Volti e persone
A tu per tu con Walter Maioli, musicologo
di Augusta Cabras.
Walter Maioli, 69 anni, è un ricercatore, paleorganologo, polistrumentista e compositore italiano. Specializzatosi in archeologia sperimentale si è occupato di musica dell’antichità e della preistoria. All’interno del Museo Archeologico di Paestum svolge laboratori in cui si possono utilizzare antichi strumenti sonori: pietre, fischietti di semi e in canna, sonagliere di conchiglie, maraca di zucca, bambù battenti, legni sonori, cimbali, flauti, crotali, ecc.
Raggiungo il maestro Walter Maioli al telefono. Impegnato a Paestum dove risiede da anni, mi parla subito di musica, di suoni ed emozioni, della capacità di ascoltare, dell’evoluzione (e involuzione) della musica, di strumenti musicali antichissimi, della sacralità della musica e dell’importanza della musica preistorica.
Ma perché è importante la musica della preistoria?
É importante perché alle origini abbiamo un linguaggio comune in tutto il mondo. É la storia del paleolitico; è la storia di quarantamila anni fa. Abbiamo elementi che legano tutti gli uomini sulla terra ed è importante rintracciarli. Le faccio un esempio: le conchiglie che si trovano in tutto il Mediterraneo venivano usate anche in Giappone, in India, nei templi, per i pellegrinaggi. La nostra cultura è sempre legata ad altre e conoscere il passato significa allargare i confini. Riferirci ad altre culture è importante anche in questo momento storico in cui avviene l’incontro con numerose persone provenienti da tanti paesi diversi o anche perché Internet ci permette di entrare in contatto con luoghi e culture differenti.
Che caratteristiche ha la musica della preistoria?
Nell’antichità intanto non scrivevano la musica. Non c’èra la musica scritta, non perché non ne avessero le capacità, (pensiamo agli egizi, ad esempio), ma perché la musica aveva un altro valore, il potere era nel suono, non nella melodia.
Ora invece è il contrario?
Sì. Per noi adesso la musica è nella melodia. E nel ritmo. Pensiamo alla ritmica da discoteca. È assurda. Pam, pam, pam e basta! In discoteca poi non si è riusciti a sviluppare ritmi più interessanti, eh! É una catastrofe da questo punto di vista. Si è perso tutto, il gusto dell’high fidelity. Ai miei tempi c’era l’alta fedeltà, si prendeva un bel disco, con delle belle casse, un bell’impianto, si sentiva proprio il suono. Adesso ci si accontenta di due cuffiette attaccate al computer, altoparlanti distorti, musica compressa. É un disastro!
Ci stiamo disabituando al bel suono?
Proprio così. Anche per quello che si trasmette in radio o alla televisione; la musica è sempre la stessa! Abbiamo un patrimonio di musica classica straordinario, incredibile, ma che nessuno conosce, che non esce allo scoperto. C’è poi tutto il patrimonio di musica tradizionale che è stata proibita in televisione. In Italia, forse a esclusione della musica napoletana, è sempre stata penalizzata a livelli incredibili per scelte discografiche e non solo. Negli anni ’60 la musica tradizionale conosciuta era quella di protesta; uno confondeva la canzone tradizionale con quella dei canzonieri, con quella di Giovanna Marini ad esempio, ma non si sentiva la vera musica tradizionale.
Ho letto che è stato in Sardegna e che la musica e i suoni di questa terra lo abbiano affascinato.
Sono venuto in Sardegna per la prima volta nel 1973. Tutti rimasero molto delusi perché si aspettavano un gruppo rock, mentre siamo arrivati con tutti i nostri strumenti etnici, tra cui anche il vostro scacciapensieri. Io cercavo le launeddas, chi cantasse a tenore, ma di questo allora non se ne occupava nessuno ed eravamo nel 1973. Incontrai un prete, don Giovanni Dore, prete ed etnomusicologo che studiava, faceva conoscere la musica tradizionale e poi scrisse un bellissimo libro sugli strumenti musicali. In quel periodo pubblicai in una rivista un articolo sulle launeddas, ne parlai con Angelo Branduardi, cercai di divulgare queste cose. Sulle launeddas penso che pur essendo lo strumento e il suono antico, le scale musicali siano state, con il cristianesimo, educate, togliendo i suoni più antichi.
Quando parla dei suoni intende solo quelli prodotti dagli strumenti musicali o anche quelli prodotti dalla voce?
