In breve:

Volti e persone

Andrea Arba

Macelleria Gorropu: il racconto buono della genuinità

di Davide Lorrai.

La storia di Andrea Arba, giovane ragazzo di Urzulei, che nel novembre 2014 sceglie di aprire la sua macelleria-gastronomia nel suo paese natale

La giornata è uggiosa, quasi ombrosa, ma la macelleria Gorropu apre le sue porte, illuminando i clienti. L’accoglienza di Andrea è coinvolgente e rassicurante. Una sicurezza premurosa, la stessa con la quale s’impegna a servire il via vai quotidiano dei residenti. La merce è trattata come fosse un tesoro, un dono per le case. Si legge cura, sentimento e veracità. Quella che si ricorda delle attività di un tempo.

La macelleria apre nel 2014, in novembre. Una sfida, un investimento che Andrea Arba di Urzulei, classe 1989, decide di raccogliere carico di entusiasmo e voglia di mettersi in gioco: «Ho deciso di aprire la mia attività a Urzulei – racconta – per mantenere un legame fisico, geograficamente identitario, con il mio paese. Una decisione non ragionata in termini di riscontro economico, ma frutto di un bisogno involontario».

I giovani della sua generazione sono quelli che hanno vissuto il passaggio al secondo millennio, un momento storico in cui la scelta di condividere un sogno ha dovuto coltivarsi e argomentarsi da sola, quasi in sordina. La terra è madre putativa delle speranze e delle aspettative in cui tutto si traduce in una soluzione quasi primordiale. Andrea è un ragazzo timido, gentile nei modi, impegnato nel suo lavoro. Si muove appassionato dietro il bancone apparecchiato di una scelta variegata di prodotti di ottima qualità. Dalle carni semplici all’elaborazione originale di pietanze, dall’aspetto invitante.

Si racconta in pillole, raccolto dentro uno spazio che vive con appartenenza e fierezza. Gli anni di formazione professionale si contano sul campo, in giro per l’Ogliastra, per otto anni, prima a Lotzorai, poi a Tortolì, per planare infine, a piccoli cerchi, nel suo paese, portando con sé tutta l’esperienza acquisita. L’obiettivo è di regalare a Urzulei «un format diverso, più moderno rispetto agli spazi precedenti», spiega. Nel 2017, infatti, la sua attività si arricchisce, e insieme alla macelleria, diventa paninoteca-rosticceria. Un ampliamento desiderato e realizzato con coraggio. Una scelta condivisa con i suoi collaboratori, che sono la sua famiglia. Grazie al lavoro di collaborazione e alla presenza assidua di una clientela piena di partecipazione e soprattutto giovane, la scommessa di Andrea vanta, a oggi, una popolarità meritata: «Questo spazio è diventato un rifugio, un luogo di raduno per i giovani. Un posto dove condividere l’esperienza di un cibo genuino e gestito con cura», prosegue.

La passeggiata diventa incontro in un luogo posizionato nella via principale alta del paese. L’affluenza assidua e di aggregazione è resa possibile dai tavoli che si affacciano sulla strada, circondati da delle panche di legno comode. Andrea ricorda un personaggio romanzesco. La sua prestanza e genuinità tracciano i caratteri di una letteratura che conosciamo bene. Le figure dei commercianti come Andrea sono state spesso protagoniste di storie di vita interessanti, legate ai luoghi. Una Elena Ferrante, cito da Un’amica geniale, racconta dell’apertura di una attività, in una Napoli degli anni ’60: “L’ex falegnameria di Peluso, che una volta nelle mani di don Achille era diventata una salumeria, si riempì di cose buone che occuparono anche un po’ di marciapiede. A passarci davanti si sentiva un odore di spezie, d’olive, di salami, di pane fresco, di cicoli e sugna, che metteva fame”. Ecco, questa è la sensazione che si prova quando ci si avvicina alla macelleria Gorropu. Uno spazio raccontato. Andrea è rassicurante nella sua timidezza e sicuro nel suo mestiere. Le sue risposte sono brevi, ma sincere, accompagnate da un sorriso o una frase quasi sospirata che sembrano essere la vera chiave della sua soddisfazione. La sua attenzione per il cliente colora anche il locale, che nel giro di dieci minuti conta almeno cinque persone in fila. Nell’attesa, che non è noiosa, lo scambio di battute, in dialetto, sono il suo lascia passare, una promessa di fiducia per i clienti, che lasciano la bottega soddisfatti e anche sorridenti. «L’idea di regalare uno spazio di questo tipo a Urzulei nasce dalla mia passione per la natura, quella che ha bisogno di una cura sana ed equilibrata. Ho io stesso l’esigenza di regalare ai miei clienti un’esperienza soddisfacente. Sia in negozio e, arrogantemente, anche a casa. Quindi metto avanti il rispetto e la cordialità, che sono la chiave per mantenere vivo l’interesse commerciale».

