Il fiore petaloso e la riscoperta del limite
di Tonino Loddo
Viviamo in un tempo che qualcuno ha definito post-filosofico (R. Rorty), perché sempre meno attento alla giustificazione razionale degli orientamenti e delle scelte e sempre più, se non esclusivamente, proteso al perseguimento di interessi e fini immediati e poco meditati, dettati spesso dalla ricerca dell’utile e meno da un progetto consapevole e a lunga scadenza.
È soprattutto a partire dagli ultimi anni Sessanta che abbiamo cominciato a pensare che la libertà individuale potesse rappresentare l’unico vero valore meritevole di essere salvaguardato, sacrificando ad esso tutto il resto. Col passare degli anni, poi, questo enunciato ha cominciato ad essere presupposto e assunto acriticamente, perché ritenuto del tutto evidente, al punto che chiunque osi metterlo in discussione viene passato per retrogrado, repressivo e fuori dal tempo.
Così, col nobile fine di non limitare l’individuale libertà espressiva di un bambino, la Crusca ha assunto nel suo vocabolario (ma chi lo usa più?) un brutto ed inutile lemma come petaloso, e per non limitare l’individuale libertà affettiva di alcuni cittadini il Parlamento è rimasto inchiodato per settimane su una questione (la steptchild adoption) riguardante – a detta degli esperti – le autonome scelte individuali di poche centinaia di persone. Ora, trascurando il folclore di petaloso, è facile rapportare la cifra appena enunciata a quella degli oltre 500.000 nostri concittadini affetti da malattie rare privi di cure specifiche perché lo studio di farmaci idonei sarebbe economicamente improduttivo, o a quella delle migliaia di esodati dimenticati da anni al loro destino, o a quella dei. 34.000 minori senza famiglia, di cui 19.000 in istituti … Di queste persone sole, malate e senza lavoro (queste sì davvero bisognose di attenzione forte e severa!), il Parlamento e i media si sono occupati e si occupano poco o nulla; mentre si sono utilizzate sterminate quantità di parole e di tempo a favore delle garanzie individuali di pochi individui, mediamente benestanti, i cui diritti sono stati, peraltro, finora egregiamente risolti dai tribunali sulla base della normativa vigente.
“Sui diritti non si fanno mediazioni!”, si è sentito dire. E chi non è d’accordo? La questione è che pare ci siano diritti e diritti; diritti dei quali ci si interessa e diritti dei quali non ci si interessa. Ecco, se il Parlamento e i media avessero dedicato una quantità di spazio e tempo almeno proporzionalmente pari alla quantità dei soggetti portatori di diritti che reclamano attenzione, forse vivremmo in un mondo davvero migliore.
“Est modus in rebus (nelle cose è insita la loro misura)”, dicevano gli antichi. Per poi subito soggiungere: “e vi sono precisi limiti al di là o al di qua dei quali non può consistere il giusto” (Orazio, Satire). Qui, infatti, sta lo snodo della questione. L’Accademia della Crusca che si occupa del nulla o il Parlamento che dedica un tempo spropositato a questioni del tutto marginali, sono la più esplicita rappresentazione del nostro mondo e della diffusa incapacità a porsi dei limiti, conseguenza della presunzione di pensare sé stessi come onnipotenti, dimenticando la propria nativa debolezza. Ma se il limite non è accettato, l’esistenza si trasforma in una fiction la cui trama è rappresentata dall’illusorio tentativo di svincolarsene, negando la propria natura finita e la propria pochezza. E se desiderare il superamento del limite è in sé positivo, diviene però un disvalore quando l’uomo, rifiutando la propria debolezza, persegue questo obiettivo come un diritto scaturente da un’illimitata libertà individuale, invece che cercare di raggiungerlo con rispetto umile. Perché solo questo – il rispetto umile – è l’atteggiamento che consente di valorizzare il limite, rendendolo un motivo di crescita invece che di rammarico; l’unico che permette di accettare la propria condizione senza desiderarne un’altra, accogliendone le sfide e la bellezza.
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