In breve:

Volti e persone

Barbiere Urzulei

AcCongiu, per barba e capelli

di Augusta Cabras.

Gioca con le parole Federico Congiu, quando deve scegliere il nome per il suo nuovo salone di cura e bellezza. Lo chiama “AcCongiu”, creando con il suo cognome la parola che anche in sardo esprime la mansione svolta dal professionista che si dedica alla cura della barba e dei capelli: s’accongiu (o similare, a seconda dei paesi) operato dall’acconciatore, appunto, e dall’acconciatrice.

Il suo salone si trova al civico 34 della via Risorgimento, tra le vie interne del paese di Urzulei. All’ingresso, tra gli infissi blu, fa mostra di sé la Barber Pole, l’asta a strisce colorate. È l’insegna convenzionale usata dai barbieri per indicare la presenza della propria attività, la cui storia particolare affonda le origini nel Medioevo, quando i professionisti di lamette e di forbici, non si occupavano solo di acconciare la testa e il viso dei clienti, ma agivano come veri e propri chirurghi con i pazienti: estraevano i denti, suturavano le ferite, praticavano flebotomie e salassi nell’intento di far guarire dalle malattie. Il Barber Pole di oggi con le sue strisce colorate che girano, è un’evoluzione di quel palo con le bende bianche sporche di rosso sangue, che dovevano essere ben visibili e immediatamente riconoscibili dai malati e dai viaggiatori che necessitavano di un intervento chirurgico.

Il barbiere oggi ha perso quella funzione curativa e quasi taumaturgica, ma il simbolo è rimasto, insieme a quella voglia di far star bene le persone che chiedono il servizio. «Mi piace moltissimo il fatto che le persone vengano da me e in quel tempo in cui io mi occupo di loro, possono rilassarsi, chiacchierare, liberarsi dal peso dei pensieri. È questo il mio obiettivo principale: rispondere alle loro richieste, farlo bene e far stare bene i clienti», racconta con orgoglio Congiu.

Dal mese di maggio dello scorso anno, il ventisettenne di Urzulei, con le forbici e il rasoio in mano, soddisfa le esigenze dei suoi tanti frequentatori, per ora prevalentemente maschi: bambini, giovani e adulti, anche se non mancano le donne. «Lo ricordo bene quando da bambino mi sedevo nella poltrona del nostro barbiere, Romano. Mi ricordo bene la sensazione di benessere, di relax. Guardavo con curiosità e divertimento le forbici che avanzavano e scolpivano i capelli cambiando via via la loro forma iniziale», rammenta Federico con un sorriso. E chissà se sono state quelle belle sensazioni, se è stata l’esperienza vissuta da bambino ad aver riposto in lui, il desiderio di intraprendere questo percorso lavorativo.

Il suo salone che ora ha una veste rinnovata, ha accolto per anni una parruccheria. Anche il barbiere storico ha lasciato l’attività per raggiunta bella età e ora Congiu, in un simbolico passaggio di consegne, prende in mano il testimone, consentendo, (dettaglio di non poco conto), alle persone di Urzulei, di rinnovare in casa il taglio di barba e capelli, senza percorrere tanti chilometri per arrivare in un altro paese.

È sicuramente una grande sfida quella che il giovane ogliastrino ha intrapreso. Ma lui fa tutto con grande passione, energia ed entusiasmo e il sorriso e la gentilezza non mancano mai. E forse la chiave per far bene le cose è proprio questa: un atteggiamento positivo e grintoso che si sposa con una certezza, il desiderio di stare nel proprio paese, di costruire qualcosa per non andare via, di contribuire alla crescita della comunità. E così i piccoli germogli di resistenza crescono.

Ma quale è stata la strada che il barbiere di Urzulei ha compiuto e che gli ha consentito di aprire la barberia? «Dopo il diploma all’Istituto Tecnico Commerciale frequentato a Tortolì, sono stato allievo per due anni della scuola per parrucchieri di Nuoro e ho preso la qualifica. È stato un percorso formativo bello, interessante, ricco di incontri e tante conoscenze, sia tecniche che teoriche, che si sono rivelate fondamentali anche per mettermi in proprio», racconta. Federico, oltre le lezioni pratiche, ricorda infatti le lezioni di dermatologia, di anatomia, di diritto ed economia di cui ha fatto tesoro per avviare la propria attività. La burocrazia di certo non è mancata, ma può considerarsi una parte che non ha preso il sopravvento sulla voglia di fare. E in un tempo in cui la cura dell’aspetto e il richiamo all’estetica è diventato un imperativo, è bello e piacevole trovare persone gentili e appassionate come Federico.

