In breve:

Volti e persone

Caledonia

Un sogno chiamato Caledonia

di Fabiana Carta.

Quella di Marco e Chiara, due giovani di Ardali e Triei, è la storia di una partenza e di un ritorno. A novembre 2022 hanno aperto al centro del paese un tipico pub scozzese, una dichiarazione d’amore verso le terra che li ha accolti per cinque anni, ma è anche un regalo per tutta l’Ogliastra

L’altro giorno diluviava, i vetri delle finestre all’inglese erano tutti appannati. Dentro faceva molto caldo e il pub era pieno; i boccali di birra allineati sul bancone, la musica scozzese in sottofondo: tutto era perfetto, ogni cosa era come doveva essere. Ma non siamo a Edimburgo e questo non è un sogno da cui bisogna svegliarsi.

Marco Monni e Chiara Chironi, rispettivamente di 33 e 35 anni, hanno fatto una scelta inusuale: dopo cinque anni trascorsi in Scozia, per una combinazione di circostanze – o semplicemente perché era scritto nel loro destino, di questo ne sono convinti – scelgono di trasferirsi di nuovo nel paese d’origine. Di solito accade il contrario, partono per non tornare. Loro fanno di più, non solo scelgono di proseguire la loro vita nel paese delle ginestre, con un pizzico di follia aprono un pub scozzese lungo la via Carlo Alberto a Triei.

Marco e Chiara si conoscono dai tempi dell’asilo, frequentano le stesse scuole ed entrambi portano a casa un diploma Tecnico Commerciale. «Durante l’estate ho sempre lavorato nel campo della ristorazione, con grande passione. Per un periodo mi sono occupato di consegnare i prodotti ai ristoranti, in questo modo ho potuto conoscere anche quello che c’è dietro, ad esempio come si conservano, come sono classificati, ecc. Per tre anni ho preso il posto di mio fratello in un bar ad Ardali, durante l’anno del diploma», racconta Marco.

Chiara invece lavora in una pizzeria, poi come commessa, e infine decide di seguire una signora anziana del suo paese. Intanto tra lei e Marco scoppia l’amore. «Qui la situazione era morta, non avrei voluto fare quel lavoro tutta la vita. Così abbiamo iniziato a pensare al nostro futuro», spiega. Tutti siamo attratti da qualche posto nel mondo, senza un reale motivo, per un incanto irrazionale. Marco ha sempre avuto una passione smodata per l’Irlanda e ha sempre subito il fascino dei tipici pub, eppure il destino l’ha portato poco più a nord. «Mio fratello aveva deciso di partire un periodo per la capitale scozzese – ricorda Chiara – e dopo averci raccontato questa città, nel 2015 abbiamo deciso di partire. Lui intanto era già andato via. Non sarei mai voluta partire in una città enorme, venendo da Triei, un piccolo paese, temevo di non sentirmi a mio agio. Edimburgo è la capitale, ma sembra una cittadina».

Preparano i biglietti di sola andata e due valigie, alle famiglie dicono: «Partiamo all’avventura, non sappiamo cosa succederà, può essere che tra due settimane saremo di nuovo qui». Ma due settimane diventano cinque anni. Prima tappa Dublino, per una vacanza di cinque giorni, poi proseguono per la Scozia. Per loro è amore a prima vista. «Edimburgo è splendida, medievale, sembra di vivere in mezzo a vecchi castelli, ci sono tanti spazi verdi dentro la città, ti guardi intorno e vedi le montagne. Per Chiara l’unico problema è stato abituarsi al clima tipico, ci ha impiegato circa un anno!».

Dopo un periodo di assestamento trovano lavoro entrambi, lei in un hotel al centro della via più bella e suggestiva della Old Town, lui nel campo della ristorazione. La loro idea era restare a Edimburgo per almeno dieci o quindici anni, tanto che comprano casa. «Ma è arrivata la pandemia mondiale a modificare tutti i piani. Il posto in cui lavoravo ha chiuso – ricorda Marco –. Durante l’estate siamo rientrati in Ogliastra per staccare un po’, volevamo aspettare che il brutto periodo passasse, per poi ripartire. Una serie di eventi ci ha fatto cambiare direzione: la prima settimana di settembre abbiamo scoperto di aspettare un bambino e, sempre in quei giorni, ci hanno proposto di investire in un locale a Triei, che prima era una pizzeria d’asporto».

