Volti e persone
Suor Felicita Mereu: 45 anni di missione in Africa
Quando Padre Vico, fondatore delle Suore Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso di Tempio, annunciò l’apertura di una nuova Missione nella Repubblica Democratica del Congo – Zaire, si risvegliò in me un sogno che conservavo nel cuore fin da bambina.
Per grazia di Dio, ho trascorso la mia infanzia e giovinezza nella semplicità, nella serenità e nella gioia, amavo la vita e tutto ciò che era bello e buono! Stavo bene in compagnia delle mie coetanee; animavo e mettevo allegria nel gruppo delle ragazze. Mi piaceva cantare, danzare, scoprire e vedere luoghi nuovi: la bellezza della natura mi incantava e mi rendeva felice. Anche le giornate missionarie del periodo erano vissute con gioia e impegno per raccogliere fondi per le missioni. Oltre che chiedere un piccolo contributo alle famiglie del paese, si organizzavano le recite e la nostra maestra, Bonaria Pisano, distribuiva le parti: a me dava sempre il ruolo della suora missionaria!
Questa mia allegria caratterizzerà la mia vocazione e tutta l’esperienza missionaria.
Il desiderio di essere utile a chi soffre mi ha spinto a essere libera da legami; questo fervore di essere di aiuto al prossimo era così forte da sentire di poter rinunciare a tutto, per offrirmi al Signore nel servizio ai poveri. Ecco il movente della mia vocazione missionaria.
Risposi, pertanto, all’appello di Padre Vico e venni ammessa a far parte del gruppo delle partenti in Africa, formato da quattro italiane e tre congolesi. Dopo due anni di preparazione a Parigi, nel 1976, con grande contentezza, mista a un velo di tristezza, lasciai i miei cari, il paese natio, per andare a vivere in mezzo all’immensa foresta equatoriale e i numerosi villaggi dei nostri fratelli africani, bisognosi di tutto.
Quarantacinque anni trascorsi nella fatica, nei pericoli di ogni sorta particolarmente nel periodo della guerra, dal 1992 al 2002, sotto il sole cocente dell’equatore, ma sempre felice di poter donare un sorriso e un po’ di sollievo alle sofferenze di questa gente indifesa, votata a subire ogni genere di tortura, di violenza, negoziata e venduta a prezzo di diamante.
All’arrivo nel villaggio di Yakamba, al centro del Congo, a cui eravamo destinati, iniziammo il lavoro: mi fu affidata la responsabilità – insieme a un Padre Belga e una coppia laica – di un centro di formazione per catechisti animatori che accoglieva dodici famiglie con più di cinquanta bambini. I nuovi catechisti, dopo due anni di formazione, venivano inviati nei villaggi dove ponevano le basi per la spiritualità cristiana: preparare adulti e bambini ai sacramenti.
Il mio lavoro non si limitava al solo centro di formazione, occorreva garantire il buon funzionamento di tutte la missione: l’ospedale con i numerosi ambulatori sparsi nei villaggi; il lebbrosario con 40 lebbrosi; i tubercolotici; le donne in attesa; i bambini malati e malnutriti; i poveri, i vecchi abbandonati e messi da parte, in quanto considerati stregoni e portatori di sventura. Ma vi erano anche le scuole elementari e superiori, prive di tutto, mancavano i libri, le carte geografiche, i quaderni, le matite. Per i bambini delle elementari bisognava procurare i fogli dei quaderni e tagliare le matite in quattro pezzi perché bastassero per tutti.
Ripensare al periodo trascorso in Congo mi fa tornare in mente la frase: “Essere messaggeri della speranza”, e la parola speranza mi ricorda i dieci anni della guerra in Congo, quando, nei momenti più duri, ci siamo trovate di fronte all’interrogativo se restare o rientrare in Italia. Restare significava mettere a rischio la vita. Ma significava anche dare un segno di speranza alla gente dell’Africa. Perciò, con le sorelle africane abbiamo condiviso l’angoscia e le fughe nella foresta per nasconderci dai gruppi armati. Con la nostra presenza hanno trovato il coraggio di continuare a vivere. «Voi siete i nostri Messaggeri di Speranza», ci dicevano.