Isre

ISRE. Cultura viva

a cura di Augusta Cabras.

Dialogando con Stefano Lavra, Presidente dell’Isre.

Cosa è l’Isre e di che cosa si occupa?

L’Istituto Superiore Regionale Etnografico è il luogo della cultura sarda per eccellenza che custodisce, e attraverso lo studio, la ricerca e la promozione, dà impulso all’identità e alla cultura sarda. E lo fa a partire dalla valorizzazione degli intellettuali di ogni tempo: a partire da Grazia Deledda per cui abbiamo istituto con gli accademici, a dicembre scorso, il Centro Studi Grazia Deledda, che avvalorerà, incrementerà e potenzierà, nell’articolazione dell’Istituto, la figura straordinaria di questa scrittrice, premio Nobel, attraverso le pubblicazioni, la cinematografia e altre iniziative. Un altro elemento importante è la collaborazione con le Università di Cagliari e di Sassari, con cui dialoghiamo costantemente. L’ISRE incentiva le borse di studio e promuove la ricerca, la documentazione, l’approfondimento, coinvolgendo in particolare giovani. Il legame è forte con le scuole di tutti i gradi.
La sede della presidenza è a Nuoro, perché questa è stata la volontà dei padri fondatori. Giovanni Lilliu, in particolare, aveva individuato il Nuorese come l’area geografica che rappresentava la costante resistenziale sarda, che era quella che teneva unite le origini del popolo sardo dall’epoca nuragica fino ai giorni nostri, l’area che ha mantenuto tradizioni e identità, ma che rappresenta tutta l’Isola.
Per questo per noi è importante che l’ISRE sia aperto a tutti i territori, da Cagliari a Sassari, da Oristano a Tortolì; per questo l’Istituto Superiore Regionale Etnografico accoglie le iniziative che possono essere di valorizzazione della cultura nelle molteplici espressioni del popolo sardo, compresa la lingua sarda, altro pilastro della nostra azione.

Si evince che il legame con il territorio sia molto stretto.

Questo è un punto fondamentale. Anche il nuovo corso, con la mia presidenza si è avviato con questa apertura dell’Istituto al territorio e a tutte le sue ricchezze, a partire dalla valorizzazione delle risorse umane, del tessuto sociale, culturale e produttivo. Penso ad esempio all’artigianato, capace di essere un motore propulsivo anche per l’economia, che ha tantissimo riverbero nelle nostre comunità, nel legame profondo tra tradizione, identità e innovazione, che riesce a essere attrattivo.
L’apertura è anche verso l’esterno. Ne è un esempio la partecipazione alle fiere internazionali. L’ultima è stata la Fiera Internazionale dell’Artigianato a Milano, che ha visto l’ISRE partecipare attivamente come istituzione, nel promuovere il nuovo nato Museo della Ceramica Sarda che ha messo in luce tutto l’artigianato della ceramica in Sardegna, che ha avuto un grande risvolto agli inizi del ‘900 fiorendo con l’arte attraverso l’opera di Nivola, Fancello, Ciusa, e altri grandi ceramisti sardi i quali hanno aperto una pagina internazionale straordinaria. Il Museo della Ceramica è un gioiello, di cui siamo particolarmente orgogliosi. Da luglio ha avuto tantissimi visitatori e un ottimo riscontro anche da parte degli artisti e degli intellettuali a livello internazionale e di questo siamo molto contenti.

Le bellissime e numerose attività che l’ISRE organizza nei territori smentiscono il luogo comune che la cultura, il museo, le raccolte siano compartimenti statici e in alcuni casi asfittici. È una vostra missione quella di rendere viva e attuale la cultura?

