Volti e persone
Luce antica
di Bruno Mulas.
Percorrendo le strade del paese, sino a non più di cinquant’anni fa, ci si imbatteva in straordinari personaggi che, senza insegne e senza vetrine, portavano avanti singolari attività, oggi solo nei ricordi di chi ha vissuto quei tempi.
Tanto per citarne una delle più emblematiche, se le tue scarpe tendevano a sbadigliare o lasciavano filtrare l’acqua delle prime piogge potevi ricorrere al calzolaio, a due passi da casa. Ancora sconosciuto il regime dell’usa e getta, perché le scarpe quelle erano e quegli anni dovevano durare.
Un’attività ormai rimossa dall’immaginario collettivo, in bilico tra arte e mestiere, era quella del fabbricante di candele.
Nel passare in via San Sebastiano, a Ulassai, vieni attratto da una vetrina che fa intravedere una locandina, magari con su scritto Oggi Pardulas. Se entri, o soltanto osservi attentamente, ti accorgi di una serie di candele di varia grandezza e variamente istoriate, che fanno bella mostra di sé su una parete del locale.
Ogni qualvolta passo di lì mi tornano alla mente zio Giuseppe e zia Silvia, primi anni Sessanta, quando abitavano nella casa posta in Su Porci. Un profumo intenso di miele caldo che stordiva, la luce fioca del magazzino, il calderone sul fuoco a squagliare la cera d’api e loro, col mestolo, a scolare la cera fusa sugli stoppini appesi a un robusto bastone di corbezzolo.
Maria Depau, 29 anni, un compagno e due figli, è la titolare del Mani in pasta, laboratorio artigianale di pasta fresca ed è nipote d’arte. L’attività ereditata dai nonni materni, Giuseppe e Silvia, l’ha raccolta non per mestiere, ma per passione. Perché, come spiega Maria, non è un mestiere che ti possa dare da vivere. E allora? «Allora lo devo fare, è più forte di me. Non posso abbandonare all’oblio questa storia che ha accompagnato la vita dei miei nonni e, prima ancora, di mio bisnonno Pietro».
Spiega ancora Maria che, nonostante l’impegno gravoso della sua attività artigianale, che svolge nel rispetto della tradizione culinaria ulassese, si ritaglia il tempo per conservare la sapienza di un’attività unica, destinata altrimenti a scomparire. Ha chiesto con forza, prima a sua nonna e poi a sua madre, di entrare nel ristretto cerchio dei detentori delle tecniche di lavorazione di questo prodotto. Con la curiosità, la pazienza e quella passione che non la lascia in pace, si impadronisce del mestiere e adesso sa, ne può parlare e spiegare di cosa si tratta.
Il prodotto finito della candela o del cero è l’ultimo anello di una filiera naturale. Si parte dalle api: suo nonno le allevava, suo padre e il compagno le allevano. Le api producono il miele, ma anche un sottoprodotto utile all’attività, la cera.
Tradizione familiare vuole che il miele venga utilizzato, in gran parte, per produrre il torrone, quello giallo ambrato e profumato, non quello commerciale, bianco candido che sa di zucchero. Poi la cera, ripulita dalle scorie, viene fusa in un calderone e con la pazienza e la tecnica, affinata in oltre un secolo di attività, vengono alla luce le candele, i ceri e altri prodotti particolari che vengono, di volta in volta, commissionati. Ma chi commissiona questi prodotti? «Quasi esclusivamente i fedeli che si accingono a celebrare le funzioni ricorrenti nella vita di un cristiano cattolico – spiega la giovane artigiana ulassese – nello specifico il battesimo e il matrimonio. Fino a qualche tempo fa anche in occasione delle funzioni funebri. C’è chi li utilizza più semplicemente come ex voto. Attualmente le comunità di Ulassai e Perdasdefogu sono quelle più legate a queste pratiche. Ultimamente, forse per la mia abitudine di esporle nel laboratorio artigianale, vengono richieste anche da qualche turista per arredo o collezione».
Una passione che restituisce a Maria valori e gratificazioni profonde: «Ritrovo principalmente il senso dell’appartenenza, il senso della famiglia. Mi spiego. Mi fa sentire parte di una scuola di vita dedicata alle cose genuine, lavorate con sudore e dignità, rispettando i cicli naturali, senza forzature.