Dopo 28 anni trascorsi in Congo venne aperta un’altra missione in un’altra nazione, dove mi trovo attualmente, il Gabon. La situazione sociale, politica e religiosa del Gabon è completamente diversa: non ci sono guerre, la gente non vive nella povertà e dal punto di vista economico il Paese è ricco, ma povero di valori. Diffondere il Vangelo e la morale cristiana in un ambiente in cui prevale la sete esagerata del denaro non era facile. La prostituzione è molto diffusa, ancora prima dell’adolescenza, considerata una via facile per guadagnare senza fatica.
Sono in crescita diverse religioni, ma le sette hanno il sopravvento nelle città anche per mancanza di sacerdoti. Alcune di queste praticano il sacrificio umano e sono radicate in tutti i ceti sociali, persino nella scuola.
La famiglia con madre, padre e figli non esiste; noi suore, durante le visite familiari, ne abbiamo incontrato poche. La madre pensa a tutto, ma i bambini sono abbandonati a loro stessi senza nessun controllo e guida. Da questa situazione era nato il desiderio – rafforzato dalla richiesta di alcune mamme – di costruire un complesso scolastico con scuola materna ed elementare per arrivare, attraverso i bambini, ad avvicinare le famiglie e renderle consapevoli del dovere di educare i bambini per la società futura.
Con l’aiuto dello Stato e la generosità di tante persone abbiamo costruito una scuola elementare e materna, dedicata a Padre Vico. Avevamo inizialmente 134 alunni, oggi sono più di 800 e frequentano la nostra scuola trovando istruzione e formazione.
Questa è la nostra missione di Religiose, questa è anche la vostra missione, essendo voi stessi missionari ciascuno nel luogo in cui si trova.
Il Signore ricompenserà appieno le vostre rinunce con la benedizione, la grazia, la pace e la gioia nel cuore per voi e i vostri cari.
Dopo questa lettera non mi resta che invitarvi a cantare “Grazia e lode a Dio Padre” per la sua bontà infinita, per i doni innumerevoli e per la protezione, durante i miei 45 anni vissuti nella terra africana.
A voi tutti che leggerete questo mio racconto, un abbraccio e un arrivederci! Con grande affetto e riconoscenza.
Suor Felicita Mereu
Escalaplano
A tu per tu con Maria Sciola: nel nome di babbo Pinuccio
di Augusta Cabras.
Tuo padre Pinuccio Sciola ha lasciato un’immensa eredità d’amore per voi figli, un’eredità di valori, di cultura e arte. Questa ricchezza non è solo privata, ma è collettiva. Come vivi questa condivisione?
Mio padre ha lasciato un’eredità straordinaria. E non è un’eredita solo mia, solo della famiglia. È una eredità di tutti e anche parlarne oralmente, raccontare di lui, dei principi che lo hanno ispirato è importantissimo. Mi aiuta a tenere vivo il legame. Lui ha sempre condiviso il suo sapere, la sua arte, i suoi progetti. Il portone della sua casa era sempre aperto. Mi trovo spesso a chiedermi, raccogliendo le testimonianze di chi lo ha conosciuto, come riuscisse a trovare il tempo per le persone che incontrava, pur progettando e creando incessantemente. Eppure anche lui ha vissuto i nostri tempi in cui si corre per far tutto. Lo scambio per lui era necessario. Continuiamo su questa strada anche noi, con la Fondazione che porta il suo nome e che incarna i progetti e lo spirito di apertura, ospitalità, condivisione e rispetto della natura e delle persone che sono stati i valori fondanti di tutta la vita di mio babbo.
E nell’arte di Sciola il connubio tra cultura e natura è straordinario. Da dove nasce questo legame così stretto?
Lui è nato in una famiglia di contadini, ha vissuto a contatto con la terra da sempre. Con la terra e con la pietra, sua “sorella maggiore”. Quando toccava una pietra, la accarezzava, progettava l’opera, diceva anche questo: quando faccio un taglio sulla pietra io soffro, ma spero che un giorno, che non conosco, le mie opere ritornino a essere parte della natura. I muschi chiuderanno quelle ferite. E circa 800 opere sono state “seminate”, come amava dire lui, nel Giardino Sonoro, che era il frutteto di famiglia. È uno spazio senza tempo, un museo a cielo aperto, un luogo di incontro, di scambio di culture, dove le persone di ogni età, provenienza, cultura, ceto sociale possono conoscere l’artista, l’uomo, il suo pensiero, le sue opere. Lui aveva una missione: sperava che le persone dopo aver visitato il Giardino Sonoro e conosciuto le sue opere avessero una nuova percezione e maturassero maggiore rispetto nei confronti della natura. Voglio ricordare questo suo progetto: un giorno in un terreno aveva fatto smuovere la terra con il vomere, e lui scalzo, sullo sfondo le musiche di Paolo Fresu, gettò nella terra i semi da lui creati e poi li ricoprì con la terra. Un gesto creativo, generativo, significativo. Arte e natura ancora legati.