Sì. Vogliamo che l’ISRE sia un’istituzione viva, dinamica. Le faccio un esempio: in occasione del Natale, per un arco temporale di oltre un mese, all’interno del Museo della Ceramica abbiamo portato la tematica della natività di Gesù con le opere di Maria Lai, aperta a tutti i visitatori. Il museo raccoglie continuamente le informazioni dall’esterno, si apre al contributo del mondo intellettuale, artistico, culturale e il museo diventa una vera scuola di confronto, dialogo, crescita. È cosi anche il nostro Museo del Costume o meglio Museo della Civiltà Sarda con tutto quello che rappresenta; è uno dei musei etnografici più importanti a livello europeo, curatissimo e molto apprezzato; nell’ultimo anno ha avuto oltre 60.000 visitatori, con una crescita del 20% rispetto all’anno precedente.
Abbiamo anche dato impulso alla comunicazione per promuovere i nostri musei come luogo d’incontro e di dialogo, con una serie di convegni, dibattiti e attività artistiche. I musei non sono solo i luoghi di conservazione delle opere.

L’ISRE si occupa anche del cinema e della musica tradizionale?

La sezione ISRE Musica è attiva nel coinvolgimento delle associazioni culturali che danno lustro al canto a tenore e agli strumenti musicali della tradizione: launeddas, organetto ecc. in modo da mettere sempre in luce questo grande potenziale.
La sezione ISRE Audiovisivo, attraverso la prestigiosa edizione di ISREAL darà spazio agli scenari sardi. Con il cinema del reale, documentaristico quindi, si metterà in risalto il valore della Sardegna, il suo paesaggio, le sue genti, l’espressività più caratterizzante di una terra autentica. Il cinema sardo si confronterà con quello internazionale in un dialogo costruttivo.
Il filo conduttore dell’attività che stiamo svolgendo in questo mandato è chiaramente nel segno dell’apertura del rapporto tra l’Istituto, la Sardegna, il resto del Mediterraneo e non solo, con tutti i popoli che rappresentano la parte più vera della propria storia e della propria cultura.

matteo-porru

L’elogio del talento

a cura di Augusta Cabras.

Giovanissimo, ha quasi 23 anni, Matteo Porru è autore di romanzi, saggi e racconti. Esordisce in libreria a 16 anni, dopo numerosi racconti pubblicati sul web, con il libro The mission. Scrive per il cinema e per il teatro. È stato inserito da D di Repubblica fra i 25 under 25 più promettenti al mondo. Nel 2019, mentre frequenta l’ultimo anno del Liceo Classico Dettori di Cagliari, vince la sezione Giovani del Premio Campiello con Talismani. La giuria lo premia per un “racconto compatto che ha il merito di spingere lo sguardo oltre i confini della propria anima e delle proprie vicende personali, tratteggiando i rapporti di una madre afgana con il suo giovane figlio”.

Quando e dove nasce la tua passione (o vocazione) per la scrittura?

Io ho iniziato a scrivere perché volevo essere onnipotente. Perché, dopo una vita in cui ero stato controllato, volevo essere io a controllare, a decidere i destini del mondo, a capacitarmi delle cose che accadono. Soprattutto a me. È stata la mia salvezza riuscire a rifugiarmi e a nascondermi tra le parole. La data di inizio, come tutte le avventure, non è indicata, forse non è mai esistita davvero. Ma so che il bisogno di urlare, ed essere ascoltato, è nato quando ho raggiunto un esubero di dolore e di passività.

A 18 anni ricevi uno dei premi più prestigiosi per i giovani scrittori. Cosa ha rappresentato quel momento per te?

La più grande attestazione di un talento. Mi sorprese la vittoria, ma ancora di più la reazione e la conseguenza del conseguimento di quel titolo: tanti lettori, tante occasioni e opportunità che altrimenti non so se avrei avuto. Non credo molto alla frase “Si chiude una porta, si apre un portone”, perché le porte si aprono e si chiudono e i portoni pure, ma quello è stato il mio grande varco d’accesso alla professione. Grazie al Campiello Giovani sono passato dalla piccola editoria alla grande editoria, a quel premio devo molta più felicità di quella che ho mostrato al mondo.

Cosa è l’ispirazione?