La voce è sicuramente su un altro livello. Negli anni ʼ80 ho fatto uno studio sui canti arcaici di tante popolazioni in tutto il mondo. Ho studiato il canto prima degli strumenti musicali. Ho ascoltato il canto degli esquimesi e dei pigmei, degli abitanti della Guinea, della Polinesia, gli aborigeni australiani, e altri. Ho raccolto 48 stili di canti arcaici. Nelle Hawaii, ad esempio, cantano come le onde del mare… Il suono è straordinario.
Canti arcaici come quello a tenore.
Sì. Uno dei più arcaici.
Possiamo dire che la musica ha il primato rispetto alla parola e al pensiero?
La musica è pre-tutto. É un linguaggio archetipo immediato, reattivo. Il suono è un segnale; diamo un senso al suono, sia che sia ostile, sia che sia buono. La musica poi funziona per associazioni. É emozionale. Il mondo sonoro si ripercuote in tutti gli aspetti della vita. Purtroppo tecnicamente si è alzata la soglia di udibilità. Purtroppo siamo diventati tutti più sordi, per cui ad esempio, anche in una sala di 100 persone non parla più nessuno senza microfono. É pazzesco. La gente è sorda e non sa più parlare; perché usando il microfono hai perso la voce. Siccome io ho lavorato per 5 anni con Albertazzi, mi è venuta pure una bella voce, per cui non uso il microfono e faccio l’esempio di come nell’antichità si parlasse anche per 5000 persone solo con la voce. E faccio capire a tutti il disastro di oggi. Faccio capire soprattutto ai bambini e ai ragazzi quanto sia importante l’orecchio, l’ascolto.
E in un mondo chiassoso in cui la musica, le relazioni, i luoghi sono dominati dal rumore dobbiamo educarci al suono, ai suoni, ai micro suoni, anche del nostro corpo come il respiro, i battiti, lo scorrere del sangue; a quelli della natura: il vento, le foglie, l’acqua, gli animali. E anche al silenzio.
Axridda, il formaggio delle nostre radici
di Giuseppe Contu.
Arroccato sulle pendici di un altopiano, ai lati due corsi d’acqua e canyon tra le montagne. Nell’aria l’aroma inconfondibile della macchia mediterranea. Da queste parti diversi sono ancora i pastori che portano al pascolo pecore e capre in un territorio, quello di Escalaplano, dove brucano erbe spontanee. Così come si faceva in epoca nuragica, qui ancora si trasforma il latte in formaggio con metodi ancestrali, per poi conservarlo secondo natura.
Già due millenni or sono, Plinio il Vecchio raccontava di questa tecnica di custodia dei cibi altrove scomparsa e perfino dimenticata. Ma non qui, in questo paese della Sardegna dove si riesce a creare un equilibrio magico tra tre prodotti squisitamente autoctoni: l’argilla, l’olio di lentischio e il pecorino. Questa triade produce un risultato che rappresenta un unicum nel suo genere: su casu de axridda, sintesi perfetta dei sapori di una terra incontaminata.
Il formaggio riceve una patinatura con l’olio di lentischio cui segue un primo rivestimento con l’argilla che poi, una volta asciutta, viene riumidificata, preparandola per un secondo strato di argilla. «Ho appreso questa antica arte da mio padre e da mio nonno – racconta Rino Farci – perché in questa comunità non si è mai smesso di conservare il formaggio secondo questa modalità. Si riesce così a ottenere una salvaguardia ottimale del prodotto, ponendolo al riparo dalle elevate temperature del periodo estivo e garantendo, nel contempo, un giusto livello di umidità. Cerco di concentrare tutta la produzione nel periodo primaverile – prosegue – perché in questa stagione il pascolo è particolarmente variegato e questo assicura una singolare prelibatezza al formaggio».
Un prodotto che al palato risulta particolarmente equilibrato e piacevole, quasi piccante e con un insieme di aromi che richiamano le essenze del territorio. Può essere consumato dal secondo mese di stagionatura, tempo in cui le forme sono pronte per ricevere la particolare cappatura, fino ai due anni quando il gusto presenta caratteri decisi, pur mantenendo una consistenza ancora sufficientemente morbida.