Cultura, natura e radici. Cosa è stato per lui San Sperate?
Le sue radici, il luogo da cui si è allontanato e in cui è tornato. Al suo ritorno, dopo aver viaggiato, studiato, incontrato luoghi e persone nuove, si è accorto del divario culturale tra lui e le persone con cui aveva vissuto fino alla sua partenza, con cui aveva lavorato la terra. Volle provare a colmare questo divario portando loro l’arte, condividendo la sua arte, coinvolgendo i suoi amici e conoscenti in iniziative comunitarie.
Le opere di Sciola hanno il grande merito di sollecitare non solo la vista, come quando ci si trova davanti a un quadro o a una scultura, ma anche il tatto e l’udito. Chi incontra le sue opere per la prima volta che reazione ha per questo coinvolgimento?
Nonostante l’opera e la poetica di mio babbo siano ormai noti, c’è ancora chi non lo conosce. Noi giriamo il mondo per parlare di lui e chi incontra le sue opere per la prima volta rimane particolarmente colpito ed emozionato. Generalmente ci si aspetta, vedendo le pietre, che queste vengano percosse, come gli antichi litofoni, e si stupiscono invece quando la pietra viene accarezzata e tra i pieni e i vuoti, le vibrazioni avvolgono chi ascolta.
(Confermo, per averla vissuta, che è un’esperienza straordinaria. Il Giardino Sonoro ha un potenza e un’energia che amplifica e rafforza il filo che ci lega alla natura, ndr).
Quando attraversiamo periodi particolarmente complessi come quello attuale, viene spesso da chiedersi cosa avrebbero detto, scritto, creato le persone che non ci sono più e che tanto hanno influito nel tempo in cui erano in vita. Tuo padre come avrebbe vissuto questo tempo?
Domanda difficile, perché spesso me la pongo e per tante questioni. Credo che il suo essere sarebbe stato altalenante, data la lunghezza di questo periodo particolare e la confusione delle innumerevoli notizie che ci bombardano. Certamente però sarebbe stato attivo, avrebbe continuato a creare, avrebbe stimolato anche noi tutti. Ricordo ad esempio, il giorno della morte del Papa Giovanni Paolo II. La notte rimase sveglio, non riuscì a dormire. La mattina San Sperate si svegliò con tante immagini del papa sparse per il paese…
Quale è stato il momento della fase creativa di tuo padre che ti colpiva di più?
Io sono particolarmente legata alle terrecotte. Solitamente lui iniziava a lavorare la notte, quando la casa che durante il giorno accoglieva sempre tantissime persone, si svuotava. Lavorava nel silenzio, con le sue grandi mani per tante ore e la mattina, al risveglio, trovavo le sue opere, tanti uomini di terracotta, con lo sguardo attento, con le espressioni severe. Erano persone che lui conosceva, che vedeva fuori dai bar del paese e che da lì osservavano gli altri e le cose.
C’è un’opera o un progetto che Sciola non è riuscito a realizzare?
I progetti incompiuti sono duecento, in luoghi diversi. Il progetto più grande sognato da mio padre era quello di integrare opere d’arte, sue e di altri artisti, lungo il tracciato della strada statale 131, per 240 Km. Una lunga strada dell’arte che avrebbe attraversato la Sardegna e fatto arrivare visitatori da tutto il mondo. Noi continuiamo a coltivare questo grande sogno insieme ad altri progetti che la Fondazione porta avanti.
Quali sono i prossimi progetti della Fondazione Pinuccio Sciola?
Quest’anno è l’ottantesimo dalla nascita di mio padre. Lo ricorderemo con una serie di eventi particolari e ci sarà sempre il Festival Sant’Arte. Stiamo lavorando alla trasformazione della sua casa in Casa Museo e luogo di studio e faremo poi delle esposizioni in giro per il mondo.
La stazione di Sara e Silverio: il mare in un panino
di Fabiana Carta.