Ha le idee chiare Andrea. La sua non è solo un’attività di commercio, ma la visione realizzata di un’esperienza nuova e di scambio. L’habitat naturale dei borghi e questo legame d’origine rendono il suo intento di facile attuazione. La sua idea di commercio e, insieme, di consumo è figlia di un’era che ha tracciato un proposito di investimento con il fine di rendere felice e riconoscenti sé stessi, in primis, e il prossimo. I tempi sono cambiati, ma ci sono persone come Andrea che lo spirito l’hanno mantenuto. Probabilmente, dice, il merito è dei suoi genitori, di una famiglia che gli ha trasmesso valori solidi e circoscritti. La traduzione delle cose l’ha vissuta in maniera prematura, la sua scelta di non studiare, ma di lavorare, non è sofferta, sembra indubbiamente ragionata. Questi anni gli hanno consentito di formarsi e di migliorare la sua visione di impresa per rendere così possibile e materiale la sua presenza nel territorio. Una maniera per restituire vita e colore allo spazio che, amorevolmente, l’ha cresciuto e accudito.

Orizzonte Giovani

Dispensa 125, il segreto della longevità

di Fabiana Carta.

Ricordate i negozietti che tanti anni fa si trovavano lungo le vie del paese? Erano solo delle stanzette, a volte su due piani. C’era l’indispensabile, l’aria familiare ci faceva sentire come a casa. Piano piano hanno cominciato a chiudere, a scomparire: il nuovo sostituisce il vecchio, è così che va.

Eppure, qualcuno è partito dalla nostalgia delle antiche botteghe per creare un piccolo capolavoro lungo l’Orientale sarda, un luogo delle meraviglie per tutti gli amanti del cibo genuino e delle atmosfere di un tempo. Riccardo Patteri è un giovane di 33 anni cresciuto tra Baunei e Santa Maria Navarrese, forse troppo giovane per ricordare il paese costellato di botteghe, ma sensibile abbastanza per capire che oggi abbiamo bisogno di questo ritorno all’essenziale. «All’età di 17 anni ho lasciato la scuola – racconta – e ho iniziato a lavorare in un bar al centro di Baunei. Quello che all’inizio doveva essere un lavoretto stagionale è diventato il mio lavoro per 14 anni. Col passare del tempo il lavoro è cambiato tanto, all’inizio avevo a che fare solo con persone del posto e qualche turista di passaggio durante la stagione estiva, in particolare motociclisti ed escursionisti che si fermavano per un caffè al volo prima di proseguire per Cala Goloritzé».

Non c’è bisogno di andare troppo indietro nei ricordi, Baunei era solo un luogo di passaggio per raggiungere le famose cale, salvo qualche eccezione, pochi si soffermavano sulla bellezza del paese, del centro storico e le sue vie. «Negli ultimi dieci anni è cambiato tanto – continua Riccardo –, è cresciuto dal punto di vista turistico e di conseguenza è cambiato anche il mio lavoro. Quello che prima era solo un paese di passaggio, per una sosta fugace, è diventato un luogo dove trascorrere le vacanze. Per questo è cresciuta sempre di più in me la voglia di creare qualcosa di mio».

Nel frattempo, il bar dove Riccardo lavorava è diventato anche una trattoria. Ed è così che è arrivato il colpo di fulmine, l’illuminazione: «Ho capito quanto siano apprezzati i nostri prodotti e ho iniziato a pensare a un negozietto in cui far trovare al turista tutto ciò che più gli piace quando va al ristorante. A partire dai nostri salumi, i formaggi, ma anche i nostri vini e le birre artigianali», racconta. Una selezione di bontà, prodotti del territorio che raccontano una passione e una storia, in un locale che richiama la semplicità del passato.

