In breve:

Costretti dalla morte a pensare alla vita

Cutro

di Mons. Antonello Mura.
La realtà ogni giorno provvede a consegnarci immagini di morte, di vite spezzate, e ci lascia sempre più fragili e inermi. Il mondo sembra non solo incapace di vivere in pace, ma appare più impegnato a consumare energie per far morire,piuttosto che aiutare la vita a trionfare. Quando a Crotone, tempo fa, abbiamo visto la triste compostezza delle bare di tanti migranti, difficile non avvertire il nostro disordine, unitamente alla confermata inadeguatezza di concepire l’umanità come accoglienza.

Nel tempo quaresimale, che porta i credenti a vivere la Pasqua di risurrezione, dovrebbe essere normale riflettere sulla consapevolezza che abbiamo raggiunto sul senso della vita e della stessa morte. Impossibile infatti rimanere indifferenti, pena il venir meno della nostra consistenza umana, di fronte al decesso di una persona cara o conosciuta o quando irrompe la malattia tra amici e conoscenti, lasciandoci di sasso.

La morte è sempre in prima pagina, nonostante i tentativi di esorcizzarla e di limitarne gli effetti, magari nascondendola o non nominandola.

Il filosofo Pascal, già nel XVII secolo, parlava efficacemente di “fuga dalla morte”. Le persone, scrisse, preferiscono il «divertissement», cioè la “distrazione”, tuffandosi in mille occupazioni e preoccupazioni e sfuggendo così al pensiero della morte. «Gli uomini» – spiegava il filosofo francese – «non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici».

Da credenti osiamo pensare che prendere coscienza della nostra finitezza ci aiuta a vivere. La consapevolezza della precarietà delle sicurezze e dei nostri progetti, ci costringe a interrogarci autenticamente sul senso della vita. E a decidere per che cosa vale la pena vivere e morire.

L’esperienza di Gesù dimostra che continuare ad amare, nonostante tutto, è la scelta che rende la vita vittoriosa, annullando gli effetti della morte, di ogni morte. Risorgere, prima ancora del dono della vita piena, è fare esperienza che vale la pena donare se stessi. Il dono di sé fa vivere, e rende la vita più forte della morte.

Nel suo testamento filosofico, Jean Guitton immagina, tra l’altro, un dialogo in punto di morte con Paolo VI, suo grande amico. Davanti al Papa ammette di aver cercato la fama, il successo, e di aver amato poco, anche la moglie.

«Santo Padre, che cosa vuol dire pentirsi?» «Amare, finalmente», gli rispose il Papa; e il filosofo: «Non ho quasi avuto il tempo di amare. Dovevo pensare, credere e sapere. Riflettere. E sapere sempre meglio, sempre più saldamente credere. In questo consisteva la mia vita. Rimandavo sempre l’amore al giorno dopo. E anche la preghiera». Paolo VI: «È oggi che bisogna amare» e Guitton: «Dio ama forse gli avanzi?» e il Papa: «Dio ama l’ultimissimo» [...] In nome del Cielo, Guitton, ripeta con me: “Mio Dio, ti amo!”; Guitton: «Non ce la farò mai!» Paolo VI: «Jean, apriti!»; il filosofo: «Sono chiuso!» [...] Mio Dio, ti a…Ah!» e il filosofo, immaginando la sua morte, conclude: «Morii così, fra le braccia di Paolo VI».

«Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore», ha scritto san Giovanni della Croce. Solo l’amore ci dona l’esperienza del Risorto, rendendoci forti di fronte a ogni morte. «Amare qualcuno significa dirgli: tu non morirai!» (Gabriel Marcel).

+ Antonello Mura

 

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