A Ottobre tornano a Edimburgo, ma scoprono che la situazione è peggiorata, la scelta di tornare a casa diventa definitiva. Il piccolo locale è poco più che un garage, ha bisogno di lavori di ristrutturazione, la missione dei ragazzi è trasformarlo in un tipico pub scozzese. Marco si fa aiutare dai suoi fratelli, Simone lo aiuta con le preparazioni in cucina e Marcello con i lavori manuali, il resto è frutto della sua buona volontà: «Ho costruito il bancone, le mensole, le panche, le cornici dei quadretti, poi ho voluto aggiungere le travi di ginepro per richiamare lo stile sardo in mezzo a tutta questa Scozia!».

Ne viene fuori un gioiellino, curato nei minimi dettagli, che prende il nome di Caledonia Pub, il nome che gli antichi romani avevano attribuito alla Scozia. L’atmosfera che si respira all’interno è magica, un luogo fuori dal tempo. Marco e Chiara hanno deciso di non rompere del tutto con la tradizione sarda, nel menu si possono trovare alcuni piatti tipici, come le tzipulas di Triei e una selezione di vini dell’isola. Ogni venerdì, per gli amanti del cibo anglosassone, propongono il fish and cips, con il pesce impanato nella tipica pastella alla birra, e in futuro potrebbe arrivare anche un piatto tipico scozzese, l’Haggis, un insaccato a base di interiora di pecora. «Vorrei portare anche la loro birra artigianale, ma è molto complicato. Ricordo che nelle passeggiate notturne a Edimburgo sentivo nell’aria un profumo che sembrava pop corn misto a malto, era l’odore che proveniva dai numerosi birrifici. Mentre pioviggina sei accompagnato da questi profumi, fa tutto parte del fascino della città», afferma Marco.

Gli abitanti del paese sembravano un po’ scettici all’idea della nuova apertura e le persone anziane non avevano ben chiaro cosa fosse un pub, ma Caledonia è un locale soprattutto per una clientela giovane, e sembra stia avendo grande successo. «Siamo felici di aver investito nella nostra terra, resta solo una leggera nostalgia della Scozia. Ci manca l’ambiente, potevi vivere tutte le stagioni: d’estate era un tripudio di verde, l’autunno un tappeto di foglie arancioni, in inverno c’era la neve. Qui a Triei è un’altra vita, è una piccola oasi di pace, un angolo di paradiso tranquillo. Non succede niente, ma forse dopo i trent’anni va bene così!», concludono.

Le Scimmiette

Orizzonte Giovani. Le Scimmiette.

di Federica Cabras.

Restare nei propri paesi d’origine, questi bellissimi borghi ogliastrini ancora non abbastanza valorizzati, è una sfida a cui tanti ragazzi e ragazze non si prestano. Sarà che quando si è giovani si vede solo la bellezza delle metropoli che non dormono mai – quelle dove qualche luce è sempre accesa a ricordare la vita che scorre, frenetica e vivace –, mentre nei nostri paesini arroccati sulle montagne o affacciati sul mare si respira un po’, mi si conceda il termine, di quiete e serenità. Sarà che il giardino del vicino è sempre più verde e la voglia di scappare dai territori d’origine, di solito, è inversamente proporzionale all’età che si ha.

E sarà anche, diciamoci la schietta verità, un po’ la pressione della società, che ti vuole fuori a fare grandi cose – Sì, ma fuori dove? Fuori come? A fare quali grandi cose? –, come se chi resta qui non potesse realizzarsi, diventare ciò che vuole, trovare la felicità. Essere quel che vuole, nel senso più completo che esiste.

C’è però qualcuno che ancora – e sia ringraziato il cielo – crede nella potenzialità di quest’isola felice chiamata Ogliastra, dove sì, non ci sono i grattacieli, le metropolitane e dove a un certo punto tutto si spegne, come imbrigliato dalla notte che vuole tutti a riposo, ma dove le albe e i tramonti hanno un nonsoché di magico. E dove guardare il cielo – pulito, azzurro – dà una sensazione di pace.

Sono giovani, caparbie e hanno creato da zero un’attività che profuma di voglia di fare del proprio meglio con impegno: Le Scimmiette street food, nata dal coraggio e dalla tenacia della 25enne Silvia Virde e della 23enne Deborah Manca – l’una ogliastrina doc e l’altra nata sulcitana ma adottata dalla terra della longevità –, è una paninoteca ambulante che tratta prodotti locali. Le due si spostano, a seconda delle esigenze e dal mercato, rimanendo perlopiù nel territorio villagrandese-villanovese a bordo della loro paninoteca ambulante.