Il paese cresce e si evolve, insieme a lui cresce il coraggio dei giovani che scelgono di investire e di restare. L’idea di aprire la bottega nasce nel 2020, un anno che ricorderemo tutti per la terribile pandemia che ci ha costretti all’isolamento, ma che ha spinto tante persone a credere in nuovi progetti e a riprogrammare il futuro positivamente. «Dopo due anni dall’idea, a luglio del 2021 ho aperto le porte di Dispensa 125, “dispensa” per il tipo di prodotti che vendo e 125 perché si trova sulla via Orientale Sarda. Il fatto che si trovi sulla piazza principale mi ha permesso di ampliare l’idea iniziale sistemando dei tavolini in cui degustare i prodotti della dispensa. I turisti apprezzano tantissimo tutto ciò che possono assaggiare durante gli aperitivi e spesso decidono di portare a casa gli stessi prodotti».

I vecchi mobili fanno da cornice all’esposizione dei prodotti enogastronomici e una scala a chiocciola di ferro porta alla cantina, con i prosciutti e i salumi appesi al soffitto. Oltre ad aver aperto la sua bottega con uno sfondo d’eccezione, la finta facciata della Chiesa dedicata a San Nicola, Riccardo ha regalato nuova vita alla Piazza Indipendenza. «Vedere la piazza di nuovo viva è per me motivo di orgoglio, da baunese e da commerciante. Sono convinto che il paese possa ancora crescere e spero che tanti altri giovani baunesi possano credere nel suo futuro quanto me e quanto chi già si è buttato in attività legate al turismo negli ultimi anni».

L’idea di Riccardo è stata vincente, la selezione accurata di salumi, formaggi, marmellate e miele, vini, birre artigianali, dolci e tante altre delizie è quello che i turisti cercano, per entrare in sintonia con il territorio. «Ho scelto di differenziarmi dalle altre attività presenti in paese offrendo solo prodotti di nicchia, cercando piccole aziende alimentari e piccole cantine che difficilmente vendono ai supermercati. Una grande soddisfazione per me è vedere che anche i miei compaesani hanno apprezzato il tipo di locale e capiscono il valore di ciò che vendo», conclude.

Il segreto della longevità è lo slogan che accompagna il nome della bottega. Riccardo, con i prodotti genuini della sua Dispensa 125, preparati secondo la tradizione, lo custodisce con cura.

(Foto di Fabio Moro)

Unicum

L’arte si nasconde nelle sfumature

di Claudia Carta.
A vederle lavorare, Annamaria e Arianna si completano. Due universi che si incrociano, mescolandosi e originando ogni volta gradazioni differenti di empatia e professionalità. Il risultato è luminoso ed esplosivo nella sua originalità. Anzi, è Unicum. Esattamente come il nome del loro salone di acconciature in via Tirso, a Tortolì: «Il latino ci piaceva», commenta Arianna Loi, classe 1989, di Bari Sardo. A renderlo tale, però, è il concetto che hanno di “cura alla persona”: «Tutti coloro che entrano qui – spiega Annamaria Puddu di Lotzorai, 40 anni da compiere il 22 novembre prossimo, madre di Martina e Alessia – che ci conoscano o meno, vanno via rilassate perché respirano un ambiente sereno e leggero. Dalla musica, al sorriso, al tempo, alla puntualità. Tranquillità e relax. Tutto questo per noi concorre a creare qualità. Ogni cliente è unico, va coccolato, ascoltato, e tu sei lì per lui».

La loro avventura professionale in autonomia è iniziata nel luglio del 2021, ma alle spalle vantano un bagaglio notevole di formazione e lavoro sul campo. Annamaria aveva appena 16 anni: «Ricordo che durante una giornata di sciopero a scuola, sono entrata in un salone per chiedere di lavorare. Così ho iniziato». Poi è arrivato il tempo della scuola per parrucchieri, quella vera, a Cagliari. Subito dopo l’Ogliastra di shampoo, pieghe e degradè era lì ad attenderla. Gli esordi a Girasole poi a Cardedu per oltre vent’anni come dipendente.

È proprio qui che arriva Arianna. Diploma di liceo scientifico in tasca e scuola professionale a Cagliari anche per lei che però resta a lungo nel capoluogo sardo, prima di giungere a Cardedu nel 2015. Le due ragazze imparano a conoscersi a fondo, fra pregi e difetti, incontri e scontri, sorrisi e lacrime, ma crescono insieme e con esse cresce la sinergia e la passione per quella che – dicono – è una scelta che rifarebbero mille volte con la stessa convinzione: «Le esperienze pregresse sono fondamentali – fanno notare entrambe –, ci hanno dato l’opportunità di vivere questo mondo, apprezzare il lavoro sul campo e renderti conto di infinite cose che alla scuola non ti insegnano. Studio e interazione con i clienti li apprendi in salone». E Annamaria puntualizza: «Un’esperienza di oltre vent’anni in cui sono cresciuta professionalmente e umanamente, al di là dei problemi e della divergenza di vedute».