C’è poi il godere dei legami di discendenza da persone che, anche in tempi bui, hanno tenuto viva questa passione per poi consegnarla a me. Ancora, il sentirmi responsabile di un lascito spirituale importante: trasmettere alle generazioni future i ritmi lenti del lavoro artigianale e l’amore per le cose semplici, fatte a mano, così come mi è stato insegnato. Infine, la soddisfazione di fare qualcosa che mi piace e che appaga l’esigenza di creare con le mie mani».
Maria dissimula, ma è emozionata, perfettamente capace di trasmettere a chi la ascolta e la osserva lavorare, la sincera passione che la guida, descrivendo nei particolari i passaggi della lavorazione. Mi informa, ad esempio, del fatto che le candele venivano arricchite con una sottilissima fettuccia di carta dorata, “s’indoru”, non più reperibile in commercio. Maria oggi interviene su ogni pezzo, eseguendo un delicato disegno con lo smalto. Ne ho visti di bellissimi.
Forse vorrebbe dirmi di quante volte ha accompagnato sua nonna e sua madre alle feste paesane per la vendita dei ceri e delle candele e dell’atmosfera che si respirava. Di quando, alla prima assenza della nonna, all’ingresso di settentrione della Chiesa campestre di Santa Barbara, le persone si commuovevano. O del tributo offerto alla nonna dai foghesini, in Piazza della Longevità, con la sua effigie nell’atto di vendere i ceri in via Roma, in occasione dei festeggiamenti del SS. Salvatore, davanti al portone di casa degli amici Cabitza.
Da questi ricordi emana una luce particolare. Una luce antica che scalda il cuore.
Legàmi di sangue e di arte
di Fabiana Carta.
Due temperamenti diversi ma un’unica passione: dipingere. Raffaela e Angela Deiana, nate ad Arzana a un anno e mezzo di distanza, sono due sorelle profondamente unite dall’amore per l’arte. Come su un treno a unico binario, da sempre viaggiano insieme dentro questo mondo fatto di tecniche, colori e scoperte, condividendo ogni esperienza: mostre collettive, concorsi, estemporanee, murales, lavori privati. «Abbiamo sempre scarabocchiato qua e là, per fortuna abbiamo sempre avuto l’appoggio della nostra famiglia. Nostro padre aveva 91 anni quando ci ha lasciato, ma nonostante l’età mostrava ancora interesse per la nostra passione», mi confessa Angela. Raffaela ricorda di essere stata una bambina a cui piaceva tanto disegnare, ma non avrebbe mai pensato che da grande si sarebbe dedicata all’arte, il coinvolgimento si è sviluppato col tempo. Entrambe decidono di frequentare l’Istituto d’Arte di Lanusei, con qualche prima delusione, come mi racconta Angela: «Questa scuola ha lasciato un po’ insoddisfatte le nostre aspettative: mi aspettavo delle basi in più di disegno, per esempio. E infatti ho abbandonato prima di terminarla». Mentre Raffaela prosegue i suoi studi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, diventando poi docente di Educazione Artistica, Angela continua a dipingere per conto suo, a cercare di migliorarsi, con periodi lunghissimi di pausa. Una spiccata sensibilità muove le corde della loro produzione artistica, le muove o le ferma, il gioco è così. «Le delusioni sul percorso sono state tante. A volte ti contattano dei galleristi che poi si rivelano interessati solo ai soldi, oppure capita di partecipare a delle estemporanee o concorsi in cui ciò che conta è solo emergere, con tutti i mezzi possibili» – come tagli sulla tela, le ferite restano e influenzano l’attività artistica fino a bloccarla –. Mi rendo conto che avremmo dovuto usare questa delusioni come stimolo… ma avendo un carattere molto sensibile ci facciamo i conti. Dall’ultima grande delusione di qualche anno fa non abbiamo più prodotto niente, a parte piccole cose, ma da quest’anno ci siamo incoraggiate a vicenda e abbiamo nuovi obiettivi».
Un anno di sperimentazioni e nuovi incontri che hanno riacceso la fiammella. Il corso frequentato con il pittore Salvatore Sanneris, il quale ha collaborato, fra gli altri, con Pinuccio Sciola, ha ridato anima all’ispirazione delle due sorelle. Angela me ne parla con grande trasporto: «Per me Salvatore può essere definito artista per eccellenza, riusciva a vedere mille colori dove noi potevamo vederne solo uno. Mi colpisce la luce, il modo in cui ne parla. Mi avevano raccontato di un suo lavoro, ricordo ancora l’emozione che mi aveva trasmesso. Forse più di un Caravaggio». Alla mia faccia stupita risponde così: «Sì, perché l’artista ce l’avevo davanti, e poi ero ferma da tanto tempo e vedere quel lavoro ha smosso in me qualcosa».
