Volti e persone
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La pizzeria napoletana di Matteo: una scommessa ogliastrina
di Fabiana Carta.
Dai vicoli di Salerno a quelli di Tortolì. La vita di chi fa questo mestiere è sempre pronta alle sorprese e ai cambiamenti, come quella di Matteo Fiorillo, pizzaiolo e tecnico istruttore riconosciuto, che ha cominciato il suo capitolo ogliastrino nel 2014
Nuova città, nuova vita, stessa passione. Gli anni della gioventù li trascorre nei locali degli zii, inizialmente come barista o cameriere, poi come pizzaiolo: «La mia famiglia lavora in questo campo da più di trent’anni – racconta – ho tanti parenti pizzaioli: in particolare ricordo mio cugino Giuseppe, che ci ha lasciato nel 2018, al quale devo la maggior parte di ciò che so fare dietro al banco».
Prima l’esperienza in Germania, a Norimberga, poi l’occasione di tornare in Italia: «Ho fatto una scelta di cuore e ho deciso di rientrare, abbiamo colto subito l’occasione di trasferirci in Sardegna con tutta la famiglia. Otto anni fa sono arrivato a Tortolì per una degustazione di pizza napoletana della durata di un fine settimana, ma con il ristoratore abbiamo deciso di portare avanti un progetto e sono rimasto come dipendente», ricorda Matteo. Lo stile di vita della cittadina ogliastrina è fra i motivi che spingono la famiglia Fiorillo a restare: «Credo che Tortolì sia un posto a misura d’uomo, i bambini posso passeggiare da soli e giocare ancora per strada e la gente è molto accogliente. Ho trovato persone, anche se conosciute da poco, che hanno teso la mano nel momento del bisogno: una cosa meravigliosa. Si mangia molto bene e il mare è bellissimo, cos’altro si poteva volere di più?».
Qualche esperienza come pizzaiolo in vari locali ogliastrini, fino a che il desiderio di creare qualcosa insieme alla sua famiglia si è fatto sempre più forte, impossibile da ignorare. Dietro questa scelta, in prima linea, c’è la forza e la volontà di sua moglie Ramona, da subito il cuore pulsante del progetto. Una scommessa proporzionata alle loro possibilità, niente di grandioso, un piccolo investimento che poi è cresciuto nel tempo: così, nel 2017, apre a Tortolì la prima pizzeria napoletana, col nome di Regina Margherita. «Siamo una realtà a conduzione familiare, come una vera squadra: io, mia moglie e mia figlia Marianna – quest’anno di maturità alla scuola Alberghiera –. Portiamo avanti l’attività, con l’aiuto degli stagionali durante l’estate; da quest’anno abbiamo anche lo chef. Fare tutto in famiglia è sempre stata la nostra forza, ci ha aiutato soprattutto durante i due anni di Covid».
Un grande successo e un prodotto esclusivo: la vera pizza napoletana, frutto di anni dedicati alla formazione professionale con uno dei più importanti maestri panificatori d’Italia e a vari master, come quello sul “senza glutine” e sui grani antichi e lievito madre. «Abbiamo aperto con un’idea di pizzeria molto spartana, basandoci sull’approccio del mangiare la pizza di una storica pizzeria salernitana, “Carminuccio a Mariconda”, che non prevedeva neanche l’uso delle posate. L’idea non è stata capita totalmente, ma nel tempo ci siamo adattati alle richieste – come alla tipologia degli ingredienti – e abbiamo cambiato approccio. Ad esempio, ho avuto difficoltà a far capire che la margherita senza basilico non è margherita, è scritto sul documento consegnato al Ministero dell’Agricoltura», spiega Matteo.
L’amore per ciò che fa emerge dalla passione con cui racconta, da come spiega la storia di questo meraviglioso piatto – così semplice ma così buono – dall’analisi del discorso pizza oggi, molto legato alla moda e ai social. Per Matteo niente fronzoli, perché la pizza è una cosa seria.
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Chira Mulas: “L’arte ci indica la strada”
di Alessandra Secci.