Una cosa che ha inventato chi non è mai riuscito a scrivere, o chi pensa che ci sia una sorta di benedizione celeste dietro un’opera di finzione. L’ispirazione non esiste: esiste l’osservazione, l’empatia, la capacità di notare cose piccole o trascurabili. La storia non nasce in grassetto. Ogni storia nasce in minuscolo.

Puoi raccontarci il tuo impegno con i ragazzi e le ragazze che vivono una vita difficile?

I ragazzi non sono difficili. Quelli difficili sono gli adulti. I ragazzi sono infinitamente migliori, più forti, più audaci, più veri della stragrande maggioranza di quelli che si reputano tali, non facile rispondere agli affondi dopo essere stati pestati dalla vita; non è facile se la società continua, per qualche meccanismo malato che continuo a non capire, a demonizzarli. Ogni ragazzo che salviamo è un atto di fede verso il futuro: questa è l’unica cosa che conta davvero.

Cosa ti ha portato lì? Cosa ti stupisce quando sei con loro? Cosa hai imparato e impari da loro che non avevi previsto?

Io lavoro con loro da parecchio tempo. Mi stupisce la loro capacità di affrontare le cose. Per essere un eroe bisogna affrontare il mostro. Conosco, vedo ragazzi e ragazze che combattono con dei mostri che la gran parte di noi teme anche solo di poter pensare. Sono mostri che produciamo noi come società, perché la stragrande maggioranza delle cose che accade a questi ragazzi sono la diretta conseguenza dei cambiamenti sociali degli ultimi vent’anni e delle degenerazioni. È un processo lunghissimo per loro. Ma lo affrontano con un coraggio e una dignità che fa invidia a tanti e dovrebbe far riflettere tutti. Io ho fatto esperienza nelle carceri minorili, nelle carceri per adulti, nelle comunità e io in tutta serenità inviterei le persone a visitare un carcere, una comunità. Serve in Italia un’educazione sociale. Dai ragazzi e dalle ragazze delle comunità ho imparato più di quanto loro abbiano imparato da me. Cosa non avevo previsto? Che mi sarei follemente innamorato di loro.

La scrittura può essere cura?

Non credo. La scrittura è una delle migliori terapie mai scoperte. La possibilità di rielaborare, di stravolgere, di annientare, di catalizzare, di stare in silenzio davanti a un foglio riesce, in qualche modo, a mantenerti vivo e sincero. Penso sarei imploso senza questa valvola di sfogo. E invece, per dirla come Vasco, io sono ancora qua. Eh già.

Maria Biolchini

Maria Biolchini. Motori, vernici e poesia

di Antonio Carta.

Il suo primo amore? La minimoto gialla fiammante, con impresso il numero 46 in onore di Valentino Rossi, dono di babbo Egidioper il suo settimo compleanno, ricordo caro anche di nonno Giuseppe.
Maria Biolchini, 22 anni, terteniese gioiosa ed entusiasta, carrozziere nell’officina di famiglia, racconta la passione e la dedizione per il suo lavoro.
«Sin da piccola la mia esistenza è legata al mondo dei motori – spiega – e in particolare all’officina di mio padre. Per un Natale mia madrina voleva regalarmi una bambola, ma io le ho chiesto in dono un trattore! Ho sempre amato il rombo dei motori e mi piace rileggere il mio passato ricollegando eventi, doni, persone che mi aiutano a capire chi sono io oggi».
Prima di intraprendere il suo percorso lavorativo, Maria ha concluso gli studi diplomandosi presso l’Istituito Tecnico Commerciale di Jerzu.

Certo è che spesso la sua professione di carrozziere la costringe a interfacciarsi con pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni che vedono il mondo dei motori, della riparazione dei mezzi e della carrozzeria, come prerogativa esclusiva del mondo maschile: «Tante volte nel mio lavoro mi capita, per esempio durante un soccorso stradale col carroattrezzi, di sentirmi dire: “Tuo padre dov’è?”. Al che mi trovo costretta a rispondere che posso cavarmela da sola. Questo accade anche quando dei clienti arrivano in officina e mio padre non è in sede. Evidentemente alcuni pensano che io non sia in grado di svolgere il mio lavoro», ma a Maria piace smentire e sorprendere i suoi clienti con la professionalità e il sorriso che la contraddistinguono. «Non tutti sono pronti a vedere una ragazza di 22 anni guidare il carroattrezzi o lavorare in officina. Credo sia la conseguenza di una mentalità ristretta che ancora persiste nei nostri paesi. Spesso cerco una solidarietà femminile che fatico a trovare. A volte anche le donne sono capaci di far emergere i pregiudizi, forse perché il mio lavoro mi porta a non essere sempre perfetta esteticamente e forse perché a volte sono i sentimenti di gelosia ad avere la meglio, piuttosto che quelli di solidarietà».