Poi il vento del cambiamento arriva e fa capire che il tempo di spiegare le vele per iniziare un nuovo viaggio è arrivato: «Un parrucchiere – racconta la giovane mamma lotzoraese – mi aveva proposto una collaborazione sempre qui a Tortolì. Ho invitato Arianna a far parte del progetto. Arriva il Covid e l’idea non va in porto. Restano però una considerazione e una domanda. La prima: se qualcuno dall’esterno si è accorto che possiamo fare bene da sole, vuol dire che ne siamo all’altezza. La seconda: perché non farlo noi direttamente? Così, abbiamo iniziato a interessarci, a informarci e a costruire il nostro progetto».

Due donne. Biondo cenere, Arianna. Viola, verde, azzurro, Annamaria. Ma qui tutto è un gioco di colori e sfumature. E loro sono abilissime nel giocare. E giocando, creano bellezza: «Abbiamo scelto materiali, colori, idee – sottolinea Arianna –, ma abbiamo fatto anche di più: abbiamo preso misure e montato gli arredi, ci siamo relazionate con tutti gli addetti ai lavori, dall’elettricista all’idraulico, dal muratore al serramentista. Ogni dettaglio doveva essere perfetto come lo avevamo pensato».

Luglio 2021. L’avventura di Unicum Hair Lab inizia. Maschile e femminile. Due tipologie di clientela differente di cui occuparsi. «Lavorare con gli uomini è diverso – spiega Annamaria –: amano la cura, la precisione, il dettaglio. E amano avere uno spazio loro dedicato. L’uomo è molto più metodico, vanitoso, abitudinario. E sa esattamente cosa vuole». Sorride quando ricorda di aver modellato i baffi alla Salvador Dalì a un distinto signore sardo: «Glieli ho pure laccati!».
Stranezze e scelte bizzarre. «Ogni giorno è una sfida – continua – tutto si miscela, dare e ricevere, chiedere e proporre».

Un mondo in continua evoluzione, dove la parola chiave resta sempre una: formazione. «Nel tempo la professione è cambiata radicalmente – fa notare Arianna –: cambia la moda, cambiano le richieste e cambia il modo stesso in cui ti approcci al lavoro. Gestendo in prima persona te ne rendi conto ancora di più. Gli stessi prodotti sono completamente diversi in un mercato infinitamente più variegato. Ne deriva che oggi i clienti sono più esigenti e molto più informati. Ecco perché la formazione è strumento fondamentale per la crescita professionale, per stare sempre al passo con i tempi, con i nuovi trend e, dunque, per soddisfare al meglio le esigenze della clientela».

Intercettare desideri, bisogni e necessità dei loro tanti clienti, offrendo un’ampia gamma di servizi professionali. Ecco l’obiettivo costante delle due giovani professioniste. In base a questo costruiscono orari, iniziative e proposte. Secondo il loro stile e il loro tocco personalissimo che, neanche a dirlo, colora di essenzialità ogni decisione.

Un anno di prime volte: le divise da scegliere; la prima sposa preparata da Arianna, una ragazza tedesca che si è sposata in spiaggia a Tortolì; il primo Natale con il salone da addobbare; le responsabilità amministrative e burocratiche, ma anche quelle dirette con i clienti. Tutto ha il sapore buono del nuovo. Creatività nella creatività. Concorrenza forte, ma Annamaria e Arianna sanno qual è la loro strada: «Senza avere un pacchetto clienti – commentano – con altri undici professionisti che lavorano in città, davvero abbiamo iniziato a 360° la nostra esperienza lavorativa. Non era affatto facile, ma guardando ciascuno, sai anche come e dove diversificare la tecnica professionale, a partire dai lavori a mano libera per le sfumature di colore».

Si definiscono a vicenda: «Di Arianna apprezzo la calma nel progettare, nel valutare e prendere decisioni, ne ho un gran bisogno», ammette Annamaria e aggiunge: «Anche se ogni tanto brontola ed è puntigliosa!». La collega risponde senza indugi: «Di lei ammiro il suo essere così aperta ed espansiva. Ma non sopporto quando mi scombussola l’agenda!». Sognatrici e concrete.
Il loro sorriso è il biglietto da visita migliore. Dentro mettono tanti sacrifici e sofferenze, tenacia e testardaggine, umiltà e voglia di crescere. In Unicum Hair Lab c’è un pezzetto di tutti coloro che hanno sostenuto la loro scelta audace. Sentono la forza di questo amore e non hanno paura.