A Escalaplano, paese a spiccata vocazione agropastorale, questa antica tradizione si è dispiegata nei secoli senza soluzione di continuità. Da qualche anno poi il formaggio axridda è ormai un PAT (prodotto agroalimentare tradizionale), inserito nell’apposito elenco istituito dal Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo. È questo un riconoscimento che viene attribuito a prodotti ottenuti con metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidati nel tempo secondo regole tradizionali. Ciò contribuisce a rendere il formaggio axridda una specialità della locale tradizione e denota la sua origine in termini di assoluta singolarità.
In paese, infatti, è possibile reperire tutti gli elementi che coesistono in queste deliziose porzioni di formaggio: il latte, l’olio di lentischio (altra eccellenza locale) e l’argilla della cava alla periferia del paese.
La consapevolezza di poter contare su un prodotto di qualità ha determinato nell’ultimo decennio il concretizzarsi di iniziative imprenditoriali assolutamente promettenti. Rino è stato uno dei primi a credere nelle positività di questa produzione che, sostiene, «potrebbe determinare una chiara occasione di sviluppo del sistema economico escalaplanese in forza delle enormi potenzialità che axridda ha di ricavarsi importanti fette di mercato».
Il riconoscimento ministeriale quale PAT permette a tutti gli operatori del paese di misurarsi con questa opportunità che rivela quanto sia possibile dare slancio a un settore cronicamente in crisi, magari diversificando la produzione e puntando a captare consumatori sempre più raffinati ed esigenti.
Questo necessità di un continuo processo evolutivo nella ricerca della migliore forma da assicurare al prodotto. Magari affiancando alla tradizionale figura del pastore altre professionalità che seguano e indirizzino il processo di produzione e di stagionatura, assicurando, nel virtuosismo della multidisciplinarietà, un processo di evoluzione qualitativa.
«Possiamo e dobbiamo crederci qui a Escalaplano – conclude Rino – abbracciando, perché i tempi lo richiedono, condotte imprenditoriale di larghe vedute che promuovano la nostra crescita. Ma per questo bisogna convincerci in primis noi, escalaplanesi, dell’unicità del prodotto e delle opportunità a esso connesse».
L’annuale sagra punta anche a questo, richiamando in paese tutti coloro che vogliono avere una conoscenza diretta del prodotto e delle fasi della lavorazione. Ma anche altre iniziative divulgative sono da incoraggiare per dare slancio a idee che potrebbero rivelarsi vincenti.
In una porzione di Sardegna che subisce la falcidia di una crisi economica difficile da affrontare, puntare sulle proprie radici e sulla specificità delle tradizioni può determinare una seria ripartenza. L’agro-alimentare di qualità, in questo caso, offre al mercato l’assoluta bontà di un prodotto, peraltro dai tratti originali, in un settore di sviluppo dove innovazione e tradizione si pongono come binomio vincente.
Nessuno possiede la bacchetta magica per proporre la ricetta anti crisi insieme all’antidoto contro il conseguente progressivo spopolamento. Ma fermarsi un attimo ad attuare una riflessione storica su noi stessi, sul quel che siamo stati e soprattutto su quel che vorremo essere, può consentire di trovare in casa nostra e nel nostro vissuto il leit-motiv di un rilancio.
Così si può individuare una risposta all’atavica questione del prezzo del latte, alla crisi pluriennale della disoccupazione e al triste fenomeno della fuga delle giovani risorse.
Alcuni passi son stati fatti anche in questa prospettiva. L’inserimento di Escalaplano tra i paesi dell’Igp Culurgionis d’Ogliastra darebbe l’opportunità di inserire una porzione di formaggio axridda nella classica ricetta, promuovendo ulteriormente il prodotto caseario.
Resta da sperare che il trend appena inaugurato si arricchisca di una costante evoluzione che diventi molto di più di una ragionevole speranza di un futuro anche qui, in questo lembo di Sardegna, nelle valli tra i due fiumi, dove l’orgoglio della propria origine e l’attaccamento alle proprie radici forse ha scoperto una via per il proprio futuro.
Lavoro ad alta quota
di Fabiana Carta.
Una vita come quella di tanti ragazzi: un diploma di maturità in ragioneria, l’iscrizione all’Università di Cagliari in Scienze politiche con indirizzo “Relazioni internazionali”, spinto dalla passione per la geografia e dalla curiosità per le culture diverse dalla nostra.