Se si dovesse ipoteticamente analizzare l’elenco degli interrogativi ai quali è più difficile fornire una risposta, Cos’è l’arte? di sicuro sarebbe in cima a esso. Nel suo significato più ampio, si legge, comprende ogni attività umana (…) che porta a forme di creatività e di espressione estetica. Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi. Eccola, una prima risposta al quesito: l’arte è un linguaggio, un codice. E si precisa poi che (…) tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Quindi, l’arte è un linguaggio, un codice, non sempre decifrabile. Ma può incarnare anche un canale, un veicolo, attraverso il quale la trasmissione del messaggio può divenire più netta, pulita, diretta.
L’arte di Chiara Mulas, classe 1972, da Gavoi, è encomiata appunto per la sua natura veicolatoria, diffusoria: attraverso il suo apporto, il talento performativo si carica di un nuovo significato e rappresenta un trait d’union con la modernità.
«Sono principalmente un’artista visiva – racconta –. Ho conseguito il diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna e nel contempo lavoravo in una fabbrica per mantenermi agli studi. Ricordo ancora la prima lezione in Accademia quando il docente del corso principale, rivolgendosi a noi studenti disse: «Non illudetevi, non sarà certo l’Accademia a fare di voi degli artisti!». Aveva ragione, perché il percorso dell’arte è soprattutto un viaggio interiore, un’esperienza con il sacro, un dialogo con l’invisibile e la realtà del mondo, con tutta la sua complessità. Sono un’artista multi-media: video, fotografia, installazione, disegno e arte-azione sono i mezzi d’espressione che prediligo. Nutro una grande ammirazione per il lavoro di artisti come Ana Mendieta, Chris Burden, Regina José Galindo, Hermann Nitsch, Gina Pane, Joseph Beuys, solo per citarne alcuni. L’arte che pratico non appartiene allo spettacolo, né tanto meno al teatro, non ripeto mai: l’incidente fa parte dell’azione. Di fronte alla violenza del mondo, il mio lavoro occupa uno spazio rituale ed evoca una violenza simbolica come esorcismo, cura, riparazione. Invento un dispositivo nel quale il concetto di sacrificio serve a rivelare il volto nascosto delle cose. Nella mia pratica artistica apro spazi inediti, nei quali un dialogo tra rituali appartenenti a un passato arcaico e modernità è possibile».
Barbagia.
Dalla Barbagia, a Bologna, sino alle rive della Garonna, a Tolosa, dove dal 2007 vive con il compagno, il poeta Serge Pey, che con la sua poesia attraversa le tragedie del nostro tempo. Ma è dalla Sardegna più interna, viscerale, la sua Barbagia, che si dipana il suo messaggio ricco di simbologie, di riti ancestrali, di preghiere, di storie antichissime che riattiva nelle sue performances e che diviene strumento per decifrare il contemporaneo. Il tema del sacrificio, come purificazione, come atto proteso a una nuova vita, e quello dei riti legati alla morte in Sardegna sono ricorrenti anche nei suoi cortometraggi, come Pentuma, S’Accabadora, Barbagia, Ruviu Biancu Nigheddu, Agnus Day: «Il mio punto di partenza è sempre la cultura sarda attraverso la quale parlo al mondo, come nel sacrificio dei vecchi, nelle faide e nell’eutanasia rituale. Questi ultimi due sono strettamente legati alla poesia, con le donne che improvvisano i canti durante le cerimonie funebri. In Sardegna la poesia accompagna ogni momento della vita, la nascita, il lavoro, la festa e la morte. Sono molto legata alla mia terra e alla sua cultura, per me è come una valigia interiore invisibile che porto ovunque nel mondo».
La sottile linea rossa.