Sono tante le persone che hanno contribuito alla loro crescita personale e artistica, in particolare il pittore fiorentino Mario Ramazzotti, il pittore ogliastrino Mario Virdis e l’incontro con l’insegnante e critica d’arte Domenica Sanciuma, ma non è da tralasciare il grande sostegno della famiglia e di un gruppo di amici con i quali condividono nuove idee e sperimentano nuove tecniche.
I temperamenti così diversi di Angela e Raffaela si riflettono anche nei loro lavori: la prima predilige i paesaggi, la natura incontaminata e armoniosa, la delicatezza e la trasparenza dell’acquerello, che ricordano a tratti l’arte romantica; la seconda ha chiaramente dei richiami ai movimenti artistici d’avanguardia, come il surrealismo. Ho la fortuna di vedere qualche opera, sia dal vivo che rappresentata in due manuali, e le sensazioni sono contrastanti. Se da una parte c’è la tranquillità di un paesaggio, l’istante, il momento di una giornata impresso con pennellate leggere, dall’altra ci sono accostamenti arditi di oggetti, c’è la vertigine, l’incomprensione, la provocazione, l’oppressione. Sensazioni certamente volute, studiate, ricercate da Raffaela. “Il primo merito di un dipinto è essere una festa per gli occhi”, diceva Delacroix, in pieno clima romantico ottocentesco, mentre un secolo dopo René Magritte sosteneva che “il primo merito di un dipinto è suscitare un dubbio”. E allora, se Magritte è l’artista preferito di Raffaela, vorrà pur dire qualcosa?
Si parla di definizione di arte e di artisti, sempre molto soggettive: «Artista è colui che crea con passione, perché ci arriva con un ragionamento, con sensibilità»; si parla di interpretazioni, di opere come pezzi di vita: «Quando vendo un lavoro poi sento il vuoto, un pezzo di me che va via».
Mi parlano delle loro due figlie: quella di Raffaela ha tre anni; mentre quella di Angela otto; si inteneriscono. Piccole artiste in erba, a cui tentano di trasmettere tutta la loro passione, principalmente il disegno con l’acquerello: «Perché non sporca! – mi dicono ridendo –. Sono molto incuriosite, mia figlia ormai vuole usare i miei colori. Dai tempi della scuola materna avevo già notato che disegnava in modo diverso rispetto agli altri bambini, usava gli strumenti con garbo e dai gesti imitava me», racconta Angela.
Chissà, in futuro una collettiva con le loro bambine sarebbe un bel sogno.
[Ph by Pietro Basoccu]
Il restauratore di tesori
di Claudia Carta.
«L’arte è un concetto troppo grande per poterlo ridurre a specifici settori». Determinato, consapevole delle sue capacità, critico e realista, Lussorio Daniele Caredda è uno che sa il fatto suo, che non smette di studiare e formarsi e neppure di sognare.
Dategli un pennello e vi restaurerà il mondo. Ma se gli portate un pianoforte e potrà suonarlo, sarà felice. Lussorio Daniele Caredda è un professionista poliedrico e ne va fiero: «Si, me lo hanno sempre riconosciuto e col passare degli anni lo sono diventato ancora di più. Mi piace studiare, documentarmi, imparare in continuazione senza fossilizzarmi. Purtroppo il tempo a disposizione è pochissimo, ma continuo a dipingere, a suonare il pianoforte e a coltivare tante altre passioni che non sempre oggi giorno tutti trovano interessanti. Non sono tanti i giovani che si appassionano di storia, di arte, di antichità: m ritrovo, infatti, ad avere colleghi e amici molto più grandi di me».
Il ragazzo, classe 1982, lotzoraese doc, ha le idee chiare: «Credo che un artista debba saper fare tutto. Musica, antiquariato, pittura, scultura sono come parole all’interno di una frase: se ne mancasse una, il discorso non sarebbe mai completo e tantomeno comprensibile».