Succede spesso, soprattutto ai giovani, di vivere dei momenti di insoddisfazione generale, nei quali non si riesce più a trovare degli stimoli, a trovare l’ispirazione, la voglia di proseguire il progetto che ci eravamo prefissati. E allora abbiamo due strade: una è quella di continuare comunque quello che avevamo iniziato. Non lasciare il sentiero, un po’ per mancanza di coraggio, un po’ per la paura di cambiare, un po’ per comodità o speranza di ritrovare la motivazione. L’altra strada non è per tutti, è per gli audaci, è per quelli che non si accontentano e che credono nei sogni.
Claudio Deidda, classe 1988, sceglie la seconda. «Era il 2015, avevo bisogno di dare una svolta alla mia vita, che era diventata piatta e noiosa. Il mio desiderio era quello di intraprendere la carriera di assistente di volo». Liberatosi dal legame forte con la sua terra, Tortolì, e vinta la paura di partire all’estero per un eventuale lavoro, decide di trasferirsi per tre mesi in Inghilterra per frequentare un corso d’inglese, lingua che ama molto. Così lascia la sua Itaca. «Quando ero bambino ricordo che andavo insieme a mio padre a vedere gli aerei all’aeroporto di Tortoli, poi mi portava al porto di Arbatax a vedere le navi, amavo anche i treni e i pullman. Una passione per tutti i mezzi di trasporto!». Le passioni dell’infanzia ritornano sempre, prepotentemente.
Nel febbraio 2016 rientra in Ogliastra e un mese dopo decide di affrontare due colloqui, i cosiddetti open day, uno a Venezia con la compagnia aerea spagnola Vueling e uno a Cagliari con Ryanair. Quest’ultimo va molto bene, tant’è che il giorno dopo il suo compleanno Claudio riceve un bel regalo, una mail della compagnia con esito positivo. Inizia la sua avventura con il trasferimento a Roma per frequentare il corso preparatorio intensivo della durata di sei settimane, rigorosamente in inglese, tutti i giorni dalle 9 alle 18 e sempre in abbigliamento super formale. Finito il corso si trasferisce a Londra Stansted, aeroporto principale di Ryanair. «Sembrava tutto bello e perfetto, ma poi sono iniziate le prime difficoltà. Mi sono ritrovato in Inghilterra senza una casa dove stare, insieme ad altri colleghi abbiamo vissuto in albergo, ricordo che eravamo in cinque in una stanza tripla per 14 giorni. Dopodiché ho trovato una stanza con altri colleghi, ma solo per il periodo estivo. Dal primo settembre ho iniziato di nuovo a vagabondare, ospite di altri colleghi, dormivo su un divano in quanto non riuscivo a trovare una sistemazione decente. Per di più anche il lavoro non era come avevo sognato: turni massacranti, stipendi bassi e ambiente lavorativo pessimo (esclusi i colleghi che oggi posso definire amici). Così a novembre ho deciso di lasciare il lavoro e l’Inghilterra in attesa di qualche nuova chiamata».
Tornato in Sardegna Claudio svolge altre attività, sempre con la speranza di ricevere proposte da altre compagnie aeree. Dopo sette mesi arriva la chiamata di Blue Panorama, compagnia italiana a cui aveva fatto richiesta di colloquio quasi un anno prima e riesce a ottenere un contratto fino alla fine della stagione. «Ero al settimo cielo, inizio a “volare” e finalmente per la prima volta mi sento un assistente di volo. Viaggi intercontinentali come Cuba e Kenya, Germania e altre città italiane, notti in albergo a 4/5 stelle con colazione, niente di più bello».
Comincia una vita in viaggio, finalmente lontano da tutto quello che gli stava stretto, assapora gli aspetti positivi di questo nuovo lavoro come incontrare e conoscere ogni giorno persone nuove provenienti da ogni parte del mondo e ascoltare anche i problemi dei passeggeri, cercando di aiutarli nel limite delle possibilità. Durante questi mesi arriva una nuova proposta da una compagnia aerea con base ad Alghero e Claudio, da buon sardo, sentendo il richiamo e la mancanza della sua terra, rientra a casa con il lavoro dei suoi sogni. «Mi sentivo l’uomo più fortunato del mondo. Purtroppo, però, la compagnia è finita in mezzo ai soliti problemi burocratici italiani, per cui mi sono ritrovato con orari dimezzati e stipendi dimezzati e con tanto tempo libero ad Alghero nel periodo invernale, che mi ha portato a stringere amicizia con i miei colleghi che a oggi sono tra i miei migliori amici, tra cui Sara, conosciuta in mezzo a questi “problemi” e che è diventata la mia compagna, sostenendomi nelle scelte e nelle difficoltà».