Eppure Maria tiene al suo lavoro da carrozziere al pari del suo essere donna, aspetti che non si contrappongono affatto, perché ama il suo lavoro e anzi auspica che tutti, specialmente le donne, possano coronare i propri desideri professionali, i propri sogni, senza avere paura del giudizio altrui.
L’attività di Egidio Biolchini, padre di Maria, nasce nel 1990. «Mia madre lavorava con lui, è stata la prima donna carrozziere a Tertenia. Si occupava dei colori delle auto in officina, era il braccio destro di mio padre. A lei devo tanto».
Maria però non è l’unica donna in casa Biolchini ad avere le mani in pasta in officina. «Mia sorella Stefania è la mia mentore, la mia complice, a lei devo tutto ciò che faccio in officina e le riconosco soprattutto la pazienza nei miei confronti. È una persona attenta, che mi sprona, mi incoraggia e nonostante i miei errori è sempre disposta a starmi accanto per iniziare nuovamente insieme». La famiglia Biolchini è composta poi anche da Marco, quindicenne, attualmente studente «se lui vorrà, c’è sempre un posto anche per lui in officina».

Apparentemente, a uno sguardo veloce e forse distratto, il carrozziere è semplicemente colui che ripara le macchine. «In realtà è un lavoro che è molto di più – afferma con decisione Maria –. Il mio lavoro è un intrecciarsi di vite ogni giorno, soprattutto in situazioni difficili e inaspettate come i continui incidenti. Ogni persona che incontro ha una storia e un vissuto e io mi ritrovo a soccorrerla in una situazione spiacevole. Per questo non mi piace trattare i clienti come numeri, perché sono prima di tutto persone. Ognuno ti dà qualcosa, pur essendo estraneo, e a volte una sola parola basta per intessere un bel rapporto».
Allo stesso tempo precisa che anche lei, dietro la corazza di carrozziere, è una persona, e non «un robot che aggiusta macchine»: «Una volta ho dovuto soccorrere una persona che aveva con sé uno strumento musicale. È salita con me in cabina portandosi appresso la chitarra. Chiacchierando durante il viaggio, anche per rompere il ghiaccio, abbiamo iniziato a parlare di musica. Lei pensava, dato il lavoro che svolgo, che fossi una persona da chitarra elettrica e batteria, in realtà mi sento più una persona da pianoforte e violoncello. Insomma l’apparenza inganna». Così, dietro un carrozziere imbrattato di vernice, stanco e sudato per il duro lavoro, si può nascondere un’anima dolce e appassionata, come nel caso di Maria.

Tra una raddrizzatura, una stuccatura, un carteggio e una verniciatura, la giovane professionista terteniese porta avanti anche la passione per la scrittura e la poesia con la quale, convintamente si definisce orgogliosa di se stessa:

«Orgogliosa di me. / Orgogliosa del lavoro che svolgo.
Orgogliosa di rompere tutti gli schemi imposti da questa società malsana
Orgogliosa di dire: “Si, sono una ragazza e lavoro in Carrozzeria”.
Orgogliosa di non essere mai in ordine. / Orgogliosa dei miei capelli scompigliati.
Orgogliosa di essere acqua e sapone. / Orgogliosa di sporcarmi le mani.
Orgogliosa di indossare le mie amate U-Power.
Orgogliosa di me e della voglia di imparare ogni giorno qualcosa di diverso.
Orgogliosa di crescere sempre. Ogni giorno.
Orgogliosa di puntare sempre in alto con le persone giuste al proprio fianco.
Orgogliosa di non accontentarmi mai.
Orgogliosa di conoscere cose e persone nuove che ti aiutano a migliorare sempre.
Orgogliosa di mia Madre. / Orgogliosa di mio Padre. / Orgogliosa di mia Sorella».

