Chira Mulas: “L’arte ci indica la strada”
di Alessandra Secci.
Se si dovesse ipoteticamente analizzare l’elenco degli interrogativi ai quali è più difficile fornire una risposta, Cos’è l’arte? di sicuro sarebbe in cima a esso. Nel suo significato più ampio, si legge, comprende ogni attività umana (…) che porta a forme di creatività e di espressione estetica. Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi. Eccola, una prima risposta al quesito: l’arte è un linguaggio, un codice. E si precisa poi che (…) tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Quindi, l’arte è un linguaggio, un codice, non sempre decifrabile. Ma può incarnare anche un canale, un veicolo, attraverso il quale la trasmissione del messaggio può divenire più netta, pulita, diretta.
L’arte di Chiara Mulas, classe 1972, da Gavoi, è encomiata appunto per la sua natura veicolatoria, diffusoria: attraverso il suo apporto, il talento performativo si carica di un nuovo significato e rappresenta un trait d’union con la modernità.
«Sono principalmente un’artista visiva – racconta –. Ho conseguito il diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna e nel contempo lavoravo in una fabbrica per mantenermi agli studi. Ricordo ancora la prima lezione in Accademia quando il docente del corso principale, rivolgendosi a noi studenti disse: «Non illudetevi, non sarà certo l’Accademia a fare di voi degli artisti!». Aveva ragione, perché il percorso dell’arte è soprattutto un viaggio interiore, un’esperienza con il sacro, un dialogo con l’invisibile e la realtà del mondo, con tutta la sua complessità. Sono un’artista multi-media: video, fotografia, installazione, disegno e arte-azione sono i mezzi d’espressione che prediligo. Nutro una grande ammirazione per il lavoro di artisti come Ana Mendieta, Chris Burden, Regina José Galindo, Hermann Nitsch, Gina Pane, Joseph Beuys, solo per citarne alcuni. L’arte che pratico non appartiene allo spettacolo, né tanto meno al teatro, non ripeto mai: l’incidente fa parte dell’azione. Di fronte alla violenza del mondo, il mio lavoro occupa uno spazio rituale ed evoca una violenza simbolica come esorcismo, cura, riparazione. Invento un dispositivo nel quale il concetto di sacrificio serve a rivelare il volto nascosto delle cose. Nella mia pratica artistica apro spazi inediti, nei quali un dialogo tra rituali appartenenti a un passato arcaico e modernità è possibile».
Barbagia.
Dalla Barbagia, a Bologna, sino alle rive della Garonna, a Tolosa, dove dal 2007 vive con il compagno, il poeta Serge Pey, che con la sua poesia attraversa le tragedie del nostro tempo. Ma è dalla Sardegna più interna, viscerale, la sua Barbagia, che si dipana il suo messaggio ricco di simbologie, di riti ancestrali, di preghiere, di storie antichissime che riattiva nelle sue performances e che diviene strumento per decifrare il contemporaneo. Il tema del sacrificio, come purificazione, come atto proteso a una nuova vita, e quello dei riti legati alla morte in Sardegna sono ricorrenti anche nei suoi cortometraggi, come Pentuma, S’Accabadora, Barbagia, Ruviu Biancu Nigheddu, Agnus Day: «Il mio punto di partenza è sempre la cultura sarda attraverso la quale parlo al mondo, come nel sacrificio dei vecchi, nelle faide e nell’eutanasia rituale. Questi ultimi due sono strettamente legati alla poesia, con le donne che improvvisano i canti durante le cerimonie funebri. In Sardegna la poesia accompagna ogni momento della vita, la nascita, il lavoro, la festa e la morte. Sono molto legata alla mia terra e alla sua cultura, per me è come una valigia interiore invisibile che porto ovunque nel mondo».
La sottile linea rossa.
Nel 2018 Chiara omaggia l’opera di Maria Lai con Le vene rosse di Ulassai, un viaggio attraverso alcuni elementi chiave dell’artista ulassese, rielaborandoli in chiave plastica e visiva: nelle foto di Enrico Lai, Chiara, col costume tradizionale del suo paese, reinventa questi elementi e riesce nel compito di armonizzarli e metterli in comunicazione attraverso quello più simbolico ed evocativo, il filo di lana rosso, tramite il quale le due artiste dialogano. Una ricerca delle proprie radici, una genesi del mondo che parte dal quotidiano: «Estrarre poesia dalla vita di tutti i giorni per farla esistere come poesia è un atto necessario per porre la realtà del nostro mondo su un altro livello di comprensione. Nel mio percorso di vita e di lavoro, l’incontro con Serge, con cui condivido la mia vita personale e artistica, è fondamentale. Il mio lavoro con lui è una poesia il cui spazio di realizzazione si scrive a due mani. Insieme rivisitiamo rituali, in cui parole, immagini, azioni ci permettono di scrivere un’altra poesia che sfugge alla pagina bianca. È un dialogo permanente con l’invisibile della poesia, che si nutre della realtà che ci circonda, anche se questa non è sempre una poesia. L’arte e la poesia come una bandiera di resistenza o una bussola che anche in un momento di smarrimento, ci indica il cammino».
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