Il progetto imprenditoriale di Sara e Silverio, due giovani ogliastrini che nel 2019 hanno aperto un chiosco con furgone dedicato totalmente al pesce in tutte le sue varianti. La bontà dei prodotti proposti ha permesso – a febbraio – di trasferirsi in un locale e ampliare l’offerta
La nuova attività è partita solo da qualche anno, ma possono vantare il primo posto su TripAdvisor – il sito Internet di recensioni più famoso – sia nella classifica “ristoranti” a Tortolì, sia nella sezione “pesce”, dove hanno sbaragliato tutta la Sardegna. Oltre a queste due grandi soddisfazioni, nel 2021 hanno ricevuto l’importante premio che si chiama Travelers’ Choice, assegnato sempre dallo stesso TripAdvisor alle migliori strutture e ristoranti nel mondo, in base ai consigli, recensioni e i racconti dei viaggiatori.
Loro sono Sara Lai, 27 anni, e Silverio Romano di 31, due giovani ragazzi ogliastrini sulla bocca di tutti – è proprio il caso di dirlo – per la bontà della cucina di mare che propongono. «Entrambi proveniamo da mondi diversi – racconta Sara –, io ho una laurea magistrale in Scienze motorie, ambito nel quale non ho mai trovato grosse opportunità di lavoro, e il mio compagno ha un diploma tecnico industriale, fino a pochi anni fa progettava impianti elettrici da libero professionista».
Come sono arrivati alla cucina? Silverio proviene da una famiglia di pescatori di Arbatax, la quale per un periodo ha avuto una gastronomia, questo significa che il mare e gli abitanti dei suoi fondali sono sempre stati di casa; mentre Sara dall’età di 16 anni ha racimolato esperienze nei bar. A unirli c’è la passione per la cucina, il piacere di fare un lavoro a stretto contatto con il pubblico e la volontà di provare a reinventarsi, costruire qualcosa insieme.
Nel 2017 Silverio si fa tentare da un bellissimo corso di cucina all’Italian Chef Cooking School, nella sede di Cagliari, guidato dallo chef di origini campane Giuseppe Falanga: «Durante il corso il mio compagno ha collaborato con chef stellati di importanza mondiale, come Mauro Pisani, Felice Lo Basso e Luca Marchini, ha potuto imparare svariate tipologie di cucina e le sue varietà regionali», ricorda Sara.
Al suo rientro in Ogliastra ha lavorato per circa un anno in un ristorante locale, poi insieme hanno deciso di aprire un’attività tutta loro. Correva l’anno 2019. «La Stazione del Pescatore nasce dall’idea di proporre un prodotto di pesce vario e di ottima qualità, da poter gustare al tavolo e, soprattutto, da portare a casa – spiegano –. A Tortolì un furgone che offre unicamente pesce non si era ancora visto». Una proposta nuova che ha incuriosito subito i palati ogliastrini, abituati al classico panino con la fettina o la salsiccia. Lo street food, per dirlo alla moda, permette di mettersi in gioco con un investimento più modesto rispetto al classico ristorante, ma allo stesso tempo permette di offrire prodotti eccellenti, freschi, accattivanti, presentati in modo innovativo. «Per quanto ci è possibile ci forniamo dai pescatori locali, integrando con pesce quasi esclusivamente pescato nel Mediterraneo, perché ci fa piacere rispettare i nostri sapori. All’inizio è stato un po’ difficile, proporre dei panini con il pesce era una novità per la nostra zona. Poi abbiamo ingranato, soprattutto con i turisti che frequentano l’Ogliastra, in particolare della zona di Cagliari, più abituati al cibo innovativo o anche all’idea di prendere del pesce da asporto, come una porzione di calamari fritti da mangiare a casa», spiega Sara. Il furgoncino di Sara e Silverio diventa una vera e propria esperienza culinaria, si vocifera che il panino con la seppia arrosto e il guanciale sia qualcosa di strepitoso, da far venire l’acquolina in bocca solo a pensarci.
Nel 2020, con l’arrivo della pandemia e delle restrizioni, i ristoranti hanno dovuto organizzare le consegne dei prodotti a domicilio: «Abbiamo preparato un laboratorio dove poter fare tutte le preparazioni per le consegne – raccontano – ed essere pronti ad affrontare il lavoro con tutte le regole imposte dal Governo, in precedenza riuscivamo a farle direttamente sul furgone perché erano di un numero facilmente gestibile». E così, armati di buona volontà, sono sopravvissuti più che bene ai mesi più neri. Le numerose e bellissime recensioni su Tripadvisor hanno fatto il miracolo, oggi tutti consultano Internet prima di scegliere dove andare a mangiare: boom di turisti e una valanga di richieste, così tante da spingerli a pensare più in grande. «L’aumento della clientela e le richieste di lavorare anche la sera ci hanno spinto a vendere il furgone e decidere di trasferirci in un locale, mantenendo la formula precedente. Nessun servizio al tavolo, il cliente può servirsi in autonomia, e consegne a domicilio grazie a un fornetto che mantiene la temperatura a 80 gradi, siamo gli unici ad averlo in Sardegna», racconta Sara. Il locale, inaugurato lo scorso 23 febbraio, si trova molto vicino a dove stava il furgone, un punto di passaggio facilmente raggiungibile da tutti, soprattutto da chi rientra nei paesi limitrofi o da chi va di corsa e non può perdere tempo nel traffico del centro.