La vita di Claudio passa dalla tranquillità e monotonia iniziale dovuta a casa – studio – casa, con qualche lavoro poco stimolante, a un nuovo lavoro che lo ha travolto, facendogli cambiare in soli tre anni quattro compagnie aeree e cinque città dove vivere. Attualmente lavora per una compagnia con sede in Sicilia; come responsabile di cabina di un aereo con 70 posti che effettua i collegamenti tra Palermo e le due isole di Pantelleria e Lampedusa. «Per poter fare questo lavoro, come penso per tutti, ci vogliono tanti sacrifici anche perché al 99% devi andare via da casa, lasciare tutto e partire. E anche quando credi di essere tornato a casa con il tuo lavoro all’improvviso potresti ricevere un’altra proposta, dovendo abbandonare tutto e andare via di nuovo. Fare l’assistente di volo non è sempre il lavoro dei sogni come viene descritto, perché giriamo il mondo. A volte negli aeroporti restiamo solo mezz’ora, sbarchiamo, rimbarchiamo e partiamo!». Un lavoro adatto a chi ha spirito di adattamento e un «pizzico di pazzia», si vive in viaggio, in tutti i sensi, come lavoro e metafora di conoscenza.
Mi confida di ritenersi fortunato perché in così breve tempo, grazie alla sua carriera, ha iniziato a togliersi delle soddisfazioni senza che nessuno gli abbia mai regalato nulla, potendo contare sempre sul sostegno della famiglia e della sua compagna. Prima di salutarci gli chiedo come si vede nel futuro: «Non so se questo sarà il lavoro per tutta la mia vita, ma ad oggi non mi vedo da nessun’altra parte se non su un aereo. Anche se non nego che un giorno vorrei tornare a lavorare in Sardegna», come un Ulisse moderno. Se cerchi la tua strada verso Itaca spera in un viaggio lungo, avventuroso e pieno di scoperte. I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli, non temere l’ira di Poseidone. Pensa a Itaca, sempre, il tuo destino ti ci porterà.
Benvenuti a bordo!
di Augusta Cabras.
Emanuele Becchia vive e lavora in equilibrio perfetto con il ritmo delle onde del mare, con la loro potenza e la loro grazia, in navi che assumono sempre di più le sembianze di casa.
26 anni appena compiuti, dal 2015 lavora a bordo delle navi, coronando un sogno di bambino. «La passione per le navi è dentro di me sin dalla tenera età. Con la mia famiglia, ad agosto, andavamo a trovare i miei zii ad Olbia per circa due settimane. In questo breve periodo, grazie a mio zio che lavorava come barista alla stazione marittima, avevo la possibilità di stare a stretto contatto con le navi. Mi innamorai. Per me non esisteva pomeriggio migliore di quello trascorso in porto a vedere navi che arrivavano e partivano. Mia madre, ancora oggi, ricorda con quale attenzione cercavo di memorizzare qualsiasi dettaglio di quei bestioni che mi sfrecciavano davanti. Il mio unico strumento didattico erano i depliant pubblicitari delle varie compagnie: da questi potevo imparare lunghezza, larghezza, capienza e velocità di ogni singola nave. Essendo nato e cresciuto a Ussassai, quindi lontano dai più affollati porti sardi, la mia passione era destinata ad affievolirsi. Invece no, per tutto il periodo scolastico, ossessionavi amici e parenti con i racconti sulle mie navi».
Ma si sa, il sogno non basta. Ci vuole determinazione, studio, impegno, sacrificio e pazienza, tutti elementi che Emanuele mescola ed esercita per arrivare al traguardo. È certo che lì, in quelle navi che da bambino sembravano ancora più grandi, vuole impegnare le sue energie, le sue capacità, la sua voglia di scoprire e sperimentare.