Dall’Artistico di Lanusei, “classe Ceramica”, alle più famose botteghe di Firenze. Di mezzo c’è il mare, ma l’ambizione lo spinge verso mete e traguardi di autentica bellezza, mentre le sue dita non smettono di danzare sul pianoforte. Così, dopo la maturità si trasferisce nella culla del Rinascimento: accademia di belle arti, indirizzo più completo, decorazione, dove studia anche restauro e contemporaneamente lavora già come antiquario e restauratore. Si laurea con il massimo dei voti in una tesi impegnativa che tesse insieme i differenti indirizzi artistici: il risultato è una straordinaria sfilata di moda e costume per lo spettacolo.
Il lavoro arriva immediatamente: prima Roma, come antiquario, poi “uno dei più grandi cantieri d’Europa”, «così viene definita L’Aquila dopo il terremoto – mi spiega Daniele – dove lavorano ditte edili molto esperte e qualificate, operai e professionisti del restauro, dell’ingegneria e dell’architettura continuamente aggiornati e con bagagli esperienziali importanti». È qui che, tramite una selezione di restauratori esperti, viene contattato e lavorerà per sette anni, mettendo mano a un patrimonio storico-artistico dal valore inestimabile: «Ho arricchito le mie conoscenze e affinato le mie capacità applicando al restauro i sistemi antisismici, eseguendo lavori complessi nel settore architettonico, ricostruendo volte, facciate, apparati architettonici decorativi molto imponenti. Tra l’altro, ho potuto arricchire e perfezionare le mie competenze di restauratore in tutti i settori: ligneo-lapideo-pittorico. La mia passione per la musica mi ha agevolato anche nei lavori di restauro degli antichi pianoforti, settore, questo, assai raro e singolare».
Il seguito è un susseguirsi di contatti e di esperienze lavorative da brividi: dai restauri berniniani del colonnato di Piazza San Pietro in Vaticano, a quelli del Museo Nazionale romano; dall’intero chiostro Ludovisi alle terme di Diocleziano e alle statue di Marte e Venere, Caracalla giovane, e Antino, oltre ad alcune epigrafi del terzo secolo d.C., passando per il complesso archeologico del Palatino, il Quirinale, San Crisogono in Trastevere e l’elenco potrebbe continuare.
Lussorio non si ferma mai e trova anche il tempo di tornare a Firenze, dalla Città eterna, e prendere la seconda laurea, con Lode, in Progettazione museale: la tesi – dedicata alla professoressa di progettazione dell’istituto d’arte di Lanusei, Lucia Di Lorenzo, scomparsa nel 2016 – sarà un progetto, successivamente realizzato, di riallestimento del museo fiorentino di preistoria.
Formazione ed esperienza al primo posto, dunque, sapendo che un bravo restauratore deve sapientemente miscelare le competenze in ambito chimico con quelle in campo storico-artistico: «Un restauratore non può mai smettere di studiare. Il restauro è anche saper applicare conoscenze chimiche e regole che ci permettono di comprendere, scoprire, recuperare e prolungare l’esistenza di un intero patrimonio storico artistico. È altrettanto importante conoscere la storia senza la quale non sarebbe possibile eseguire restauri perfetti: il rischio di creare falsi storici, di alterare l’autenticità dell’opera o addirittura di non comprenderla, creando così un danno, sarebbe altissimo».
Insomma, sarebbe bello vederlo all’opera in Terra Sarda. La risposta è al vetriolo: «Lavorare in Sardegna? Mai riuscito! Nessuno mi ha mai dato ascolto o preso in considerazione. Abbiamo un patrimonio storico-artistico in stato di abbandono e di forte degrado sul quale non si investe: vedo distruzione e tanta incuria, vedo centri storici demoliti, case antichissime buttate giù e ricostruite completamente diverse, orrori di cui purtroppo la Sardegna è piena. A volte penso che cercare di portare la cultura del restauro e della rivalorizzazione del patrimonio storico artistico in Ogliastra sia una lotta contro i mulini a vento».
Il sogno resta, comunque, ed è legato in particolare e alla sua Lotzorai: «Fin da quando ero bambino, e non mi sono mai arreso, ho sempre sognato di riportare agli antichi splendori la bellissima chiesa di Sant’Elena, a Lotzorai, oggi in stato di totale abbandono. Ho fatto di tutto per salvare quell’opera magnifica di cui purtroppo non è stata ancora compresa l’importanza: ho coinvolto le istituzioni, ho organizzato un campo scuola di educazione al restauro, ho eseguito – e sto eseguendo con il grande aiuto di un mio caro collega storico – degli studi che confermano il ruolo peculiare che rivestiva Sant’Elena in Ogliastra. Eppure…».