«Si può dire che è il nostro mondo. Entrambe – raccontano – abbiamo sempre lavorato nel campo della ristorazione». Insomma, non un universo del tutto nuovo per le socie che, ambedue senza finire gli studi, hanno frequentato per alcuni anni l’Alberghiero: «Ci siamo rimboccate presto le maniche e abbiamo iniziato a lavorare».

In un mondo, quello della ristorazione, dove non ci sono orari, né feste, dove si lavora sodo sempre e si corrono le maratone, le due si sono fatte le ossa per anni prima di decidersi di buttarsi in qualcosa di proprio. In un sogno, appunto, diventato realtà soltanto recentemente.

«Era il 2019 quando l’idea di aprire quest’attività ha fatto capolino nelle nostre teste – spiegano – ma poi una nuova proposta di lavoro ha messo tutto in stand-by per un po’».

Ma non ci mette molto, questa scintilla, a tornare, più forte e prorompente di prima. «Abbiamo riaperto quel famoso cassetto dove era chiuso il nostro sogno dopo tre anni. Eravamo stanche della routine, di non fare quel passo in avanti a cui tanto avevamo pensato».

Ed ecco arrivare il giorno che dà inizio a tutto. «Nonostante sapessimo della difficoltà di aprire un’attività in questi tempi così difficoltosi sotto ogni punto di vista, il primo maggio del 2022 abbiamo organizzato l’inaugurazione della nostra attività». Obiettivo? Farsi conoscere dalle persone dei dintorni, dalla popolazione dei paesi limitrofi e non solo. «Il primo giorno è andato a gonfie vele, oltre ogni aspettativa» sono le loro parole. «Abbiamo lavorato più di quanto ci aspettassimo. Ma, a dirla tutta, non possiamo lamentarci nemmeno di come sia andata in seguito.

Sì, chiariscono le due, non tutto è rose e fiori: esistono alti e bassi, ovviamente, ma bisogna affrontare ogni nuova giornata di lavoro come una sfida, come un modo per migliorarsi sempre, per avere ogni nuovo dì una marcia in più.

L’importante? Be’, avere sempre il sorriso – chiariscono.

Un menu bello pieno, interessante anche per la presenza di prodotti locali, la voglia di mettersi sempre in gioco e una grande versatilità: ecco gli ingredienti del successo.

«Per poter lavorare bene in questo campo crediamo sia importante saper stare a contatto con il pubblico e cercare di soddisfare ogni bisogno dei clienti, accettando qualsiasi giudizio possa arrivare». E, quando si parla di consigli da dare ai coetanei, sono perentorie: «La nostra volontà è cercare di portare nei giovani una consapevolezza importante: si può nascere e crescere dal niente, solo animati dalla propria forza. Abbiamo un vasto territorio da sfruttare, da cercare di far brillare. Ragazzi – continuano – se avete nuove idee, coltivatele! Serve coraggio, ma le cose, seppur non semplici, non sono mai impossibili. Si deve partire, avere la caparbietà di rincorrere ciò che si desidera».

Ed è proprio questo il concetto che, più di tutti, riesce a commuovere e a muovere le masse: buttarsi non vuol dire non rischiare, e ci mancherebbe che si dica il contrario, ma vuol dire cercare di raggiungere vette inesplorate, altezze vertiginose dalle quali il mondo di giù si vede con più chiarezza, con colori più accesi, con soddisfazione. Vuol dire raggiungere una consapevolezza importante: quella sul proprio valore, sull’importanza del superamento dei limiti e sull’importanza di rincorrere sempre quel che si desidera.

E che importa se ci si sbucciano le ginocchia? Basta ripartire. Con coraggio. Come affermano le ragazze de Le Scimmiette.

Suor Vittoriana

Suor Vittoriana, missionaria in America Latina

di Marcella Nieddu.

Riconoscere la volontà di Dio è il fondamento del credente. Attraverso il discernimento e la meditazione, il cristiano può comprendere la propria vocazione, trova sostegno e consiglio per percorrere quella strada che porta al compimento del progetto di Dio.