Perché, se da un lato, vivere costantemente lontani da casa, genera una nostalgia profonda per la terra e gli affetti che lasci, dall’altra ogni viaggio diventa una scoperta, in ogni traversata c’è un mondo nuovo che si rivela nelle sue innumerevoli pieghe, nei suoni di linguaggi e parlate sconosciute e affascinanti, nei sapori dei cibi, negli odori che impregnano l’aria, nei mille e mille volti che si incontrano sopra la nave e nella terra ferma, quando il gigante del mare si riposa e con lui coloro che la abitano. «La vita a bordo non è sicuramente semplice – ammette Emanuele –. Tanti mesi lontano da casa e tanto lavoro creano in noi marittimi una nostalgia costante della vita che abbiamo lasciato a terra. Tante volte mi fermo a pensare che dall’età di 22 anni, quando la mia carriera è iniziata, ho passato con la mia famiglia e i miei amici circa un quarto del tempo che avrei potuto passare con loro lavorando a terra. Subito dopo però, penso che il punto focale della questione sia proprio la decisione di voler fare questo lavoro: non è capitato, non è un ripiego, ho semplicemente scelto di farlo. L’ho tanto desiderato, l’ho ottenuto e l’ho scelto. La vita mi offre sempre qualcosa di nuovo. Una nuova destinazione, nuovi amici, nuove esperienze. Quando sono a casa, invece, penso solo a ricaricarmi un po’. I miei amici di una vita sono sempre lì ad aspettarmi, pronti a raccontarmi tutto quello che mi sono perso delle loro vite in questi mesi di lontananza. Le due colonne portanti della mia vita, mia madre e mia sorella, sono sempre pronte ad accogliermi a braccia aperte a ogni mio rientro, come se ogni volta fosse la prima. Quando parto, invece, un pezzo di me rimane sempre con loro». Il momento del distacco dalle persone care per Emanuele è sempre un momento di tristezza che lentamente passa quando si re-immerge nel lavoro, nel viaggio, nella conoscenza di tante nuove persone che nel tempo di una traversata o di un’intera vacanza vogliono stare bene.
Ma quale è stato il percorso di studio compiuto da Emanuele per arrivare a fare questo lavoro per lui così appassionante? «Dopo la laurea in Economia e management del turismo a Olbia ho partecipato a una selezione per un corso post-universitario in tema turistico. Poco prima dell’esame finale ho avuto modo di partecipare a un breve training su una nave da/per la Sardegna, la stessa nella quale mi sarei imbarcato qualche mese dopo per dare inizio alla mia carriera a bordo. Ho seguito poi dei corsi pre-imbarco, fortemente mirati a mantenere un alto livello di sicurezza a bordo. Dopo stage e colloquio di lavoro, finalmente ho iniziato a lavorare nella prima nave che per me è stata il Moby Wonder. Ero imbarcato come Assistente Commissario, quindi la mia principale mansione prevedeva un diretto rapporto con il passeggero. Presidiavo la reception, dedicandomi all’accoglienza del cliente a bordo e alla sua completa assistenza. Mi occupavo della tenuta della contabilità dei locali commerciali, della gestione delle documentazioni equipaggio per ogni imbarco e sbarco (sezione camera e cucina), gestione buoni di lavoro e manutenzione delle aree passeggeri, annunci via interfono, nonché tutto ciò che riguarda l’assistenza al Commissario nello svolgimento delle sue principali funzioni. Dopo qualche anno ho deciso di lanciarmi in un’esperienza sulle navi da crociera; così mi sono catapultato in Asia, dove sono stato impegnato in crociere di circa cinque giorni tra Cina, Giappone e Taiwan. In quel periodo facevo parte del dipartimento Inventory; insomma, mi occupavo della misurazione e dell’analisi delle performance alberghiere, quindi controllo dei costi (Hotel & Food cost) e cura dei budget assegnati a ogni dipartimento alberghiero a bordo. Dopo questa fantastica esperienza, sono tornato in Moby da Commissario, con il compito di gestire il dipartimento alberghiero della nave posizionata in Nord Europa, Princess Anastasia». Per incontrare Emanuele in questo periodo dovremmo fare una crociera tra San Pietroburgo, Helsinki, Stoccolma e Tallinn. Lo troveremmo occupato nella direzione del dipartimento Hotel, dai ristoranti ai bar, dalle cabine alla Spa, dal Casinò alla discoteca, dalla cucina alla cambusa, dal Duty Free shop alla reception, impegnato a rendere indimenticabile la vacanza in crociera.
L’arte? Un eterno gioco di segni
di Claudia Carta.
Tutto ciò che non hai mai visto. Meglio, tutto ciò che credevi di vedere, per poi scoprire che la realtà (presunta, pensata, immaginata, vista) è cosa altra rispetto a quella che i tuoi occhi ti rimandano. Chiaro? Se la risposta è no, allora la strada è quella giusta e possiamo provare ad avvicinarci al Casula-pensiero per godere della meraviglia che ci regala a ogni click di mouse.