Nel 2018 Chiara omaggia l’opera di Maria Lai con Le vene rosse di Ulassai, un viaggio attraverso alcuni elementi chiave dell’artista ulassese, rielaborandoli in chiave plastica e visiva: nelle foto di Enrico Lai, Chiara, col costume tradizionale del suo paese, reinventa questi elementi e riesce nel compito di armonizzarli e metterli in comunicazione attraverso quello più simbolico ed evocativo, il filo di lana rosso, tramite il quale le due artiste dialogano. Una ricerca delle proprie radici, una genesi del mondo che parte dal quotidiano: «Estrarre poesia dalla vita di tutti i giorni per farla esistere come poesia è un atto necessario per porre la realtà del nostro mondo su un altro livello di comprensione. Nel mio percorso di vita e di lavoro, l’incontro con Serge, con cui condivido la mia vita personale e artistica, è fondamentale. Il mio lavoro con lui è una poesia il cui spazio di realizzazione si scrive a due mani. Insieme rivisitiamo rituali, in cui parole, immagini, azioni ci permettono di scrivere un’altra poesia che sfugge alla pagina bianca. È un dialogo permanente con l’invisibile della poesia, che si nutre della realtà che ci circonda, anche se questa non è sempre una poesia. L’arte e la poesia come una bandiera di resistenza o una bussola che anche in un momento di smarrimento, ci indica il cammino».
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Giovanna Mulas. Quando amare l’arte significa preservarla
di Alessandra Secci.
Tra le pagine di Gens Ilienses Pietro Basoccu immortala Giovanna Mulas all’interno del Parco Archeologico di Seleni, a Lanusei. Un ritratto intensissimo, una figura quasi mitologica che dal granito della Tomba dei Giganti irradia tutto il suo vigore comunicativo, tutto il suo vissuto, tutta la sua delicata fierezza attraverso lo sguardo, potentissimo, appassionato e insieme gentile. Vari passati, i suoi, uno, tormentatissimo, con la malattia della madre e il rapporto burrascoso con l’ex marito, e uno di rinascita, dove consolida il suo talento artistico, e che la vede per ben due volte candidata al Premio Nobel per la Letteratura, nel 2003 e nel 2006. E un presente, col marito Gabriel, coi suoi quattro figli (Fabio, Noemi, Roberto ed Emanuele), una vita ritirata, senza social né telefono, e un punto di vista sempre attento, espresso dalle pagine del suo blog giovannamulasufficiale.blogspot.com.
L’età dell’innocenza
«Ho cominciato a scrivere piccoli racconti all’età di nove anni; mia madre, infermiera, affetta da schizofrenia violenta e in preda a frequenti crisi, era costretta ad assentarsi spesso da casa, per i ricoveri di cui avrei saputo solo in età matura. Mio padre, noto poeta dialettale Locerese, è stato l’artefice della mia prima educazione letteraria; avevamo una libreria fornitissima che, ora, è dei miei figli, tutti artisti in nuce. Libri che, bambina, mi hanno aperto un mondo. Rammento che non avevo ancora sei anni e già conoscevo a memoria i passi iniziali della Divina Commedia, mio padre era insegnante severo. Sovente, con lui, leggevo gli interventi del mio prozio, il generale Angelino Usai, primo storiografo di Ogliastra. Nonostante la malattia di mia madre i miei erano molto uniti, soprattutto nel delegare e organizzare gli insegnamenti primari».
Lughe de cielu e jenna de bentu
Il 2003 è l’anno di uscita di Lughe de chelu, per l’editore Bastogi, rieditato nel 2011 per Neuma; nella nota originale, l’autrice afferma che «è nato, questo, in un momento estremamente complesso della mia esistenza, senz’altro il più difficile. È la storia di un viaggio; sgocciolato dalla mente a un foglio, da un corpo di donna ferita nell’intimo e, per questo, autentica. È sin troppo facile precipitare nelle profondità della propria psiche; impresa ardua è risalirne sani, uscirne indenni». Giovanna considera Lughe de cielu lo spartiacque della sua vita, letteraria e non: un romanzo autobiografico che diventa a tutti gli effetti un’icona della lotta contro la violenza sulle donne. Nel 2022 è peraltro prevista l’uscita di Labrys, il labirinto della vita (La rinascita), edito da AGBook Publishing di Roma, che completa il viaggio iniziato con Lughe de cielu e al quale collabora con le illustrazioni interne sua figlia Noemi.