Una parola per definire questo anno? Annamaria: «Finalmente!». Arianna: «Libertà».
Finalmente la libertà.

Nicola Pisu

“Chiamatemi artigiano d’interni”

di Fabiana Carta.

Alla ricerca del tempo perduto, per dirla come Marcel Proust. Un oggetto, un colore, un pezzo d’antiquariato, una vecchia finestra o un vecchio portone abbandonato per anni, tutto può scatenare in noi un ricordo del passato, far riaffiorare storie e scene familiari di una volta. Come la petite madeleine proustiana. Il ricordo arriva inaspettato e si porta dietro tutta la nostalgia di un mondo che non c’è più. In ogni suo progetto si ritrova lo stesso processo magico: Nicola Pisu, interior designer che ama definirsi artigiano d’interni, non rientra nell’immaginario comune del professionista distaccato da ufficio, è piuttosto un esploratore che vive tra i cantieri impolverati. Quei cantieri che ama come figli. «Non ricordo come sia nata la passione per questo settore – racconta –, credo sia arrivata molto lentamente, senza uno schiocco improvviso. Passavo la mia infanzia alla cassa del negozio dei miei, mentre aspettavo i clienti, a disegnare fattorie, casette, facciate in pietra e milioni di tegole, su sacchetti di carta che poi consegnavo insieme alla frutta». Scarabocchia e immagina, fino all’iscrizione all’Istituto Geometri di Lanusei, percorso interrotto varie volte per prolungare le stagioni lavorative come piastrellista. «Proprio durante questo lavoro, per la prima volta, mi resi conto di quanto avrei voluto intervenire sul progetto e sui tramezzi – confessa Nicola –. Continuai con il praticantato per l’abilitazione tecnica, in diversi studi mi capitarono tra le mani progetti senz’anima, planimetrie e piante non arredate; leggevo solo numeri, superfici dei metri quadri e due simboli per i sanitari. Tutto questo lo odiavo, perché quegli interni per me non potevano funzionare, solo che non avevo le basi per poter intervenire e sfogarmi».

A quel punto la strada da intraprendere è chiara. Il percorso di specializzazione comincia con la scuola di Design all’Istituto IED di Cagliari, dove ha imparato a dare molta importanza al luogo in cui siamo nati e al nostro artigianato, studiando materie come disegno, design di interni, cromatologia, materiali, stile e storia del design. Lo studio prosegue allo storico Istituto Marangoni di Milano, per un approccio più internazionale.

Un bel bagaglio culturale e di esperienze sulle spalle, qualche esperienza all’estero, ma intanto l’Ogliastra chiama. È un richiamo che non si può lasciare lì, inascoltato. «Sulle mie esperienze e conoscenze lavorative credo che influisca tantissimo il mio territorio, mi aiuta e mi coinvolge, traggo ispirazione dalla storia e dalle tradizioni. Mi sono accorto dell’importanza di questo aspetto durante una piccola esperienza all’estero: luoghi molto giovani e piatti non riuscivano a ispirare il mio lavoro. L’Ogliastra è una terra unica, ricchissima, ancora un po’ selvaggia e lenta. Per certi versi a me va bene così».

In ogni suo progetto d’interni c’è un filo che lega la casa e i suoi proprietari alle origini e alla storia personale, e quella casa racconta sempre qualcosa di sé. Nicola non solo progetta e traccia le linee di un disegno, ascolta e si connette con ricordi familiari che scorrono come cortometraggi, «storie – e ne ho sentito di bellissime – per le quali ho una sensibilità estrema e possessiva». Da sempre lo affascinano le esplorazioni di vecchie case, ruderi fatiscenti, alcuni ancora arredati e abbandonati tanto tempo fa, spazi che lo portano a immaginare la vita quotidiana che lì scorreva lenta. E intanto osserva, studia e ne trae ispirazione. Oggi è un interior designer, «ma il suo significato a momenti non lo so spiegare, tanto meno in un momento in cui fa tendenza e tutti sono diventati designers», per questo preferisce presentarsi come artigiano, come colui che propone un progetto e si occupa della sua realizzazione. Non solo, fa da tramite tra il cliente e l’artigiano che dovrà realizzare nel concreto il lavoro, supervisiona il cantiere, segue la direzione artistica e creativa, dall’inizio alla fine, e pratica anche decorazione murale. Ama perdersi nei laboratori degli artigiani che traducono le sue idee: «Un falegname che mi costruisce il modellino di un bancone bar in scala 1/6 con lo stesso materiale, colore e funzionalità richiesta, e lo realizza identico, o una tappezzeria che decide per me come assemblare una testiera letto, quale poliestere usare e su quale spessore di resinato, e mi fa pure lo scarabocchio su carta, per me sono designer allo stesso modo, ma non sanno di esserlo!», spiega.