Geniale è riduttivo. Eclettico e poliedrico? Ci può stare. Ma la definizione migliore dell’artista seulese, classe 1931, ce la regala lui stesso: «Sperimentatore». Perché? «Mi piace controllare cosa succede se faccio il contrario di ciò che sembra normale». Non male come inizio.
Niente pennelli o tele – quelli li ha lasciati da parte almeno trent’anni fa – niente di appeso al muro – avete presente i quadri? –, ma solo tastiera e monitor. Attenti bene, il computer crea l’opera d’arte. Dunque, la tecnologia intesa come strumento e linguaggio utilizzato liberamente e in modo non banale. L’artista si interfaccia con esso e via via che l’opera prende forma, la mente umana ne acquista consapevolezza. Non è poco. È tutto. Il resto lo fanno i software, i programmi che possono essere bidimensionali o tridimensionali. Nascono da qui i cortronici 2D e 3D, molto più di semplici video. Che nomi! Eppure ogni cosa, anche i neologismi coniati da Casula, hanno un senso.
È stato il poeta visivo Gianni Toti a definirlo un “pittronico”, un pittore elettronico. E l’artista ogliastrino è abilissimo a giocare con immagini, colori e suoni, figuriamoci con le parole.
Il punto di partenza di questo viaggio costante fra reale e virtuale risponde a un altro nome particolare: le diafanie. «Sono immagini realizzate al computer – spiega – fotografate come appaiono sul monitor e proiettate alternativamente, in forma di diapositive, da due proiettori che le sovrappongono nello stesso spazio, separandole una dall’altra, attraverso dissolvenze incrociate. I proiettori sono governati da una centralina elettronica che decide la sostituzione delle diapositive e la lunghezza delle dissolvenze, oltre che lo scorrere della musica. Si tratta di una tecnologia ormai obsoleta, essendo sparite sia le diapositive che i proiettori».
Con i cortronici, i cortometraggi elettronici, il passo avanti è grande: la direzione è quella che va verso il cinema astratto, dal momento che di video astratti si parla. Da vedere e da ascoltare.
E le nostre certezze? I nostri punti di riferimento? «L’arte è meglio che tolga le certezze o, meglio, che le metta in dubbio. Quanto ai punti di riferimento, si tratta di valori importanti della vita, anche quando ritenuti stabili e inalienabili. Anche nei loro confronti, è bene che l’arte inserisca dei dubbi. Anche se non sempre l’arte può dirsene responsabile, le radici dei grandi sommovimenti sociali della storia affondavano nell’humus del dubbio».
E cosa sia l’arte, il pittronico ogliastrino prova a farcelo capire: «L’arte è un gioco che si esegue con l’uso libero dei segni (parole, immagini, suoni, gesti…). I segni sono qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, ma non sono la cosa di cui stanno al posto: la parola “penna”, che è un segno verbale, sta al posto della cosa “penna”. Con la parola “penna”, non posso tracciare segni sulla carta, mentre posso farlo con la cosa “penna”, Infatti, Cose e Segni sono governate da regole diverse. Per dirne un’altra: se prendo un ferro da stiro (cosa) e lo immergo in una vasca da bagno piena d’acqua, esso affonda (regola della gravità); se dipingo un ferro da stiro (segno) immerso in una vasca da bagno piena d’acqua, nessuno mi vieta di farlo galleggiare. Estendendo l’esempio al vasto mondo delle idee, questo significa uso libero dei segni».
“Il libro dei segni”; “Tra vedere e non vedere”; “Una festa per gli occhi. L’avventura di un artista che guardava nel buio”, alcuni dei suoi libri. Un modo, il suo, di guardare/vedere l’arte influenzato indubbiamente dal complesso problema alla vista, risolto a 33 anni: «Quando il mio visus era tanto scarso che solo portando gli oggetti a portata di naso ero in grado di vederli nitidamente – racconta – ero in grado di cogliere ogni dettaglio nelle fotografie che mio padre scattava nei luoghi e alle persone della Barbagia. Questo mi permetteva di proiettare mentalmente le immagini di quei luoghi, nei luoghi che mio padre aveva fissato nelle sue fotografie e di vedere quei luoghi, quando li avevo davanti, come se fossero quei luoghi veri, anche se non li vedevo realmente, essendo proiezioni mentali. Diciamo che le immagini nascono dalle immagini come le parole nascono dalle parole. Per questo motivo, anche quando guardavo nel buio, riuscivo a dipingere. Va da sé che, dopo i due interventi chirurgici agli occhi, il mio apprendistato di neo vedente, unito agli studi della psicologia della percezione, hanno affinato i processi semiotici del mio lavoro d’artista».