Tenacia, determinazione, forza d’animo, tuttavia, non si affievoliscono nel giovane professionista ogliastrino. Lo sguardo è rivolto lontano, con la voglia di trasmettere quel fuoco e quell’ardore che lo caratterizzano: «Il mio futuro? Posso dire come lo sogno: come un insegnate – tra l’altro iscritto alle graduatorie di supplenza da ben nove anni, con due lauree magistrali e quindici anni di esperienza in settori importantissimi, ma in Sardegna, stranamente, non sono mai stato chiamato! – capace di trasmettere con passione, competenza ed esperienza, degli insegnamenti nobili che non devono andare perduti; come un restauratore che cura e restituisce dignità e valore a un tesoro che troppo spesso non consideriamo o non vediamo; portando avanti il mio percorso artistico e, chi lo sa, riuscendo finalmente a lavorare in questa mia terra straordinaria».
Raimondo Secci. Ogliastra, culla della storia
di Fabiana Carta.
Siti chiave, collocabili nel novero di quelli più importanti della Sardegna e dell’intero Mediterraneo, rendono l’Ogliastra una terra straordinaria per lo studio, la ricerca e le scoperte archeologiche. Ma tanto resta ancora da fare.
Qual è lo stato attuale delle ricerche archeologiche in Ogliastra?
Negli ultimi decenni le ricerche archeologiche nel territorio ogliastrino hanno fatto enormi passi avanti: i complessi di S’Arcu de is Forros e Sa Carcaredda a Villagrande Strisaili, oppure a quelli di Gennacili-Seleni a Lanusei, S’Ortali de su Monti a Tortolì e Scerì a Ilbono, hanno restituito dati di eccezionale interesse non soltanto riguardo alle dinamiche insediative, all’economia e all’organizzazione sociale delle popolazioni ogliastrine in epoca neolitica e nella successiva età nuragica, ma anche per la conoscenza delle loro connessioni mediterranee, rivelandoci un’Ogliastra perfettamente inserita in una fitta rete di contatti culturali con la Penisola italica, il Nord Africa e il Mediterraneo orientale. Moltissimo rimane ancora da scoprire; ma bisogna fare i conti, oltre che con risorse finanziarie sempre limitate, anche con l’eccezionale densità di testimonianze archeologiche presenti nel territorio. Questo può falsare la percezione del problema, generando un’impressione di immobilismo e di disinteresse da parte delle istituzioni: in realtà, se si tiene conto degli altissimi costi delle campagne di scavo, si può facilmente intuire come sia di fatto impossibile scavare tutto in poco tempo. Non rimane che sfruttare al massimo le possibilità offerte dalle nuove tecnologie e da discipline collaterali come l’archeobotanica, l’archeozoologia, l’archeometria, l’antropologia fisica, gli studi sul DNA etc. L’impossibilità di riportare alla luce tutti i monumenti, poi, non è in assoluto un male: poiché lo scavo rappresenta sempre un’operazione distruttiva e irreversibile (può essere infatti paragonata alla distruzione di un archivio), è evidente che ciò che non viene scavato oggi resterà, in futuro, a disposizione di archeologi sempre più “attrezzati” dal punto di vista metodologico, e pertanto in grado di evitare le perdite di informazioni purtroppo inevitabili con le tecniche attuali.
Si possono individuare delle peculiarità che contraddistinguono la nostra zona?
Le manifestazioni culturali preistoriche e protostoriche in Ogliastra mostrano numerosi elementi di differenziazione rispetto ad altre regioni della Sardegna. Un esempio significativo è costituito dalle domus de janas, che qui non raggiungono mai la complessità architettonica e decorativa di quelle del Sassarese o del Sulcis. Per quanto riguarda l’età nuragica, altre peculiarità si evidenziano nella tipologia dei nuraghi e delle tombe dei giganti, mentre in relazione alla fase punica e romana si può sottolineare la mancanza di grandi centri urbani costieri, paragonabili a quelli di Cagliari o Tharros. È lecito ritenere che queste differenze siano almeno in parte dovute alla particolare conformazione geomorfologica del territorio, prevalentemente montuoso e privo di grandi pianure coltivabili.