Dopo la dichiarazione d’amore verso tutto ciò che racconta una storia, è facile capire quale possa essere il concetto di bello per Nicola Pisu: «Questo è un concetto molto articolato. Esiste la bellezza di tendenza, che è – appunto – bellissima, ma dura poco, poi c’è la bellezza semplice, la bellezza del passato. Quella che io adoro. In questo caso sto trasmettendo e tramandando una cosa che non è completamente mia, è di tutti, ed è per sempre». È da questa filosofia che si scatena il processo magico che dicevamo. Un percorso di progettazione personalizzato, dedicato, che parte quasi sempre dall’inserimento di qualcosa di storico, d’antiquariato, d’artigianato artistico, pezzi che proiettano indietro nel tempo. «La mia passione per il recupero, inoltre, mi permette di lavorare senza sprechi, nel rispetto dell’ambiente. In questi anni ho anche imparato che rivedere un prodotto di recupero in un contesto nuovo e fresco, circondato e rispettato dalla domotica, non può essere brutto, perché non solo rompe la monotonia piatta di un’operazione immobiliare, ma ci racconta tanto; anche i suoi graffi e la sua patina sbiadita lo completano e lo caratterizzano. Un nuovo mobile minimal in truciolare, acquistato da un colosso di shopping online, se si graffia lo buttiamo via…». Al centro la persona, la sua vita, i suoi ricordi. Ecco il segreto.

Manuela Borraccino

Raccontare il Medio Oriente: studio, ricerca e verità dei fatti

di Augusta Cabras.

Si è occupata per anni di Medio Oriente, una delle regioni più interessanti del pianeta oggi in secondo piano dal punto di vista mediatico. Qual è oggi, secondo lei, la questione più importante in quest’area?

“Tutto è connesso” rimarca papa Francesco nell’enciclica del 2015 Laudato sì, e in poche aree del mondo come il Medio Oriente è evidente la complessità degli intrecci fra i conflitti che da oltre settant’anni dilaniano la regione e che, ancora prima, affondano le radici nella spartizione dell’Impero ottomano e nella corsa alle risorse energetiche dell’area. Non a caso il Vaticano ha cercato per molti anni una soluzione regionale multilaterale al conflitto israelo-palestinese, considerato almeno fino all’inizio degli anni Duemila la madre di tutte le guerre, risolto il quale si sarebbe potuta aprire una stagione di stabilità e progresso per tutti i popoli dell’area.

Oggi la situazione è molto più cupa: l’attacco degli Stati Uniti all’Iraq nel 2003 ha scoperchiato il vaso di Pandora della rivalità secolare tra sunniti e sciiti nel mondo islamico. In questi vent’anni la progressiva militarizzazione delle identità religiose musulmane ha portato al tutti contro tutti di oggi: la lotta per la supremazia fra la teocrazia sciita dell’Iran e i paesi guidati dalle potenze arabe sunnite e dalla Turchia alimenta i conflitti regionali, erode la coesione sociale, peggiora il collasso degli Stati in Yemen, Afghanistan, Libia, Siria, Iraq e Libano e fornisce il brodo di coltura che attira gli estremisti. Il conflitto in Ucraina ha esacerbato il disordine globale, mentre il Medio Oriente è una polveriera pronta a esplodere.

Che cosa ricorda maggiormente della sua esperienza di vaticanista?

Ho avuto il privilegio di iniziare a lavorare nel 1997 nella redazione del Vaticano dell’agenzia Ansa, negli ultimi otto anni di pontificato di Giovanni Paolo II. Devo gran parte di quel che so e di quello che ho potuto realizzare al caposervizio Franco Pisano, umile e forte maestro di vita e di giornalismo, che in quegli anni mi ha insegnato ad accostarmi al mondo della Santa Sede e dell’informazione religiosa attraverso lo studio, la verifica delle notizie e il lavoro di scavo sotto la superficie, lo sguardo alla storia e il discernimento fra verità fattuale e interpretazione. Non posso dimenticare né il viaggio di Wojtyla in Terra Santa, nel 2000, al quale partecipai da cronista freelance, né l’emozionante viaggio in Polonia nel 2002 come inviata dell’agenzia Adnkronos. Toccai con mano in quel suo ultimo viaggio in patria, nella commozione dei polacchi, che cosa avesse rappresentato Giovanni Paolo II per i popoli vittime della cortina di ferro e dei regimi comunisti nell’area sovietica.