Suor Vittoriana, al secolo Assunta Nieddu, nata nel 1947 a Villagrande Strisaili, ha ascoltato attentamente la Parola di Dio e questo l’ha portata, in giovane età, a lasciare il suo paese d’origine per rispondere alla chiamata vocazionale nella vita religiosa presso la congregazione delle Figlie di san Giuseppe di Genoni.

Dopo diverse esperienze come educatrice in varie scuole della Sardegna, poi a Roma e in seguito in Svizzera, la Madre generale della congregazione risponde con un sì alle continue richieste della suora di poter portare l’annuncio della Parola nei paesi più poveri del mondo, e per questo la invia come missionaria in America latina.

Nel 2001 atterra a Buenos Aires, dove trascorre sette anni, portando sostegno e conforto nei quartieri più periferici di Villa Udaondo e di Cordoba. La povertà e la dignità delle persone che incontra la toccano nel profondo, portandole arricchimento esperienziale e spirituale. Papa Francesco una volta ha detto che «la prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto». È proprio l’esigenza di fare esperienza dell’amore di Gesù che porta, nel 2014, suor Vittoriana nello stato del Maranhao in Brasile, dove trascorre i successivi sette anni nella città di Matinha, nella zona dei cento laghi, a quattro ore di auto da San Luis.

La sua missione è stata caratterizzata da una pastorale semplice, un lavoro di sostegno a un popolo molto variegato e privo di ogni benessere, ma allo stesso tempo piena di colore e allegria. In questi sette anni le giornate di suor Vittoriana sono state ricche di visite a piccoli villaggi, dove la povertà emerge a ogni angolo, causata da un’agricoltura povera e dalla mancanza di assistenza sanitaria adeguata. In questi villaggi la vita scorre lenta e tranquilla, tante case di fango all’interno delle quali la condivisione di quel poco che si ha, e anche di ciò che non si ha, uniscono le persone nell’intimo. Le visite si alternano al lavoro nella Fazenda dell’amor misericordioso, punto di accoglienza per tossicodipendenti da alcool e droghe. In questa realtà periferica, tanto cara a Papa Francesco, la suora assiste ogni giorno al miracolo della vita che rinasce in giovani distrutti dalle dipendenze. L’annuncio della Parola e la formazione catechetica portano la suora a fare qualcosa di concreto per questi poveri che portano ogni giorno alla sua porta le loro sofferenze, esigenza che si dimostra molto forte soprattutto nei confronti delle giovani ragazze e bambine delle comunità che visita, che spesso e volentieri spariscono per realizzare terribili progetti dell’uomo meschino.

Ma che cosa fare? Nella mente di suor Vittoriana ritorna un vago ricordo di quando da bambina si sedeva con le amiche per realizzare piccoli ricami: da qui l’idea di realizzare una scuola di ricamo, attraverso la quale le ragazze possono realizzare lavori da poter vendere e così portare il loro contributo alla famiglia. Avviata la scuola di ricamo, ecco un nuovo progetto e un nuovo sogno: costruire un ponte di solidarietà tra la sua terra d’origine e la sua nuova terra che l’ha adottata come una vera figlia spirituale. Tutto pur di aiutare la crescita e lo sviluppo della Fazenda dell’amor misericordioso così da poter assistere ogni giorno a quel miracolo della vita che rinasce in corpi distrutti. Oggi la suora, richiamata dalla madre generale, è ritornata in Sardegna e presta il suo servizio a Sassari, ma non abbandona il suo progetto di solidarietà.

Michele Corona

Sulla tua Parola getterò le reti

a cura di Augusta Cabras.

Come si diventa biblisti?

Il percorso per diventare biblisti con titolo pontificio prevede di conseguire almeno il Baccalaureato in Teologia. Per la Chiesa Cattolica l’Istituto Biblico di Roma e la Gregoriana sono gli Istituti più accreditati. Nella prima si consegue la Licenza in Scienze bibliche, nella seconda la licenza in Teologia biblica.

Immagino tu possa provare un senso di vertigine a essere così in confidenza con la Parola. È cosi?