Nei pensieri futuri c’è l’idea di aprire nuovi punti vendita e il desiderio di ampliare il servizio a domicilio anche per i paesi di montagna, più lontani. Trasportare un prodotto delicato come il pesce non è semplice e alcuni prodotti sono buoni se gustati subito, come i calamari fritti, «vorremmo trovare un modo per non perdere la croccantezza».
Nella gioia per la nuova avventura e l’emozione di poter tornare lentamente alla normalità, come tutti si augurano una bella stagione con turisti e tanti clienti locali. Grinta, voglia di mettersi in gioco, cibo sublime: questo è il sogno di Sara e Silverio, al sapore di mare.
Caseificio Pistis: pastori da quattro generazioni
di Fabiana Carta.
La storia della famiglia Pistis di Lotzorai, pastori di generazione in generazione, e il sogno di Carlo e Giorgio, due giovani ragazzi che hanno deciso di aprire un caseificio e continuare la tradizione
Nascere in una famiglia di allevatori da quattro generazioni significa che nelle vene scorrono, insieme al sangue, la dedizione alla terra, l’amore per gli animali, il sacrificio e l’orgoglio di portare avanti una storia che inizia con il bisnonno Bernardo, prosegue con nonno Antonio e babbo Giovanni, arrivando fino a noi.
Giorgio e Carlo Pistis, rispettivamente classe 1984 e 1988, sono i fratelli minori che hanno deciso di continuare il mestiere: «Siamo cresciuti col bestiame, fin da piccolini nostro padre ci abituò alla campagna. Lo abbiamo sempre aiutato volentieri e ci siamo innamorati subito di questo lavoro», raccontano. Un padre andato via troppo presto, ma che è riuscito a trasmettere passione e grandi valori, ha spronato i suoi figli a continuare gli studi, ma li ha sempre lasciati liberi di scegliere. Giorgio e Carlo ricordano di quando la mattina presto, prima di andare a scuola, andavano a mungere manualmente le pecore: «Era un appuntamento fisso, anche se qualcuno di noi aveva la febbre. Con gli animali avevamo creato un rapporto molto bello, ci riconoscevano e ognuna aspettava ordinatamente in fila il proprio turno. Non ci pesava più di tanto, era diventata un’abitudine, in più c’era sempre la voglia e la curiosità di imparare», spiegano.
Tutta la famiglia è sempre stata coinvolta nei vari lavoretti, soprattutto il fratello maggiore Domenico, da ragazzino addetto alla mungitura. Ed ecco che riaffiorano altri ricordi: «La sua partenza per il militare ci lasciò in una situazione un po’ difficile – racconta Giorgio – era soprattutto lui che si occupava di mungere le pecore. In quel periodo ci aiutò nostro padre, con tutti i limiti e le conseguenze legate alla malattia (fu colpito da un ictus a soli 39 anni), ma poi abbiamo dovuto fare da soli».
Aprire un caseificio è sempre stato un grande sogno, fin da bambini. Un sogno che sembrava impossibile da realizzare, ma che è diventato realtà da quasi due anni, nell’agosto 2020. Nel terreno di famiglia in via Milano, lungo la strada per Talana, è sorto un moderno caseggiato che oggi ospita la lavorazione e la vendita del formaggio. «Abbiamo preso la decisione di lanciarci in questo investimento piuttosto serio, partendo da zero: dove sorge il caseificio non c’era niente. Anche la situazione del prezzo del latte sempre altalenante, negli anni scorsi è sceso fino a 47 centesimi, ci ha spinto a prendere una decisione», raccontano i fratelli. L’arrivo della pandemia nel marzo 2020 non era certo qualcosa che si aspettava nessuno, ha sconvolto i piani di molti e la sua ombra nera aleggia ancora. L’apertura dell’azienda era prevista per febbraio o marzo, ma si è dovuta rinviare all’estate, con tutte le difficoltà che ha portato con sé il Coronavirus. Unico vantaggio: il nome dei Pistis è per tutti sinonimo di passione e tradizione, da anni. Giovanni, il padre dei ragazzi, era molto conosciuto in tutta la zona. «Prima di aprire il nostro caseificio, abbiamo avuto la fortuna di farci seguire per sei lezioni da un importante consulente lattiero caseario sardo, un grande professionista, Bastianino Piredda, di Nulvi. Un grande aiuto per i pastori che nel tempo hanno voluto scommettere nella trasformazione del proprio latte in azienda. Un pilastro su cui contare, sempre disponibile per ogni dubbio», spiega Carlo.