Lei è una freelance. Quali sono le luci e le ombre di questa professione?

La grave crisi professionale e industriale che attraversa l’informazione da più di vent’anni si è tradotta in una precarizzazione crescente del lavoro giornalistico e nell’aumento dell’età media dei cronisti, la maggior parte dei quali oggi hanno tra i 40 e i 50 anni con scarsissimo ricambio generazionale, soprattutto per via dei compensi bassi e delle ridotte prospettive di stabilità lavorativa. Certamente la sfida esiziale è quella della digitalizzazione: oggi per fare il giornalista è indispensabile conoscere la SEO (acronimo di Search Engine Optimization, l’ottimizzazione del posizionamento sui motori di ricerca) e l’uso professionale dei social media. Cambiano le modalità di produzione e fruizione delle notizie, quel che non cambia è il bisogno di essere informati per far funzionare meglio le nostre democrazie. Perciò resta la sfida di stimolare la domanda per un’informazione di qualità che non può essere gratuita, se vogliamo restare cittadini liberi, partecipi e vigili sul mondo che ci circonda.

Nel suo lavoro racconta storie di rinascita e di riscatto rese possibili anche grazie ai fondi 8xmille della CEI. Quanto è importante descrivere queste storie di speranza in un momento in cui si tende a mettere in luce soprattutto il dolore?

Proprio perché la Chiesa è scossa in tutto il mondo da scandali senza precedenti e da una grave crisi di credibilità nelle nostre società opulente e secolarizzate, informare su come vengono impiegate le donazioni per i sacerdoti e i fondi dell’8×1000 offre un’opportunità formidabile di restituire quanto viene donato, far conoscere il lavoro silenzioso che tantissimi sacerdoti e laici svolgono spesso nel nascondimento. Sono storie di solidarietà e di ripartenza dopo gravi rovesci della vita delle quali tutti abbiamo bisogno, credenti e non credenti.

H avuto modo di raccontare anche il progetto della nostra Caritas diocesana sul contrasto alla povertà educativa. Che cosa la colpisce maggiormente?

Amo smodatamente la Sardegna, i suoi scrittori, la bellezza mozzafiato dei suoi paesaggi, i suoi silenzi e la sua gente testarda e fiera. Resto sempre colpita dalla creatività e dall’ingegno dei sardi nel superare la frammentazione territoriale e sociale dell’isola, fare rete per cercare di offrire delle opportunità ai più giovani ed evitare che con l’emigrazione si disperdano i talenti dell’isola.

Manuela Borraccino – Laureata in Lettere moderne e giornalista professionista dal 1999, Manuela Borraccino ha seguito dal 1998 il Vaticano e il Medio Oriente per le agenzie Ansa (1997-2001), per l’Adnkronos (2001-2004) e per il service televisivo internazionale ROMEreports (2004-2009), per il quale ha girato e prodotto alcuni documentari sull’impegno della Chiesa cattolica nei Paesi in via di sviluppo. Ha scritto reportage da Israele e dai Territori palestinesi per testate italiane e straniere e ha lavorato come field producer per emittenti latino-americane nei due Conclavi del 2005 e del 2013. Ha pubblicato per le Edizioni Terra Santa e per l’Editrice La Scuola. Ha diretto per tre anni (2017-2019) il settimanale diocesano di Novara ed è cultrice della materia in Storia contemporanea presso la Libera Università di Lingue e comunicazione (Iulm) di Milano. Sul sito Terrasanta.net cura il blog Il giardino di limoni sulla condizione delle donne nel mondo arabo.

Giacomo Mameli

Dentro la notizia. Giacomo Mameli

di Alessandra Secci.

Carlo Bo, indimenticato critico letterario tra i più grandi del Novecento, accademico, politico, senatore a vita nominato da Pertini negli Anni Ottanta, a cui è intitolata l’Università degli studi di Urbino, sosteneva che dove c’è gente, c’è notizia. Quasi un mantra per Giacomo Mameli, che proprio in quello stesso Ateneo e proprio avendo come controrelatore il professor Bo (e relatore Paolo Fabbri) ha discusso la sua tesi di laurea in Giornalismo (dal titolo Quattro paesi, un’isola). Ottantuno anni che paiono almeno venti in meno, cronista di lunga data, apprezzato saggista, foghesino doc e direttore del festival Settesere, Settepiazze, Settelibri, lo intercetto prima che raggiunga il gate per Fiumicino, smaniosa di aprire quella cassetta degli attrezzi del suo mestiere e di conoscerne i segreti.