Sì, lo viviamo un po’ tutti e io lo vivo in modo particolare. I non credenti hanno un senso di vertigine quando scoprono che la Bibbia è così antica nella scrittura e nella redazione, ma così moderna e attualissima nel messaggio. Questo perché parla dell’uomo e i desideri dell’umano sono sempre gli stessi. Per i credenti si aggiunge il fatto che in quella Parola è presente Dio. L’esperienza di Dio si coniuga con l’esperienza dell’uomo, di una comunità, di un popolo. Dio sceglie di parlare con la lingua degli uomini e sceglie di rivelarsi agli uomini. Per noi cristiani ancora di più, perché Gesù si è fatto parola. Quindi non solo una Parola rivelata dall’alto, da comprendere, ma una Parola che si fa carne, persona, incontro, relazione.

E sì, la vertigine viene! Ma è vertiginoso, anche durante lo studio non solo delle versioni ultime, ma anche di quelle intermedie, scoprire che ci sono state tante comunità che quel testo l’hanno letto e poiché la comprensione è difficile e complessa, qualcuno è intervenuto con delicatezza e sensibilità a cambiare una parola o a toglierla. Per cui ti ritrovi davanti non a un testo morto, ma davanti a un testo che ha dei volti, delle mani che hanno lavorato, degli occhi che lo hanno letto. Ancor di più, quando leggo il testo in italiano, capisco che anche il mio lavoro è far questo. Non solo dire che i grandi, grandissimi biblisti ci hanno lavorato, ma avendo studiato anch’io, posso dire la mia su una parola specifica e posso offrirla agli altri.

C’è un aspetto della Sacra Scrittura che ancora rimane nascosto e che meriterebbe di essere illuminato?

Sì, la caratterizzazione dei personaggi biblici. Per molto tempo si è avuta la tentazione di presentare dei personaggi perfetti, come modelli di vita. Per cui anche quando si faceva il panegirico si mostravano le parti più positive, intonse. Facendo questo si è rischiato di considerare l’amicizia con Dio, come qualcosa per privilegiati. Infatti, per tantissimi secoli, la santità era legata prima ai monaci, che vivevano lontani dal mondo, poi ai religiosi e solo recentemente ai laici. Invece la Bibbia fa l’esatto contrario perché presenta i personaggi con le loro ferite, i travisamenti, gli errori e le cadute. Basti pensare ad Abramo, Isacco e Giacobbe e nella loro vita troviamo ogni tipo di fragilità. La Bibbia non ha paura di dire chi è e come è la persona che incontra Dio.

Mi pare che Papa Francesco stia tracciando un segno importante in relazione al tema della fragilità dell’uomo e dell’umanità.

Sì, è vero. Ma già il Concilio Vaticano II aveva ridato la Bibbia in mano alla gente dicendo: è qui che si trova la nostra vocazione, ossia l’accoglienza delle fragilità e il nostro riconoscerle. Cioè, per accoglierci, dobbiamo accogliere la nostra storia, anche e soprattutto se è ferita, lacerata e sfilacciata. Questa è una delle chiavi di volta che dovremmo recuperare dalla Bibbia. Pensiamo a Pietro, nel Vangelo di Giovanni. Dopo la resurrezione Gesù lo richiama e gli fa quella famosa domanda per tre volte: vuoi accettare la tua difficoltà ad amare? Perché finché è tutto facile, oppure fino a che tu non ti conosci, puoi dire che hai un cuore d’oro, ma quando ti trovi davanti alla tua fragilità, alla mancanza di coraggio e di convinzione nella sequela, lì allora si cade. E Gesù allora recupera. A Pietro fa fare lo storytelling, ponendo la domanda: mi ami tu Simone? E Pietro per tre volte risponde: sì, ti voglio bene. Gesù, sa che quell’amore non è ancora perfetto, ma che l’uomo può aprirsi alle proprie fragilità. Con questa coscienza possiamo anche non sentirci super donne e super uomini, ma persone in cammino.

Qual è il libro o il personaggio della Bibbia che ti ha stupito o che hai scoperto sotto una nuova luce?

Sono due, sempre mi fanno commuovere e sono Qoelet e Rut.

Rut per la sua storia di straniera, lontana e maledetta, che ha il coraggio di prendere in mano la propria vita insieme alla suocera Noemi e di ricostruire non solo la sua storia personale, ma la storia di un intero popolo. Qoelet è un personaggio straordinario perché ha il coraggio di interrogarsi su tutto senza avere paura di niente, mettendo difficoltà a tutti e a se stesso per tornare alle radici vere. Sembra distruggere tutto per salvare l’indispensabile, e questo piace a me ma credo sia importante per tutti. Altrimenti il rischio è quello del banale si è sempre fatto così, o del crediamo per tradizione.