Alessio, il nipote ventenne dei ragazzi, aiutato da un ragazzo marocchino, si prende cura giornalmente delle pecore di razza sarda, le vere regine di casa. Sono circa 350, pascolano nei terreni fra Lotzorai e Girasole e si nutrono esclusivamente di mangimi biologici e naturali. La giornata inizia presto per i fratelli Pistis: alle quattro e mezza del mattino Carlo avvia la lavorazione del latte con i vari step, processi che solitamente si concludono a metà mattinata, poi la giornata prosegue con le consegne dei prodotti nei vari paesi; mentre Giorgio con il suo inseparabile trattore si occupa soprattutto della lavorazione dei terreni e della fienagione.
La passione per ciò che fanno cancella ogni fatica, babbo Giovanni li aveva avvisati: questo mestiere comporta sacrifici – lo sa bene anche Carlo che ha dovuto farsi operare al tunnel carpale a soli 22 anni, a causa della mungitura a mano, con grande stupore dei medici – ma ci si può realizzare. «Siamo riusciti a ingranare e il prodotto è molto richiesto, distribuiamo nella nostra zona e facciamo consegne a ristoranti, piccoli negozi di prodotti tipici e ad alcuni supermercati, spediamo anche oltre mare e all’estero, in particolare in Germania». Le richieste al momento sono così tante da non riuscire ad assecondarle tutte: «Alcuni ordini li abbiamo rimandati al prossimo anno», spiegano. I prodotti di punta, tutti di prima qualità, sono il formaggio stagionato sardo, il semi stagionato e quello fresco, a cui si aggiungono la ricotta fresca e salata, il casu agedu e la caciotta sarda. Ma non mancano le novità, come il misto-mucca e il misto pecora-capra che stanno già incuriosendo la clientela; e nei progetti futuri potrebbe esserci la produzione di creme spalmabili e yogurt. «Non è stato facile, se superiamo bene questo periodo poi non ci ferma più nessuno!», scherza Carlo. Gli ingredienti per un grande successo ci sono tutti: tradizione, passione, dedizione e alta qualità.
Cia Berg Soro: la ragazza di Stoccolma
di Alessandra Secci.
Screenplay.
Scenario 1, interno, Youtube, pannello delle ricerche. Il pezzo da inserire si chiama “Hobo Humpin’ Slobo Babe”: in meno di un secondo il motore restituisce innumerevoli risultati, e in testa a essi appare un video, dalla texture tipica dei primi anni Novanta, di una band svedese, Whale (Balena), due uomini e una particolarissima frontwoman, carré riccio castano, rossetto, apparecchio ai denti, vestito sbarazzino da Lolita e uno sguardo che ricorda quello di Sean Young in Blade Runner. Il brano, uscito nel 1993, riscuote un successo clamoroso, e grazie alla regia di Mark Pellington, che ha diretto artisti del calibro di Leonard Cohen, R.E.M., U2 e addirittura Michael Jackson (solo per citarne alcuni), il video vince l’anno successivo agli MTV Music Awards nella categoria Best Director (Miglior regista), sbaragliando la concorrenza di pezzi oramai divenuti mitologici come Sabotage dei Beastie Boys, Return to Innocence degli Enigma e Stay degli stessi U2.
Scenario 2, esterno, Tortolì, Corso Umberto, la piccola piazzetta di fronte al cinema Garibaldi. Vi si affaccia la Libreria del Corso, forse una delle più iconiche attività di tutta l’Isola. Un piccolo grande forziere che da oltre trent’anni è un imprescindibile faro per la cultura in Ogliastra e del quale è custode devota un’elegantissima donna, figura sottile e slanciata, abiti scuri, snickers ai piedi e capelli raccolti in una lunga e ordinata treccia.