«L’Italia – prosegue – è un paese dove, nel 2022, l’ignoranza strutturale la fa ancora da padrone e soprattutto nel meridione, per i vari motivi che è possibile immaginare. Uno fra i tanti, tragico, è l’abbandono della scuola obbligatoria a favore di una precoce immersione nel mondo lavorativo, causa l’accentuazione della povertà sociale, ergo crisi socio/economica e famigliare. Non è un caso l’aumento preponderante dei suicidi tra i giovani, dell’alcolismo e la depressione fra le donne, dei femminicidi. L’utilizzo aumentato, negli ultimi anni, di psicofarmaci e il bullismo tra ragazzini. La confusione, nelle nuove generazioni, tra realtà e virtuale, dovuta oltre al falsamento dei valori quindi, alla base, l’assenza di una famiglia presente; allo stordimento da social. Ne concludiamo che dove l’ignoranza è strutturale, voluta o subita, risulta impossibile distinguere una montagna dalla collina o una corrente culturale femminile forte, quando non votata a un Bene primario e comune, ovvero di miglioria dell’umanità. Certo è che abitiamo in un momento storico, politico e sociale di profondo oscurantismo, accentuato dalle censure pandemiche e da quella che a tutti gli effetti pare essere la terza guerra mondiale in atto. Qui non voglio distinguere tra maschi e femmine, quanto in individui pensatori in arte e cultura, capaci di unirsi unendo il mondo, favorendo conoscenza quindi consapevolezza. Non basta la bellezza dell’arte, se chi ne gode non è capace di preservarla».
Love on canvas
Suo marito Gabriel su di lei: «Ammiravo la sua fine intelligenza e la grande sensibilità. La sua posizione onesta di fronte al mondo, il suo fervore per la diffusione della cultura. L’amore lavora incessante per tessere il destino.Quando sbarcai a Fiumicino la vidi, luminosa: quell’abbraccio fu un abbraccio col tempo e il destino, comunione con le energie del cosmo e della terra, qualcosa come l’incontro col proprio luogo nel mondo».
I due si sposano nel 2007 e l’anno dopo Giovanna compie il suo primo viaggio in America Latina: «Siamo stati due mari in preda a vento e tempeste, fino al nostro incontro. Gli amici più cari sanno che si sono amate prima le nostre anime, dei corpi. Come del resto e, forse, sempre, dovrebbe essere l’amore. Gabriel è il mio approdo, il mio porto sicuro in questa vita».
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Il nuovo Ostello della Gioventù ha lo stile di Davide e Maria
di Maria Franca Campus.
Davide e Maria erano due bambini di 5 e 7 anni quando è stato costruito l’Ostello della gioventù, nel cuore di Lanusei, in via Indipendenza. Era sindaco Enrico Lai e anche in Ogliastra arrivava l’entusiasmo del Giubileo del 2000 che aveva portato in Italia giovani da tutto il mondo. I finanziamenti stanziati per promuovere il turismo giovanile erano stati investiti anche a Lanusei e l’Ostello aprì i battenti nel 2001 con la cooperativa Nuova Luna. Oggi inizia un’altra storia
Cerco l’estate tutto l’anno ma le stagioni vanno rispettate, anche a tavola. È uno dei principi che ispira il progetto di rilancio dell’Ostello della gioventù di Lanusei pensato da una coppia del posto che si è aggiudicata l’appalto della struttura per 15 anni.
Davide Piras e Maria Loddo sono giovani genitori di due progetti importanti: il primo è Giame, il loro bambino di 4 mesi, e il secondo è la gestione della struttura ricettiva. Anche se i due programmi sono strettamente collegati visto che l’opportunità offerta da quel bando è stata lo stimolo per tornare a casa e dare forma a un sogno che cresceva nella testa e nel cuore dei due ragazzi. Con l’arrivo di Giaime quel desiderio si è fatto scelta.
Davide e Maria, rispettivamente 26 e 28 anni, lavoravano in Francia nel settore della ristorazione fino all’ottobre scorso. Entrambi avevano già fatto esperienze nel ramo, in Sardegna, e poi avevano varcato il mare per ritrovarsi coppia nel lavoro e nella vita nel paese d’Oltralpe. Davide ha mosso i primi passi in questo campo lavorando nel ristorante di suo zio Mario Carruana, poi con la qualifica dell’Istituto alberghiero in tasca, nel 2016, era partito per la Svizzera, a Ginevra, e dopo una stagione in Valle d’Aosta l’approdo in Francia dove Maria lo ha raggiunto per lavorare in un albergo a Embrun, un paesino ai piedi delle Alpi nei pressi del Parco Nazionale degli Écrins. «Un posto bellissimo, immerso nella natura, dominato dalle imponenti montagne alpine ma – rimarca Maria – lontano dal mare».