Qual è il tuo pensiero sui Vangeli apocrifi?

Nei primi secoli c’era un grande desiderio di conoscere Gesù. I Vangeli canonici sono super sobri perché il punto di partenza e l’obiettivo è la salvezza. Gli Apocrifi invece sono ricchi di informazioni. Non sono certo da demonizzare; la devozione e la tradizione vi ha attinto a piene mani. Possono essere letti, ma non vanno confusi con quelli canonici perché le prime comunità hanno dato credito ai 4 Vangeli che venivano letti durante la Cena del Signore.

Voi come biblisti vi occupate anche di studiare testi che nascono all’interno di altre esperienze mistiche? Penso ad esempio all’Evangelo di Maria Valtorta.

No. Questi sono oggetto della teologia spirituale. La Chiesa sulle esperienze mistiche, che può anche riconoscere, dice: sono esperienze personali, non sono dogmi di fede o normativi.

Cosa consigli a chi vuole rileggere la Bibbia o leggerla per la prima volta?

Consiglio di iniziare dai Vangeli o da qualche volto, qualche personaggio. E questo si può fare anche aiutandosi con un buon sussidio.

 

Chi è.
Michele Antonio Corona

Nato a Iglesias, ha 44 anni. È sposato e padre di due figli. A 16 anni ha iniziato un’esperienza con i frati Cappuccini di Cagliari che è durata 10 anni, fino all’Accolitato. Lasciato il convento e dopo la Licenza in teologia morale, ha conseguito la Licenza in Scienze bibliche presso il Pontificio Istituto biblico di Roma. Ha svolto il dottorato in Fonti Scritte della Civiltà Mediterranea presso l’Università degli Studi di Cagliari. Tiene conferenze, seminari, lezioni e incontri in tutta la Sardegna. È autore di I tanti volti della Bibbia. Per una conoscenza senza argine, 2022 (Ed. Palumbi) e Il Concilio Vaticano II spiegato a tutti, 2022 (Ed. Palumbi).

Andrea Arba

Macelleria Gorropu: il racconto buono della genuinità

di Davide Lorrai.

La storia di Andrea Arba, giovane ragazzo di Urzulei, che nel novembre 2014 sceglie di aprire la sua macelleria-gastronomia nel suo paese natale

La giornata è uggiosa, quasi ombrosa, ma la macelleria Gorropu apre le sue porte, illuminando i clienti. L’accoglienza di Andrea è coinvolgente e rassicurante. Una sicurezza premurosa, la stessa con la quale s’impegna a servire il via vai quotidiano dei residenti. La merce è trattata come fosse un tesoro, un dono per le case. Si legge cura, sentimento e veracità. Quella che si ricorda delle attività di un tempo.

La macelleria apre nel 2014, in novembre. Una sfida, un investimento che Andrea Arba di Urzulei, classe 1989, decide di raccogliere carico di entusiasmo e voglia di mettersi in gioco: «Ho deciso di aprire la mia attività a Urzulei – racconta – per mantenere un legame fisico, geograficamente identitario, con il mio paese. Una decisione non ragionata in termini di riscontro economico, ma frutto di un bisogno involontario».

I giovani della sua generazione sono quelli che hanno vissuto il passaggio al secondo millennio, un momento storico in cui la scelta di condividere un sogno ha dovuto coltivarsi e argomentarsi da sola, quasi in sordina. La terra è madre putativa delle speranze e delle aspettative in cui tutto si traduce in una soluzione quasi primordiale. Andrea è un ragazzo timido, gentile nei modi, impegnato nel suo lavoro. Si muove appassionato dietro il bancone apparecchiato di una scelta variegata di prodotti di ottima qualità. Dalle carni semplici all’elaborazione originale di pietanze, dall’aspetto invitante.