Ora, vi starete chiedendo quale sia il fil rouge che lega questi due momenti. Come spesso capita, on doit cercher les femmes, occorre cercare le donne: ma la donna da trovare, in realtà, è solo una, e come avrete già intuito, è la stessa di cui si parla nei due scenari.
Cia che visse nella Balena.
«Intorno ai vent’anni – racconta la Berg – fui catapultata dalla mia vita da musicista col gruppo Ubangi direttamente sulla televisione nazionale, alla conduzione del programma Bagen: erano i primi anni Ottanta, quelli del boom di MTV e dei video musicali che, esattamente come accadde in altri contesti europei, anche in Svezia riscossero un altissimo indice di gradimento. All’inizio degli anni Novanta, forte poi del successo con gli Whale, la mia esperienza di vee-jay fu consolidata dalla conduzione per il canale musicale ZTV. Sicuramente un momento particolare che ci ha visto partecipi della scena alternative-rock europea e che ci ha portati in tournée in giro per il mondo anche come band di supporto di Tricky, Blur e Placebo».
Ma il destino, si sa, agisce per vie inconsuete, e spesso il cuore è una di queste.
Via dalla pazza folla.
«Alla metà degli anni Novanta, verso Pasqua – continua Cia – due sorelle mie amiche mi invitarono a unirmi a loro per un viaggio in Sardegna. Avevo bisogno di una pausa, e l’occasione era davvero ghiotta: a Tortolì entrai alla Libreria del Corso, e nonostante non potetti leggere i titoli, non sapendo l’italiano, rimasi colpita dalla cura del libraio nella scelta degli autori. Le mie amiche tornarono in Svezia, e il libraio, non molto tempo dopo, diventò mio marito. Nel nostro piccolo scrigno di via del Corso esistono tantissimi universi: se dovessi scegliere un libro preferito forse opterei per Il Maestro e Margherita, di Bulgakov, una geniale e a tratti onirica critica alla realtà sociale sovietica, che (come altri capolavori) leggo a cadenza bi-triennale: mi piace tenerli vivi nella mia mente, e in generale mi piace approfondire gli aspetti della storia, soprattutto di quella recente, tra le due guerre. Ricordo ancora con qualche brivido la testimonianza di un sopravvissuto del secondo conflitto mondiale, un soldato, che venne a trovarci in Libreria e condivise con noi il suo atroce racconto: i libri, come le canzoni, possono cambiare le cose, e la letteratura, come la musica, è un’arte. Una bellissima arte”.
Mondi lontanissimi (?)
«Causa pandemia non vado in Svezia dal 2020, ma in genere ci torno almeno una volta l’anno, a gennaio. Ed è sempre una sorpresa, mi sembra di catapultarmi di botto all’interno del set di Ritorno al futuro, dove i protagonisti, in sella alla DeLorean, compiono balzi temporali di trent’anni indietro o avanti; a Stoccolma la tecnologia ha trasformato il panorama, non solo quello visivo: i trasporti sono sempre in orario, le informazioni su di essi fornite in tempo reale, persino le panchine pubbliche sono dotate di un pannello che indica la tempistica delle loro manutenzioni. Mia mamma, ad esempio, vive in un appartamento in città, e non ha mai bisogno di uscire, poiché qualsiasi cosa le viene consegnata a casa, abbigliamento, fiori, la spesa: riflettendo a fondo su questo aspetto, dalle ultime volte che sono tornata ho avuto modo di rendermi conto che per ben due settimane non avevo avuto bisogno di parlare con nessuno. Ed è stato terribile, alienante. Vivere in Sardegna non è semplice, ma non farei mai a cambio, nonostante il contesto difficile, le buche nelle strade e le temperature a volte insostenibili, per una donna del Nord come me».
Antonio Conigiu. La perennità sulla pelle
di Alessandra Secci.
Si fa presto a chiamarlo tatuatore.
La passione che muove Antonio Conigiu, villagrandese doc di stanza ad Ardea, è così recondita che non si può che parlare di arte. È l’arte, infatti, ad animarlo, ben prima di diplomarsi come geometra, alla fine degli Anni Ottanta, a Nettuno: l’evoluzione della professione è stata pazzesca, nonostante ancora oggi resistano, dopo tanto tempo, sacche pregiudiziali difficili da estirpare. Ma il percorso di quest’arte – così affascinante eppure bistrattata, incompresa –, della sua “emancipazione” sociale, e quello personale e professionale di Antonio, si intrecciano inesorabilmente.