Davide era lo chef e Maria si occupava della pasticceria, tanto cara ai francesi. Ha avuto modo di sbizzarrirsi tra creme e panna anche riadattando ricette consolidate come il tiramisù «che abbiamo proposto con un cuore di cioccolato liquido al caffè. Così buono da far credere a una cliente che i francesi fossero più bravi degli italiani anche con il tiramisù». Che delusione per madame quando la cameriera l’ha informata che la pasticcera era sarda. Piccole e grandi soddisfazioni per Davide e Maria che si sono fatti spazio nella cuisine française imponendo, spesso, un posto di tutto rispetto per pasta e risotti, quasi sempre relegati a contorno nei menu tipici.
Un’esperienza importante che ha permesso loro di specializzarsi, conoscere meglio quel mondo e sé stessi: capire cosa stavano cercando, cosa vogliono costruire, dove vogliono andare. Hanno deciso che è qui che vogliono far crescere Giame, che è a Lanusei che vogliono investire le loro idee e i loro ideali. Progetti umili e ambiziosi allo stesso tempo, centrati sulla sostenibilità e la valorizzazione dei prodotti locali. L’Ostello diventerà un albergo «speriamo a tre stelle – dicono – anche se non nell’immediato». Vogliono stare con i piedi per terra, saldamente ancorati alla terra, quella dove sono nati, ma anche quella dove vengono seminati, o nascono spontaneamente, i prodotti locali. «Vorremo valorizzare quello che abbiamo», dice Davide con gli occhi scuri che si illuminano pensando alle erbe spontanee che crescono nel nostro territorio e che ben si sposano con i piatti della tradizione ma anche con nuove ricette. «Non ho ancora incontrato un buon compromesso tra cucina tradizionale e contemporanea – dice lui – ci piacerebbe realizzarlo. È facile creare nuove piatti con il prodotto mainstream, ma con i prodotti tipici è diverso: occorre realizzare il giusto connubio tra cucina della tradizione e cucina contemporanea». Sempre attenti alla stagionalità dei prodotti, partendo da quello che abbiamo, dal tanto sponsorizzato chilometro zero. «In Francia eravamo in mezzo alle Alpi eppure la spigola non mancava mai. Ma a che prezzo?», riflette Maria ponendo l’accento non tanto sullo scontrino quanto sui costi per l’ambiente, sulla sostenibilità del prodotto. È l’inversione di rotta rispetto all’imperante globalizzazione, è il grido d’allarme che si leva a gran voce ma ancora, troppo spesso rimane inascoltato. Eppure qualcosa si muove e questi ragazzi sono tra coloro che si muovono e ascoltano. Nella loro tavola non c’è posto per i pomodori e le zucchine d’inverno, ogni cosa a suo tempo. La natura ha le sue leggi e vanno rispettate. «Oggi siamo un po’ disabituati perché al supermercato troviamo tutto per 12 mesi l’anno, ma occorre fare un po’d’ordine e avere pazienza. D’altronde se mangiassimo l’anguria tutto l’anno, l’estate non avrebbe lo stesso sapore», dice Maria tornando col pensiero alla sua infanzia trascorsa nelle campagne del paese, a Su Nuraxi, accompagnata da ciliegie, castagne, olive e agrumi che scandivano stagioni e vissuto.
Nel menu del nuovo ristorante non mancheranno carne di capra e di maialetto, ma spazio anche alle vellutate di zucca e millefoglie con asparagi per venire incontro, anche a Lanusei, ai sempre più numerosi clienti vegani e non solo. Attenti a ciò che offre il territorio, sono convinti che le piante e le erbe spontanee possano diventare salubri compagne di piatti importanti. «Per esempio le ortiche hanno proprietà depurative», spiega Maria che deve le sue conoscenze a sua madre Daniela Loddo, dottoressa in Scienze agrarie.