Si racconta in pillole, raccolto dentro uno spazio che vive con appartenenza e fierezza. Gli anni di formazione professionale si contano sul campo, in giro per l’Ogliastra, per otto anni, prima a Lotzorai, poi a Tortolì, per planare infine, a piccoli cerchi, nel suo paese, portando con sé tutta l’esperienza acquisita. L’obiettivo è di regalare a Urzulei «un format diverso, più moderno rispetto agli spazi precedenti», spiega. Nel 2017, infatti, la sua attività si arricchisce, e insieme alla macelleria, diventa paninoteca-rosticceria. Un ampliamento desiderato e realizzato con coraggio. Una scelta condivisa con i suoi collaboratori, che sono la sua famiglia. Grazie al lavoro di collaborazione e alla presenza assidua di una clientela piena di partecipazione e soprattutto giovane, la scommessa di Andrea vanta, a oggi, una popolarità meritata: «Questo spazio è diventato un rifugio, un luogo di raduno per i giovani. Un posto dove condividere l’esperienza di un cibo genuino e gestito con cura», prosegue.

La passeggiata diventa incontro in un luogo posizionato nella via principale alta del paese. L’affluenza assidua e di aggregazione è resa possibile dai tavoli che si affacciano sulla strada, circondati da delle panche di legno comode. Andrea ricorda un personaggio romanzesco. La sua prestanza e genuinità tracciano i caratteri di una letteratura che conosciamo bene. Le figure dei commercianti come Andrea sono state spesso protagoniste di storie di vita interessanti, legate ai luoghi. Una Elena Ferrante, cito da Un’amica geniale, racconta dell’apertura di una attività, in una Napoli degli anni ’60: “L’ex falegnameria di Peluso, che una volta nelle mani di don Achille era diventata una salumeria, si riempì di cose buone che occuparono anche un po’ di marciapiede. A passarci davanti si sentiva un odore di spezie, d’olive, di salami, di pane fresco, di cicoli e sugna, che metteva fame”. Ecco, questa è la sensazione che si prova quando ci si avvicina alla macelleria Gorropu. Uno spazio raccontato. Andrea è rassicurante nella sua timidezza e sicuro nel suo mestiere. Le sue risposte sono brevi, ma sincere, accompagnate da un sorriso o una frase quasi sospirata che sembrano essere la vera chiave della sua soddisfazione. La sua attenzione per il cliente colora anche il locale, che nel giro di dieci minuti conta almeno cinque persone in fila. Nell’attesa, che non è noiosa, lo scambio di battute, in dialetto, sono il suo lascia passare, una promessa di fiducia per i clienti, che lasciano la bottega soddisfatti e anche sorridenti. «L’idea di regalare uno spazio di questo tipo a Urzulei nasce dalla mia passione per la natura, quella che ha bisogno di una cura sana ed equilibrata. Ho io stesso l’esigenza di regalare ai miei clienti un’esperienza soddisfacente. Sia in negozio e, arrogantemente, anche a casa. Quindi metto avanti il rispetto e la cordialità, che sono la chiave per mantenere vivo l’interesse commerciale».

Ha le idee chiare Andrea. La sua non è solo un’attività di commercio, ma la visione realizzata di un’esperienza nuova e di scambio. L’habitat naturale dei borghi e questo legame d’origine rendono il suo intento di facile attuazione. La sua idea di commercio e, insieme, di consumo è figlia di un’era che ha tracciato un proposito di investimento con il fine di rendere felice e riconoscenti sé stessi, in primis, e il prossimo. I tempi sono cambiati, ma ci sono persone come Andrea che lo spirito l’hanno mantenuto. Probabilmente, dice, il merito è dei suoi genitori, di una famiglia che gli ha trasmesso valori solidi e circoscritti. La traduzione delle cose l’ha vissuta in maniera prematura, la sua scelta di non studiare, ma di lavorare, non è sofferta, sembra indubbiamente ragionata. Questi anni gli hanno consentito di formarsi e di migliorare la sua visione di impresa per rendere così possibile e materiale la sua presenza nel territorio. Una maniera per restituire vita e colore allo spazio che, amorevolmente, l’ha cresciuto e accudito.

Orizzonte Giovani

Dispensa 125, il segreto della longevità

di Fabiana Carta.

Ricordate i negozietti che tanti anni fa si trovavano lungo le vie del paese? Erano solo delle stanzette, a volte su due piani. C’era l’indispensabile, l’aria familiare ci faceva sentire come a casa. Piano piano hanno cominciato a chiudere, a scomparire: il nuovo sostituisce il vecchio, è così che va.