Broadcast News

La professione, ieri e oggi. «Considerando l’accesso alle informazioni – spiega – oggi la ricerca è facilitata, sulla rete si trova di tutto su tutti; in precedenza il cronista svolgeva una ricerca di tipo quasi speleologico, poiché gli elementi informativi dovevano essere setacciati di persona. Per questo ritengo che in passato vi fosse più mestiere e forse meno professionalità, anche se quest’ultima c’è sempre stata. Il giornalismo ha delle regole fondamentali, che da Giulio Cesare, da Erodoto, sino ai giorni nostri non sono cambiate, le classiche Cinque W: chi (who), cosa (what), dove (where), quando (when) e perché (why), ovviamente tutte coordinate da una professionalità che oggi risiede nella qualità della scrittura e dell’indagine. Un buon giornalista non è un reggi moccolo, uno che ossequia il suo interlocutore, deve sapergli controbattere, deve essere informato quanto lui. In Italia, pur essendoci delle autentiche eccellenze, c’è molta modestia, e quello italiano attuale è un giornalismo da incenso più che da inchiesta; io la penso in modo differente: proprio come succede per la terra, le notizie vanno zappate».

Inviati molto speciali

Reporter in casa e in trasferta. «Tra raccontare il mondo e raccontare del proprio mondo, del territorio di appartenenza, non vi è nessuna differenza: così, tra intervistare Gorbaciov ai funerali di Berlinguer, Arafat sulla crisi palestinese o i Khmer Rossi nella foresta cambogiana, e sapere tutto sul mio paese, sul contesto in cui vivo, ciò che interviene, è uno degli altri caratteri fondanti del giornalismo, la completezza dell’informazione, la sua base. Lo scrupolo col quale gli inviati del Guardian di Londra e del New York Times hanno, ad esempio, voluto incontrare di persona i centenari foghesini, a volte percorrendo lunghe distanze, è stato rimarchevole, e spesso questa nel nostro Paese (anche qua con le dovute eccezioni) è un’accuratezza che manca. Quello che occorre evitare è di farsi trascinare dall’attaccamento alle nostre radici, dal tranello della retorica, del favolismo, della facile mitizzazione: quando scrissi La ghianda è una ciliegia, ho raccontato le storie dei soldati foghesini durante la Seconda Guerra Mondiale, sentendo non una ma almeno venti volte gli intervistati, che conoscevo personalmente. Allo stesso modo ho narrato le vicende del partigiano di Jerzu massacrato sulle colline piemontesi dai fascisti, o di quello ulassese trucidato nell’entroterra metallifero di Volterra. Ancora, raccontare gli emigrati sardi in America o descrivere le gesta di quelli foghesini a Parigi, Milano o Torino, non cambia molto, il tecnicismo è lo stesso. Ciò che cambia, tra la narrazione del mondo e di quella sua piccola parte più prossima a noi è semplicemente il privilegio di avere le notizie di prima mano e di poter quindi verificarle personalmente».

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Aspiranti reporter, prendete nota: «Per fare questo mestiere ci vuole un incrocio tra caratteristiche tecniche, competenze, e attitudini alla professione. Molta modestia, intanto, la conoscenza delle lingue, studi di sociologia, di pedagogia e di storia soprattutto. Se un giornalista racconta di cronaca giudiziaria ed è laureato in Giurisprudenza, è chiaro che avrà anche quelle conoscenze tecniche che gli consentiranno non di scrivere un articolo tecnico, ma di elaborare un pezzo giornalisticamente corretto rispettando la tecnica. Come detto, ci vuole la consapevolezza che il giornalista non deve essere un reggi microfono, deve informare, e per informare ci vuole sapienza nell’utilizzare quella cassetta degli attrezzi. E sempre per ritornare al discorso iniziale, in riferimento alle parole del professor Bo e dunque alla completezza dell’informazione, occorre avere un quadro esaustivo, per delineare il quale si deve avere coscienza del fatto che il giornalista ha una grande responsabilità, che deriva anche dalla preparazione: le scuole di giornalismo sono importanti e consigliate. Ma non è vero che si impara l’arte solamente nelle redazioni, dove si apprende certamente la tecnica, il modo col quale si impagina, si imposta un giornale: la conoscenza della società si impara tra la gente, mettendo in atto quell’operazione di sciorinamento del terreno, di zappatura della superficie, di dissodamento della materia».