, e dovevamo dormire sempre con il finestrino della cella aperto per far circolare l’aria. Ricordo ancora i rumori della notte, il freddo, il gelo…
Gelo fuori e dentro queste anime perse nella propria fragilità, nei propri errori, nella lotta continua tra il passato che ha le sembianze di un macigno, un presente che ha ancora le sembianze del passato e un futuro così nebuloso e incerto che non si riesce neanche a immaginare. Angelo dopo i primi mesi passati nel carcere di Lanusei viene trasferito alla Colonia Penale di Isili dove le condizioni generali sono decisamente migliori, soprattutto perché si può lavorare. Anche quando sono arrivato a Isili avevo tanta rabbia dentro di me, soffrivo per l’ingiustizia che avevo subito ma ad un certo punto ho pensato che se avessi continuato a tormentarmi sarebbe stato peggio e allora mi sono detto: lavoro questi anni come se fossi emigrato da qualche altra parte e il tempo piano piano passerà. Sai qual è la verità? E’ stato proprio il lavoro che mi ha salvato! Angelo anche ad Isili continua a fare quello che ha sempre fatto con passione ed interesse: il pastore. E’ lui ad occuparsi di capre e pecore, le accudisce e le cura. È lui a segnalare problemi e proporre ai responsabili qualche soluzione. Il gruppo di lavoro di cui fa parte è composto da altre cinque persone. Ad un certo punto sembrava un po’ di essere come in una famiglia. Insieme, infatti, tutti i giorni, lavorano, fanno la spesa e le pulizie degli spazi comuni, condividono la preparazione e la consumazione dei pasti e insieme affrontano le normali incombenze del quotidiano. Mediamente con serenità. Altre volte con la rabbia, la stanchezza e la voglia di libertà che vorrebbe prendere il sopravvento. Ma il gruppo sa bene che ogni mossa sbagliata, a questo punto del percorso, può farli tornare indietro per cui è meglio resistere. In questa storia il punto di snodo nel recupero umano e sociale del detenuto è il lavoro. Non la pena in sé stessa, dura e cruda, generatrice di altra rabbia, solitudine, emarginazione, senso di impotenza ma la rieducazione tramite il lavoro che riconsegna dignità. Dignità e possibilità di riprendere in mano la propria vita, guidati, supportati, “disciplinati”, aiutati nel riconoscimento dell’errore ma accolti. Perché l’espiazione della colpa non può essere fine a sé stessa ma deve condurre alla riabilitazione del carcerato soprattutto in vista del suo rientro nella società civile. Chiedo ad Angelo come ha vissuto la fine della sua pena e il ritorno a casa e lui mi risponde: all’inizio è stato difficile. La sensazione è che tutto fuori fosse cambiato. Le persone sembravano invecchiate ma forse perché io mi sentivo invecchiato. Ogni rumore mi insospettiva, ogni atteggiamento degli altri lo studiavo e controllavo. Poi lentamente tutto è tornato come prima. Con il tempo mi sono accorto che moltissime persone hanno creduto e credono ancora nella mia innocenza. Tutti i giorni continuo a svegliarmi prestissimo, mi occupo sempre del bestiame, spesso faccio il giardiniere, insomma la voglia di lavorare non mi è mai mancata!
Qual è il tuo sogno? gli chiedo. Avere un lavoro stabile. Svegliarmi e fare quello che mi piace ma avendo la certezza di poter vivere serenamente. E perché no? Avere un giorno una famiglia.
E ti auguriamo Angelo di realizzare i tuoi sogni. Perché oltre le sbarre ci può essere sempre una speranza. Basta saperla coltivare.