Eppure, qualcuno è partito dalla nostalgia delle antiche botteghe per creare un piccolo capolavoro lungo l’Orientale sarda, un luogo delle meraviglie per tutti gli amanti del cibo genuino e delle atmosfere di un tempo. Riccardo Patteri è un giovane di 33 anni cresciuto tra Baunei e Santa Maria Navarrese, forse troppo giovane per ricordare il paese costellato di botteghe, ma sensibile abbastanza per capire che oggi abbiamo bisogno di questo ritorno all’essenziale. «All’età di 17 anni ho lasciato la scuola – racconta – e ho iniziato a lavorare in un bar al centro di Baunei. Quello che all’inizio doveva essere un lavoretto stagionale è diventato il mio lavoro per 14 anni. Col passare del tempo il lavoro è cambiato tanto, all’inizio avevo a che fare solo con persone del posto e qualche turista di passaggio durante la stagione estiva, in particolare motociclisti ed escursionisti che si fermavano per un caffè al volo prima di proseguire per Cala Goloritzé».

Non c’è bisogno di andare troppo indietro nei ricordi, Baunei era solo un luogo di passaggio per raggiungere le famose cale, salvo qualche eccezione, pochi si soffermavano sulla bellezza del paese, del centro storico e le sue vie. «Negli ultimi dieci anni è cambiato tanto – continua Riccardo –, è cresciuto dal punto di vista turistico e di conseguenza è cambiato anche il mio lavoro. Quello che prima era solo un paese di passaggio, per una sosta fugace, è diventato un luogo dove trascorrere le vacanze. Per questo è cresciuta sempre di più in me la voglia di creare qualcosa di mio».

Nel frattempo, il bar dove Riccardo lavorava è diventato anche una trattoria. Ed è così che è arrivato il colpo di fulmine, l’illuminazione: «Ho capito quanto siano apprezzati i nostri prodotti e ho iniziato a pensare a un negozietto in cui far trovare al turista tutto ciò che più gli piace quando va al ristorante. A partire dai nostri salumi, i formaggi, ma anche i nostri vini e le birre artigianali», racconta. Una selezione di bontà, prodotti del territorio che raccontano una passione e una storia, in un locale che richiama la semplicità del passato.

Il paese cresce e si evolve, insieme a lui cresce il coraggio dei giovani che scelgono di investire e di restare. L’idea di aprire la bottega nasce nel 2020, un anno che ricorderemo tutti per la terribile pandemia che ci ha costretti all’isolamento, ma che ha spinto tante persone a credere in nuovi progetti e a riprogrammare il futuro positivamente. «Dopo due anni dall’idea, a luglio del 2021 ho aperto le porte di Dispensa 125, “dispensa” per il tipo di prodotti che vendo e 125 perché si trova sulla via Orientale Sarda. Il fatto che si trovi sulla piazza principale mi ha permesso di ampliare l’idea iniziale sistemando dei tavolini in cui degustare i prodotti della dispensa. I turisti apprezzano tantissimo tutto ciò che possono assaggiare durante gli aperitivi e spesso decidono di portare a casa gli stessi prodotti».

I vecchi mobili fanno da cornice all’esposizione dei prodotti enogastronomici e una scala a chiocciola di ferro porta alla cantina, con i prosciutti e i salumi appesi al soffitto. Oltre ad aver aperto la sua bottega con uno sfondo d’eccezione, la finta facciata della Chiesa dedicata a San Nicola, Riccardo ha regalato nuova vita alla Piazza Indipendenza. «Vedere la piazza di nuovo viva è per me motivo di orgoglio, da baunese e da commerciante. Sono convinto che il paese possa ancora crescere e spero che tanti altri giovani baunesi possano credere nel suo futuro quanto me e quanto chi già si è buttato in attività legate al turismo negli ultimi anni».

L’idea di Riccardo è stata vincente, la selezione accurata di salumi, formaggi, marmellate e miele, vini, birre artigianali, dolci e tante altre delizie è quello che i turisti cercano, per entrare in sintonia con il territorio. «Ho scelto di differenziarmi dalle altre attività presenti in paese offrendo solo prodotti di nicchia, cercando piccole aziende alimentari e piccole cantine che difficilmente vendono ai supermercati. Una grande soddisfazione per me è vedere che anche i miei compaesani hanno apprezzato il tipo di locale e capiscono il valore di ciò che vendo», conclude.

Il segreto della longevità è lo slogan che accompagna il nome della bottega. Riccardo, con i prodotti genuini della sua Dispensa 125, preparati secondo la tradizione, lo custodisce con cura.

(Foto di Fabio Moro)