Emanuele Canu

Emanuele Canu, tra vibrazioni e risonanze

di Augusta Cabras.

È certo che l’esperienza lavorativa (e quindi anche umana) di Emanuele Canu non possa essere racchiusa solo nella definizione che Treccani dà di “tecnico del suono”. Scrive infatti la rinomata enciclopedia: il tecnico del suono è colui che sovrintende agli apparecchi per la captazione, la registrazione e la riproduzione dei suoni.

Una definizione asciutta, tecnica, limitata. Forse troppo. Perché dentro la vita e il lavoro che Emanuele Canu ha fatto finora – e ancora continua a fare come tecnico del suono – c’è: l’emozione di “prestare le orecchie” al pubblico scegliendo il suono migliore; la bellezza dei teatri, quella che lascia senza fiato; la potenza degli stadi gremiti di persone che cantano all’unisono; gli scenari naturali in cui l’incanto diventa esso stesso un canto meraviglioso. Ci sono poi i chilometri percorsi per raggiungere le città di tutta l’Italia, la valigia sempre in mano per le lunghe tournée fuori casa. E ancora gli incontri con artisti straordinari, insieme alla leggerezza di sentirsi comunque sempre un po’ allievo, con la voglia di sperimentare e di imparare continuamente, costantemente.

Una vita nella musica, quella di Emanuele, che fin da piccolino desiderava suonare la chitarra. Una vita nel suono, la sua, tra le vibrazioni e le risonanze.

Classe 1977, fino al diploma Emanuele vive a Tortolì, poi si trasferisce in Emilia Romagna, a Bologna, dove frequenta il DAMS che lascia dopo due anni di frequenza. A questo segue l’interesse e lo studio per la cinematografia, poi un corso come fonico. Da lì in poi è un crescendo di esperienze. «Credo di aver fatto di tutto dentro questo mestiere, dal facchino alla mansione che richiede più competenza e precisione». Emanuele non ama elencare gli artisti con cui ha lavorato, lo fa per riserbo (forse) e per umiltà (certamente). Dopo qualche insistenza riesco a farmene dire solo alcuni: sono Zarrillo, Noemi, Mannarino, Battiato, e ancora eventi in presenza del Papa o del presidente americano Bush, come nel 2006 al G6 di Venezia, in mondovisione.

Vent’anni di eventi, spettacoli e concerti. Vent’anni di lavoro intenso e appassionante. Gli chiedo se da quella posizione, che non è solo fisica ma di responsabilità, ci si può godere lo spettacolo oppure no. Emanuele un po’ mi spiazza dicendo: «Se non mi godessi lo spettacolo, non starei facendo bene il mio lavoro». Ci penso un po’ su e capisco che in effetti ciò che lui vorrebbe sentire (il suono migliore possibile) o sente, è quello che arriva alle orecchie (e al cuore) delle persone che hanno scelto quel concerto o quell’evento.

Emanuele spiega che più il livello di un concerto è alto (cantante di fama, mega produzioni, ecc.) più il ruolo del fonico si fa specifico, per cui può esserci il fonico di palco «che diventa un altro elemento della band», il fonico di sala e il fonico di messa in onda; in eventi di piccole dimensioni spesso le figure coincidono in un unico professionista che microfona, verifica, mixa e prepara gli ascolti dei musicisti. Gran bella responsabilità!

