Ho trovato cosa fare
di Claudia Carta.
Sabato 30 novembre 2019.
Ore 14.26.
Un tintinnio del telefono richiama la mia attenzione. Nuovo messaggio.
Un secondo. Un terzo. Una sequenza di piccole frasi sintetiche riempie ildisplay, colorandolo di significati.
Leggo.
Ho trovato cosa fare a Natale.
E anche a Capodanno.
Andrò a servire ai poveri senza tetto…
…la cena.
In città.
Lo faccio di nascosto, se così si può dire. Capiscimi.
Non so se sono l’unico direttore a trascorrere il Natale così.
Però è importante.
C’è gente che sta male.
E non ha familiari.
Non ha casa.
Non ha caldo.
Non ha regalo.
Né un abbraccio.
Nulla di nulla.
Non lo nego. Davanti alle parole appena sussurrate del collega giornalista, confidate nel silenzio discreto di un pomeriggio, il mio spirito evangelico si è sentito molto prossimo allo zero. Nell’immediatezza di quel desiderio affidatomi sottovoce, diverse cose mi hanno colpita.
Uno, la mia reazione. I miei pensieri. Le mie domande. Un gesto concreto, autentico, spontaneo e sentito: quando mai ci hai pensato, tu?
Due, la sua gioia. Avete presente quando improvvisamente sapete cosa fare, quando farlo e, soprattutto, perché fare qualcosa di veramente importante e a cui tenete? Ecco. “Ho trovato cosa fare”, significa che c’era qualcosa che si stava cercando. Qualcosa che recasse con sé un peso e uno spessore degni di meritare il giorno di Natale e di Capodanno, i giorni della festa, i giorni della gioia, i giorni della famiglia e degli amici, i giorni della luce e dei sorrisi. Evidentemente non per tutti.
Tre, la parola servire. “Andrò a servire”. Poteva dire “portare”. Poteva usare “consegnare”. No. Quel servire è infinitamente più grande. Quell’inginocchiarsi al cospetto della povertà e della solitudine più disarmanti, guardando negli occhi ogni creatura umana che sia distesa, seduta, accovacciata per strada, o sotto un ponte, o in una baracca fatiscente, diventa un sollevarsi immenso, un incontrare l’altro nel punto più alto, un riconoscere e condividerne la profonda dignità.
Nello sgomento, nella riflessione, nella crisi che le sue parole hanno agitato in me, ho solo avuto la forza di rispondere: “Natale vero”.
E ho fatto miei, profondamente miei, gli auguri scomodi di don Tonino Bello:
«Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio. Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. […] I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi. I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.
Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza».
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