La struttura di via Indipendenza, nel cuore di Lanusei, diventerà un albergo con bar e ristorante aperti al pubblico, non solo ai clienti dell’Hotel. La sala ristorante ospiterà 25-30 persone. «Vogliamo puntare sulla qualità più che sulla quantità». L’albergo avrà 9 camere che sostituiranno i cameroni del vecchio ostello. La struttura ha anche un giardino che adesso è uno spazio incolto e informe, «ma – dice Maria – ci siamo affidati a mia sorella Cecilia che ha studiato architettura del verde per dargli un nuovo aspetto».
Un progetto che sprigiona entusiasmo e determinazione, voglia di mettersi in gioco, ma anche umiltà e pazienza.
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Dove prima si vendeva la droga, oggi si spacciano libri. A tu per tu con Rosario Esposito La Rossa
di Augusta Cabras.
Rosario, come è nato il vostro progetto culturale?
Il nostro progetto nasce dopo la morte di mio cugino Antonio Landieri, vittima innocente di camorra. Era un ragazzo diversamente abile di 25 anni ucciso per errore a Scampia durante una faida tra clan. Io ho dedicato un libro ad Antonio che si intitola Al di là della neve, pubblicato da una storica casa editrice di Napoli, Marotta&Cafiero Editori, quando avevo 17 anni. Tutto è partito da lì, dal dolore per la perdita di Antonio e dalla lotta per far sì che venisse riconosciuta, alla sua vita ancor prima che alla sua morte, la dignità che meritava.
Da lì è nato il nostro sogno “impossibile” di rendere Scampia luogo di libri e bellezza, di opportunità e cultura, da lì è nata la storia della nostra casa editrice.
Dopo due anni dalla pubblicazione del mio libro, i proprietari della casa editrice Tommaso Marotta e Anna Cafiero hanno deciso di regalare a me e a mia moglie, Maddalena Stornaiuolo il marchio che abbiamo preso da Posillipo, quartiere bene di Napoli, e lo abbiamo portato a Scampia. Da lì, dal 2010 abbiamo iniziato a questa avventura.
Immagino sia stato anche simbolico, portare la casa editrice da Posillipo a Scampia.
Simbolico e reale allo stesso tempo. È stato un segno per la città, ma fisicamente noi abbiamo la sede a Scampia e pubblichiamo a Scampia.
Come è stata accolta dal quartiere, questa nuova realtà?
Inizialmente a questo progetto non ci credevano molte persone. Noi ci abbiamo creduto e con il tempo siamo arrivati a quello che siamo ora. Siamo cresciuti, siamo arrivati a pubblicare autori come Stephen King, Daniel Pennac, Antonio Skármeta e questo ci ha dato credibilità. Inoltre abbiamo aperto la prima libreria dell’area nord di Napoli, La scugnizzeria, che è una libreria per ragazzi.
Ho letto sulle vostre pagine dell’iniziativa “Libro sospeso”. Di che cosa si tratta?
Il libro sospeso, così come il caffè sospeso, ormai entrato nella tradizione napoletana, è il libro che viene acquistato, lasciato in libreria e distribuito ai ragazzi che non possono permettersi l’acquisto. Seminiamo cultura dove per tanti anni le opportunità culturali sono mancate. Dopo anni e anni di narrazione tossica fatta sul nostro territorio, e su Scampia in particolare, è arrivato il momento di raccontare in modo diverso. È il momento di fare cultura e abbiamo bisogno di un ottimo megafono.
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Come casa editrice quest’anno pubblicheremo Herta Müller, Don DeLillo, Ian Russell McEwan che per noi sono nomi importantissimi e siamo felicissimi di tutto quello che sta accadendo. Mentre, come libreria cercheremo di aprire nei prossimi mesi quello che abbiamo chiamato “L’Ospedale dei libri”, che è un laboratorio tipografico per ragazzi, dove con caratteri mobili di legno e di piombo di fine ‘800 si riuscirà a stampare, così come stampava proprio Gutenberg. L’obiettivo è di insegnare ai ragazzi la stampa e di farne assaporare la bellezza.
Che meraviglia! In questo modo il vostro legame con la città e con il quartiere si fa ancora più stretto, nel momento in cui riuscite a coinvolgere attivamente i ragazzi e le ragazze…
Sì, il legame è molto stretto. Qui vengono più di ottanta ragazzi e ragazze a fare attività, laboratori di teatro… Abbiamo realizzato una sala teatrale in uno spazio polivalente, la Palestra degli artisti, e qui i ragazzi vengono a fare corsi di recitazione.