Dopo questo continuo andare di città in città, di teatro in teatro, con base stabile nelle Marche, Emanuele qualche anno fa matura il desiderio di tornare in Ogliastra, con la sua compagna e la sua terza figlia di 12 anni, Cecilia. «Dopo tanti anni avevo bisogno del ritmo di questi luoghi, di questa calma – dice –. Sono una persona che si annoia facilmente, ho bisogno di fare, di creare, di progettare e stare ad Arbatax mi fa bene. In questo momento è la dimensione giusta per me e per la mia famiglia. Mi piace l’idea che nostra figlia possa passare qui gli anni dell’adolescenza. Ci piace che possa andare a scuola a piedi, è bello che ci sia ancora questa possibilità mentre altrove, anche in paesi molto piccoli, non esiste più. Può sembrare un dettaglio da poco, ma in realtà non lo è». Emanuele mi accoglie nella sua casa. In una grande sala c’è uno studio di registrazione: mixer, microfoni, strumenti musicali, Pc. Un regno di suoni, echi, riverberi, note, dissonanze e assonanze. Un luogo di progettazione, sperimentazione, scambio, dialogo. «In Ogliastra c’è un potenziale creativo altissimo – spiega il fonico –. Serve scoprirlo, dare spazio e farlo emergere. Banalmente bisogna “fare cose”, offrire opportunità perché solitamente a una cosa ne segue sempre un’altra». Oltre al potenziale creativo, in Ogliastra c’è una natura così straordinaria che ha suggerito a Emanuele e ad alcuni suoi collaboratori di ideare un format dal titolo The Sardigna Trip, presente ancora sul canale Youtube. «Partendo da alcuni pilastri fondamentali radicati in discipline e conoscenze apparentemente distanti tra loro, come la musica, la fisica, la storia, le arti grafiche, la meccanica quantistica, lo studio dei testi sacri e delle tradizioni orali, l’astronomia e la geologia, raccontiamo come una produzione artistica possa essere influenzata e amplificata proprio dal luogo fisico e naturale in cui viene creata, grazie alla relazione vibrazionale esistente in determinati luoghi che risuonano (entrano in risonanza) con le onde e con le vibrazioni del cosmo».

Un modo nobile di intendere la musica e di fare musica. Fuori da certi schemi convenzionali e commerciali, fuori dal tempo breve di una canzone, fuori dai cliché e dai grandi cachet (come canta Dario Brunori, per essere in tema).

Pur avendo scelto Arbatax come luogo in cui vivere, Emanuele continua a fare tournée in giro per l’Italia e non solo, collaborando stabilmente con la compagnia teatrale Rosso Levante. «La dimensione del teatro mi piace moltissimo e sono felice di questa collaborazione».

Siamo certi che altri progetti artistici potranno nascere in Ogliastra anche grazie alla passione e alla bravura di un tecnico del suono che sovrintende agli apparecchi per la captazione, la registrazione e la riproduzione dei suoni. Ma non solo.

[Foto Pietro Basoccu]

 

Bittuleri

Quando la casa è un’Opera d’arte

di Fabiana Carta.

Marco Bittuleri, classe 1979, è il fondatore di Opera, azienda nata in Ogliastra nel 2009 che progetta, costruisce e ristruttura edifici utilizzando pannelli di legno che garantiscono un grado altissimo di salubrità e autosufficienza energetica, con un approccio bioclimatico

Un grande pensiero fisso, quasi un’ossessione. Il bisogno innato di progettare e costruire abitazioni, fin da bambino. Una sorta di attrazione inspiegabile lo spingeva – e lo spinge ancora oggi – a fermarsi a osservare le facciate degli edifici e le linee, a immaginare, sommare, calcolare. La differenza la fa sempre lo sguardo, di chi una scatola non è solo una scatola, se ne sovrapponi due diventano una casa, di chi nel gioco a incastro del tetris vede le proporzioni identiche alle case modulari. «Ho sempre avuto il pallino della casa, casa in quanto elemento finito. Ricordo un viaggio a Barcellona da ragazzino, con gli amici. Trascorrevo la maggior parte del tempo a scattare foto a tutti gli edifici moderni che incontravo, per me erano qualcosa di eccezionale», racconta Marco Bittuleri, 43 anni di Arzana, fondatore dell’azienda innovativa Opera. Non parliamo semplicemente d’impresa, ma del sogno di costruire qualcosa per le precise esigenze della persona, secondo principi che s’ispirano alla natura e al benessere fisico e spirituale.