26 anni di scuola elementare. Il maestro Tonino vive interamente nell’artista Casula: «Sì, è cosi: quando imparo qualcosa, non vedo l’ora di raccontarlo a tutti, anche se non sono più bambini e anche se non hanno voglia di ascoltarmi». L’arte dell’ottantasettenne seulese affascina i nativi digitali: «Purtroppo, non sempre sono in grado di rispondere alle loro domande su problemi tecnici, essendo i nativi più scaltri di me».
Arte e scienza, musica e pittura, percezione visiva e sperimentazioni. L’universo di Tonino Casula è in continuo divenire. Anche il futuro è arte.
Viaggiare per vivere
di Bruno Mulas.
Al di là della dotta definizione che ne dà il dizionario italiano, il viaggiare appartiene a molteplici attività del genere umano. Si viaggia con un mezzo di trasporto, pedibus calcantibus, si viaggia con la mente, leggendo, scrivendo, sognando…
Si viaggia per diletto, per passione, perché così fan tutti. Si viaggia per sfuggire alle guerre e alle persecuzioni. Si viaggia per lavoro, per vivere. Sì… viaggiare per vivere. È un’attività che richiama alla mente figure mitiche che hanno sollecitato la fantasia di generazioni di bambini e no. Il pilota d’aereo, il comandante della nave, il macchinista del treno, il commesso viaggiatore.
Forse non così presente nelle fantasie fanciullesche ma da ascrivere, a pieno titolo, alla categoria, il tassista, quello proprio tipico delle città e quello che per alcuni è considerato il cugino di campagna, cioè (tecnicamente) il titolare di autonoleggio da rimessa con conducente.
Figura presente in quasi tutti i paesi e piccole cittadine. Anche a Ulassai. È vivissimo il ricordo degli storici tassisti, ormai in pensione. Fantastici personaggi che hanno trasportato generazioni di compaesani, chi per Cagliari, chi per Nuoro. Oggi il nostro tassista è un giovane e aitante ventottenne, Luigi Greco, che accetta volentieri di scambiare quattro chiacchiere. Lo conosco da qualche anno, per via delle frequentazioni calcistiche e per le pastoie burocratiche dell’attività. Lo ricordavo taciturno e riservato. Nell’immaginario collettivo, come conferma Luigi, questa parrebbe un’attività semplice e banale, riservata magari a persone che non hanno avuto altra chance, da uomo di fatica. Mettersi a disposizione delle esigenze dei passeggeri e per tantissime ore ogni giorno, durante il vero e proprio viaggio e nell’organizzarlo, nella cura del mezzo e dei dettagli. Tutti i giorni tanti chilometri, nel caso di Luigi più di 80.000 all’anno, due volte la circonferenza della Terra. Alzarsi sempre molto presto e partire anche quando non è al top. Che fatica. Semplice e banale? No. Per Luigi non lo è. Perché questo lavoro gli piace.
È un lavoro di grande responsabilità perché quando sale a bordo del mezzo ne diventa il comandante con le prerogative proprie e assume in sé l’onere della sicurezza dei passeggeri, del loro confort, della puntualità. A bordo non può distrarsi, deve ascoltare attentamente e calibrare il suo parlare rispetto al passeggero, perché può essere giovane o anziano, studente o lavoratore, in partenza per un viaggio di piacere o accingersi a un viaggio della speranza. Deve capire le situazioni e addentrarsi nella psicologia del passeggero. Personalizzare il viaggio di ognuno assecondando le svariate esigenze, spingendosi a funzionare da radiosveglia per i più pigri.
«Questo mestiere mi piace, mi ha insegnato tanto, ha spalancato le porte dei rapporti interpersonali.
Quando sono arrivato qui, al seguito della mia fidanzata Fabiola, conoscevo praticamente nessuno. Oggi, passeggiando per le vie del paese, lei si stupisce perché mi fermo a parlare con tutti».
Magia del viaggiare.