Oltre all’attenzione per la dimensione sociale e culturale, svolgete il vostro lavoro con uno sguardo speciale all’ambiente.
Per noi è importantissimo anche questo aspetto. Tutti i nostri libri sono stampati su carta riciclata al 100%. Per realizzare i volumi non è necessario abbattere nessun albero. Il processo di sbiancamento della carta avviene senza cloro e il colore grigio della pagine dei volumi è una tonalità rilassante che fa bene agli occhi e agevola la lettura. Gli inchiostri utilizzati per la stampa sono senza piombo, a base vegetale e acquosa, così come le colle utilizzate per la rilegatura sono senza plastificanti. I volumi della casa editrice sono biodegradabili e rispettano totalmente il protocollo di Kyoto. Stampiamo a Km 0, perché preferiamo stampare da tipografie situate nel Comune di Napoli, piuttosto che affidarci a stamperie low cost. I testi sono Long Life, resistono nel tempo e non ingialliscono, non sono libri a obsolescenza programmata. Grazie a questo sistema, ogni volta che vengono stampate 1000 copie di un volume vengono salvati 7 alberi alti 20 metri, risparmiati oltre 438.200 litri d’acqua (219.100 bottiglie da due litri) ed evitato il consumo di corrente elettrica pari a 4900 kWh.
Siete innovativi e sostenibili e i risultati confermano che questa sia la strada giusta e vincente.
Lo speriamo! Non è facile, ma ci crediamo fortemente.
Da quante persone è composta la vostra impresa sociale?
Siamo in sette, arriviamo da percorsi di formazione differenti e ci siamo ritrovati intorno all’amore per i libri. Siamo un’impresa pizzo free, volevamo dare un altro messaggio forte al nostro territorio.
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Suor Felicita Mereu: 45 anni di missione in Africa
Quando Padre Vico, fondatore delle Suore Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso di Tempio, annunciò l’apertura di una nuova Missione nella Repubblica Democratica del Congo – Zaire, si risvegliò in me un sogno che conservavo nel cuore fin da bambina.
Per grazia di Dio, ho trascorso la mia infanzia e giovinezza nella semplicità, nella serenità e nella gioia, amavo la vita e tutto ciò che era bello e buono! Stavo bene in compagnia delle mie coetanee; animavo e mettevo allegria nel gruppo delle ragazze. Mi piaceva cantare, danzare, scoprire e vedere luoghi nuovi: la bellezza della natura mi incantava e mi rendeva felice. Anche le giornate missionarie del periodo erano vissute con gioia e impegno per raccogliere fondi per le missioni. Oltre che chiedere un piccolo contributo alle famiglie del paese, si organizzavano le recite e la nostra maestra, Bonaria Pisano, distribuiva le parti: a me dava sempre il ruolo della suora missionaria!
Questa mia allegria caratterizzerà la mia vocazione e tutta l’esperienza missionaria.
Il desiderio di essere utile a chi soffre mi ha spinto a essere libera da legami; questo fervore di essere di aiuto al prossimo era così forte da sentire di poter rinunciare a tutto, per offrirmi al Signore nel servizio ai poveri. Ecco il movente della mia vocazione missionaria.
Risposi, pertanto, all’appello di Padre Vico e venni ammessa a far parte del gruppo delle partenti in Africa, formato da quattro italiane e tre congolesi. Dopo due anni di preparazione a Parigi, nel 1976, con grande contentezza, mista a un velo di tristezza, lasciai i miei cari, il paese natio, per andare a vivere in mezzo all’immensa foresta equatoriale e i numerosi villaggi dei nostri fratelli africani, bisognosi di tutto.
Quarantacinque anni trascorsi nella fatica, nei pericoli di ogni sorta particolarmente nel periodo della guerra, dal 1992 al 2002, sotto il sole cocente dell’equatore, ma sempre felice di poter donare un sorriso e un po’ di sollievo alle sofferenze di questa gente indifesa, votata a subire ogni genere di tortura, di violenza, negoziata e venduta a prezzo di diamante.