Pioneristica.
«Mi dedico all’arte a 360° sin da ragazzino – racconta – la pittura ad olio, che di recente ho messo da parte, mi affascina da anni, ma preferisco tenere questa e la mia attività lavorativa separate, pur essendo due forme d’arte. È stato difficile perseverare nel proposito di continuare su questa strada, sono partito verso il continente nel 1987, subito dopo il servizio militare; a Tortolì ho collaborato, quasi “a bottega” da Claudio Zaini, milanese trapiantato in Ogliastra. Nel 1995 ho aperto lo studio a Tor San Lorenzo, con milioni di difficoltà, a partire da quelle di carattere tecnico: l’attrezzatura era ridotta all’osso, gli aghi erano sfusi, andavano saldati, controllati e sterilizzati. Spesso le domeniche erano interamente dedicate a questo passaggio, rognosissimo, che però mi consentiva di stare tranquillo durante tutta la settimana; anche le macchinette e i pigmenti erano “autoprodotti”, pure perché non vi era una rete di distribuzione come quella odierna. La Svolta del ’98, come la chiamo io – (con l’avvento cioè delle circolari ministeriali del 5 febbraio e del 16 luglio, nelle quali si chiarirono per la prima volta le linee guida da tenere per eseguire i tatuaggi e i piercing in condizioni di sicurezza, ndr) – ha dotato la categoria di un minimo di inquadramento, collocandoci negli artigiani, garantito la tutela di cui avevamo bisogno e dato finalmente quella dignità professionale che è sempre mancata. Anche se è questo è il risvolto felice della storia».
Il lato romantico.
«Il rovescio della medaglia – prosegue – è l’eccessivo sdoganamento che la professione ha subìto. Se da un lato, infatti, quella certa aurea pregiudiziale che avvolgeva anche noi operatori – spesso messi alla stessa stregua dei delinquenti nostri committenti, gli unici che potevano permettersi (economicamente ma non solo) il tatuaggio – è progressivamente svanita, lasciando fortunatamente spazio, come detto poc’anzi, alla rivalutazione morale della professione e a un dignitoso incasellamento lavorativo, dall’altro, in breve, si è assistito all’inesorabile perdita di quella magia, quel misticismo da cui il tatuaggio e l’atto del tatuare erano composti. All’attività si avvicinavano sempre più persone, ma con poca dimestichezza e ancora meno passione: la Regione Lazio istituì persino dei corsi di brevissima durata (90 ore) in cui si impartivano i primi rudimenti della professione, ma è chiaro che un lasso di tempo così risicato non può competere in un settore nel quale l’esperienza pluriennale è ciò che fa la differenza, ed è anche raro che si presenti la possibilità di andare a bottega, cioè di poter imparare pazientemente il mestiere presso altre realtà. Altra nota dolente, sul versante della rappresentazione pura: inorridisco nel vedere strafalcioni su pelle, che non tengono conto della giusta composizione e dinamicità che un lavoro deve avere. Rappresentare, ad esempio, una peonia e un crisantemo insieme, in una struttura narrativa che segue l’andamento ciclico del tempo e delle stagioni, significa snaturare il tutto, e questo non è mai un bene. E Internet, da questo punto di vista, non è certamente stato d’aiuto, anzi: quei codici di cui sopra sono stati travisati, mescolati, confusi. E si è praticamente perduta l’essenza di un’arte antica (in Giappone e altri contesti è una tradizione plurisecolare) che invece merita maggiore attenzione e serietà di esecuzione».
Ragione e pentimento.
«Qualunque esse siano, le immagini rappresentate – prosegue Antonio – rivestono un’importanza fondamentale anche per il loro carattere peculiare: la loro perennità. Un quadro, una tela, un muro bianco sono reversibili, l’epidermide no. Io stesso possiedo ancora traccia dei miei primi tatuaggi, orrendi, malfatti, scoloriti: ma sono io, è la mia storia, e anche se li includo in altri più grandi e marcati, restano, a ricordarmi chi sono. In tanti propendono per la cancellazione con diverse tecniche, tra cui il laser: anche questa, una diretta conseguenza di quelle leggerezza e scarsità di contenuti a cui si faceva cenno. Così all’eternità si innesta (e a volte si sostituisce) la temporaneità. Ed è un peccato: il tatuaggio non è per i pentiti».