Ci sono state, nel corso degli anni, delle scoperte significative?
Sicuramente sì. Come ho già accennato, alcune scoperte avvenute di recente assumono un’importanza eccezionale non solo per l’Ogliastra, ma per l’intero bacino del Mediterraneo. In questo senso si segnalano soprattutto le ricerche effettuate nel sito di S’Arcu de Is Forros, attualmente considerato come uno dei più importanti centri di lavorazione metallurgica di tutta la Sardegna tra le fasi finali dell’Età del Bronzo e quelle iniziali del Ferro (XII-VIII sec. a.C.). Qui, oltre alla scoperta – già di per sé importantissima – di alcuni templi a megaron (un particolare tipo di edifici religiosi dedicati al culto delle acque) e di numerosi bronzetti figurati, è avvenuto il ritrovamento di manufatti che documentano l’esistenza di rapporti molto stretti con l’area egeo-levantina, con l’Etruria villanoviana e forse anche con la Penisola Iberica. Uno di questi ritrovamenti è quello relativo a un’anfora da trasporto proveniente dalla regione siro-palestinese, caratterizzata da un’iscrizione in caratteri fenici databile intorno al IX sec. a.C. La sua importanza consiste non soltanto nel fatto che si tratta della più antica testimonianza dell’uso della scrittura finora rinvenuta in Ogliastra e di una delle più antiche in tutto il Mediterraneo occidentale, ma anche nel suo valore documentario riguardo all’inserimento della costa ogliastrina nelle rotte marittime della cosiddetta “via dei metalli”. Il dato appare tanto più interessante alla luce della localizzazione del sito nel cuore del Gennargentu, in prossimità dei giacimenti metalliferi di Corru de Boi. Il complesso dei ritrovamenti – che comprende tra l’altro numerosi frammenti di lingotti di rame del tipo a “pelle di bue” e fornaci per la lavorazione dei metalli – fornisce inoltre informazioni molto importanti per la ricostruzione del tessuto economico e sociale ogliastrino: i dati finora acquisiti, infatti, mostrano l’esistenza di una società autoctona attiva e vitale, che deteneva il controllo dei mezzi di produzione ed era in possesso di conoscenze tecnologiche molto avanzate, tali da consentire alle sue élites di essere riconosciute come partner commerciali privilegiati dalle altre popolazioni mediterranee.
Quali sono le criticità e le emergenze che andrebbero risolte per poter valorizzare al meglio il nostro patrimonio storico-culturale?
Anche in questo campo sono stati fatti notevoli progressi rispetto ad alcuni decenni fa. Già da molti anni, infatti, in diversi comuni ogliastrini operano società e cooperative specializzate nella valorizzazione dei beni archeologici presenti nel territorio. Il loro lavoro è molto prezioso al fine di accrescere la sensibilità verso un patrimonio culturale che viene sempre più inteso e vissuto come elemento identitario collettivo. In generale, dunque, mi sembra che la strada intrapresa sia quella giusta e che tutti i soggetti coinvolti in questo settore stiano operando al meglio delle loro attuali possibilità, contribuendo in tal modo allo sviluppo culturale ed economico dell’Ogliastra.
La bottega del gusto. Una grande scommessa
di Fabiana Carta.
Il negozio che non ti aspetti, a due passi da casa: prodotti senza glutine, ricercati o biologici. E ancora, salumi e formaggi sardi, frutto della filiera corta. Qualità e genuinità in vendita.
C’è un luogo, a Lanusei, dove sembra che il tempo si sia fermato. Una bottega, dove si respira l’atmosfera familiare di una volta, dove le persone si incontrano per comprare qualcosa, ma anche per scambiare quattro chiacchiere e confidenze. A gestirla è un giovane, Luca Piras di 33 anni, con l’aiuto prezioso di sua moglie Simona Olianas.
La bottega si presenta con i prodotti separati per settori: senza glutine da una parte, prodotti ricercati o biologici dall’altra. Una parte dedicata ai salumi e formaggi, per la maggior parte sardi, provenienti da piccole produzioni. Le cassette con frutta e verdura offrono prodotti esclusivamente di stagione delle aziende locali, per riabituare il cliente alla stagionalità. «Abbiamo riflettuto sul fatto che nella nostra zona i celiaci o gli intolleranti al glutine, per acquistare del cibo adatto, dovevano andare in farmacia. Abbiamo voluto dare la possibilità anche a questa fascia di persone di poter fare la spesa in un semplice negozio sotto casa. Poi abbiamo pensato anche a tutte quelle persone attente all’alimentazione, alla provenienza dei cibi a chilometro zero».