La scelta della scuola superiore va verso quella direzione: Marco frequenta l’Istituto tecnico per geometri di Lanusei. «Non ero uno studente modello – precisa –, sono stato bocciato. Così per un periodo ho lasciato gli studi e ho iniziato a fare il manovale, ma ho capito che quel lavoro non mi piaceva, sentivo sempre forte il bisogno di progettare, creare qualcosa di mio. Dopo due anni sono tornato a scuola per prendermi il diploma, ho fatto le serali. La mattina andavo a lavorare nello studio di Valter Bortolin, ingegnere e mio professore di costruzioni e topografia. Con lui ho imparato a progettare. Mentre la sera studiavo». Dopo qualche anno comincia a lavorare per la Serit Lavori, azienda con sede a Roma ma operante in Sardegna nel settore dell’edilizia pubblica, dove si occupa di cantieristica e contabilità lavori, all’inizio con il ruolo di preposto di cantiere, poi di direttore tecnico di cantiere per il mercato sardo. «Ci siamo occupati anche dell’ampliamento della scuola dove ho studiato, è stato emozionante. Ma il mio chiodo fisso continuava a essere sempre lo stesso», ricorda Marco.

È dagli anni 2000 che sente parlare di case in legno e si accorge di una predisposizione del mercato verso la prefabbricazione, sfogliando riviste di settore nello studio in cui lavorava. «Quando ho iniziato a parlare della mia idea con qualcuno, in Ogliastra, nei primi tempi mi hanno preso per matto. Mi dicevano che non era percorribile, che non si sarebbe potuta realizzare mai. Poi, studiando per conto mio, ho approfondito la storia del Bauhaus, la scuola d’arte e di architettura più importante del ‘900, fondata dall’architetto Walter Gropius in Germania. Ho scoperto che la prefabbricazione esisteva già negli anni Trenta, era già un pallino di Gropius. Lì ho trovato finalmente qualcosa e qualcuno di concreto a cui ispirarmi», spiega.

Nel 2009 nasce Opera e la rivoluzione dell’abitare: le Bluehouse, edifici costruiti con pannelli di legno che garantiscono un grado altissimo di salubrità e autosufficienza energetica, progettate con un approccio bioclimatico. Da Arzana al Trentino Alto Adige, la rivoluzione green di Marco Bittuleri sta incuriosendo anche il mercato europeo e americano. La filosofia è questa: allontanarsi dall’edilizia tradizionale e dalle colate di cemento per avvicinarsi a un concetto di casa che diventa modulare, su misura, in sintonia con il contesto e con materiale totalmente sostenibili, da vivere il tempo che stiamo su questa terra. «Ho cercato di trovare la soluzione per vivere in maniera dignitosa, – spiega Marco – e dopo dovremmo avere la possibilità di poter smontare tutto e lasciare il territorio, la natura, così come l’abbiamo trovata prima di costruirci sopra. Il problema delle case invendute nei nostri paesi è proprio questo: demolirle costa una fortuna, così le persone costruiscono fuori dai paesi, e all’interno restano mezzo vuoti, con quattro gatti e case così grandi che ospiterebbero venti persone».

I concetti di bello o di brutto sono annullati, non esistono. Esiste solo ciò che funziona e che è contestualizzato nel territorio, il design diventa qualcosa che deve assolvere a una finalità precisa. La casa diventa come un’automobile, da monitorare costantemente nei consumi e nei costi, come un “tagliando”. E i costi? «Noi tutti abbiamo l’abitudine a generalizzare il costo della casa, ma il costo della casa al metro quadro non esiste, è qualcosa che si fa solo per stabilire una vendita sul mercato. Chi la costruisce non può farlo attraverso un valore di mercato. Chi sceglie una Bluehouse è perché si è approcciato alla casa con sensibilità, perché ama quella tipologia costruttiva, per l’aspetto ecologico», spiega Marco.

Oggi Opera conta un team di oltre 15 persone, vanta numerosi riconoscimenti e progetti importanti. «Mi rendo conto che non posso essere il costruttore di tutti. Ho scelto di fare questo lavoro come una scelta di vita, lo faccio a modo mio e sono sicuro che là fuori c’è qualcuno che la pensa come me: è proprio a lui che devo pensare. Sono molto orgoglioso di tutte le soddisfazioni e i successi che stiamo raggiungendo, ma so che non sarò mai arrivato. Quella che voglio realizzare è sempre la casa più “bella”, e per me è sempre quella che dovrò fare domani. Lavorare in questo settore è difficilissimo, ma devo portare avanti il mio sogno», conclude. Ecco qual era la missione di quel bambino che osservava le facciate degli edifici: tradurre le esigenze delle persone attraverso le linee, mettere insieme i numeri e il disegno.