All’arrivo nel villaggio di Yakamba, al centro del Congo, a cui eravamo destinati, iniziammo il lavoro: mi fu affidata la responsabilità – insieme a un Padre Belga e una coppia laica – di un centro di formazione per catechisti animatori che accoglieva dodici famiglie con più di cinquanta bambini. I nuovi catechisti, dopo due anni di formazione, venivano inviati nei villaggi dove ponevano le basi per la spiritualità cristiana: preparare adulti e bambini ai sacramenti.
Il mio lavoro non si limitava al solo centro di formazione, occorreva garantire il buon funzionamento di tutte la missione: l’ospedale con i numerosi ambulatori sparsi nei villaggi; il lebbrosario con 40 lebbrosi; i tubercolotici; le donne in attesa; i bambini malati e malnutriti; i poveri, i vecchi abbandonati e messi da parte, in quanto considerati stregoni e portatori di sventura. Ma vi erano anche le scuole elementari e superiori, prive di tutto, mancavano i libri, le carte geografiche, i quaderni, le matite. Per i bambini delle elementari bisognava procurare i fogli dei quaderni e tagliare le matite in quattro pezzi perché bastassero per tutti.
Ripensare al periodo trascorso in Congo mi fa tornare in mente la frase: “Essere messaggeri della speranza”, e la parola speranza mi ricorda i dieci anni della guerra in Congo, quando, nei momenti più duri, ci siamo trovate di fronte all’interrogativo se restare o rientrare in Italia. Restare significava mettere a rischio la vita. Ma significava anche dare un segno di speranza alla gente dell’Africa. Perciò, con le sorelle africane abbiamo condiviso l’angoscia e le fughe nella foresta per nasconderci dai gruppi armati. Con la nostra presenza hanno trovato il coraggio di continuare a vivere. «Voi siete i nostri Messaggeri di Speranza», ci dicevano.
Dopo 28 anni trascorsi in Congo venne aperta un’altra missione in un’altra nazione, dove mi trovo attualmente, il Gabon. La situazione sociale, politica e religiosa del Gabon è completamente diversa: non ci sono guerre, la gente non vive nella povertà e dal punto di vista economico il Paese è ricco, ma povero di valori. Diffondere il Vangelo e la morale cristiana in un ambiente in cui prevale la sete esagerata del denaro non era facile. La prostituzione è molto diffusa, ancora prima dell’adolescenza, considerata una via facile per guadagnare senza fatica.
Sono in crescita diverse religioni, ma le sette hanno il sopravvento nelle città anche per mancanza di sacerdoti. Alcune di queste praticano il sacrificio umano e sono radicate in tutti i ceti sociali, persino nella scuola.
La famiglia con madre, padre e figli non esiste; noi suore, durante le visite familiari, ne abbiamo incontrato poche. La madre pensa a tutto, ma i bambini sono abbandonati a loro stessi senza nessun controllo e guida. Da questa situazione era nato il desiderio – rafforzato dalla richiesta di alcune mamme – di costruire un complesso scolastico con scuola materna ed elementare per arrivare, attraverso i bambini, ad avvicinare le famiglie e renderle consapevoli del dovere di educare i bambini per la società futura.
Con l’aiuto dello Stato e la generosità di tante persone abbiamo costruito una scuola elementare e materna, dedicata a Padre Vico. Avevamo inizialmente 134 alunni, oggi sono più di 800 e frequentano la nostra scuola trovando istruzione e formazione.
Questa è la nostra missione di Religiose, questa è anche la vostra missione, essendo voi stessi missionari ciascuno nel luogo in cui si trova.
Il Signore ricompenserà appieno le vostre rinunce con la benedizione, la grazia, la pace e la gioia nel cuore per voi e i vostri cari.
Dopo questa lettera non mi resta che invitarvi a cantare “Grazia e lode a Dio Padre” per la sua bontà infinita, per i doni innumerevoli e per la protezione, durante i miei 45 anni vissuti nella terra africana.
A voi tutti che leggerete questo mio racconto, un abbraccio e un arrivederci! Con grande affetto e riconoscenza.
Suor Felicita Mereu
Escalaplano