È la tendenza degli ultimi anni, la cosiddetta filiera corta, che presenta vari vantaggi, come l’eco-sostenibilità (meno trasporti, imballaggi ridotti, scarso utilizzo di prodotti chimici), il sostegno alle aziende del territorio e prodotti di qualità. Come nasce quest’idea? «Una sera di agosto del 2017 sono rientrato a casa con una brutta notizia – mi racconta Luca – da un giorno all’altro, come un fulmine a ciel sereno mi hanno comunicato che non mi avrebbero rinnovato il contratto, dopo circa due anni».
Nel momento di crisi inaspettato, nell’instabilità economica e quindi del proprio futuro, si riaffaccia un’idea che ogni tanto faceva capolinea nei loro discorsi: aprire un’attività insieme, qualcosa che a Lanusei ancora non ci fosse. L’unico modo per portare avanti un progetto è differenziarsi da tutto il resto: per questo credono che specializzarsi nella vendita di prodotti per intolleranti alimentari possa essere una scelta vincente e soprattutto utile per una grande fascia di persone. Se le statistiche non mentono, in Italia contiamo un milione e 800mila allergici alimentari, nello specifico: 305mila allergici al latte e 600mila al glutine, numeri destinati a crescere. «Questa era l’idea di base, ma abbiamo anche pensato di specializzarci in prodotti particolari, ricercati, puntando più sulla qualità che sulla quantità. Abbiamo sia prodotti indispensabili come latte, mozzarella, zucchero e caffè, sia prodotti sardi che non si trovano nella grande distribuzione, come il Caffè di Sardegna torrefatto a Ollolai, le marmellate di un privato di Nuoro, il tartufo di Laconi o la birra artigianale di Baunei».
Inoltre Luca e Simona hanno dei terreni in cui coltivano patate e fagiolini, una piccola produzione, ma quando i clienti li trovano in bottega sanno che sono di prima qualità e senza trattamenti chimici. Dietro queste scelte mirate c’è un’attenta selezione dei prodotti e delle aziende produttrici, effettuata personalmente da Luca e Simona, che ci tengono a conoscere e toccare con mano quello che poi rivenderanno nella loro bottega. Mentre chiacchiero con loro mi accorgo che nelle cassette c’è solo qualche limone, scarola e due finocchi, ovvero quello che le aziende offrono in quel momento. Certo, volendo ci sono i supermercati – penso – dove possiamo trovare le melanzane e le zucchine tutto l’anno, per esempio. Ma sarebbe ora che tutti imparassimo a fare scelte consapevoli. «Fra noi e i nostri clienti si è creato nel tempo un rapporto di fiducia, hanno capito che quando abbiamo frutta e verdura è perché è locale ed è ciò che in quel momento ci offre la terra. I supermercati vendono frutta e verdura di ogni tipo tutto l’anno e sono talmente grandi e dispersivi che quando entri neanche ti salutano, oppure non ti imbustano la spesa, li trovo assurdi!», mi dice Simona. Per loro il rapporto negoziante-cliente è qualcosa che va oltre, che ci tiene ad approfondire, a spiegare, a educare verso un nuovo approccio alla scelta del cibo. Per questo motivo La bottega del gusto ha iniziato un percorso di sensibilizzazione e informazione per i suoi clienti organizzando degli incontri, all’interno della bottega, con una nutrizionista-dietista, con la partecipazione di qualche rappresentante delle aziende da cui si riforniscono. «Non tutto ciò che è bello è anche buono», ci tiene a precisare Luca. Una scelta coraggiosa. L’alternativa sarebbe stata quella di andare via dalla Sardegna, le strade erano solo due. «Sicuramente è una grande scommessa, ma siamo partiti dal presupposto che non potevamo lamentarci tutta la vita senza provare a fare qualcosa che potesse modificare o migliorare le cose. Se va bene o no dipende soprattutto da noi».
La ricetta? Ragazzi in gamba, pieni di iniziativa, pronti a migliorarsi sempre.
L’onda creativa di Nena Fenu
di Augusta Cabras.
Nena Fenu è un’artista spontanea. Spontanea nell’atto del dipingere e nell’ispirazione, così come spontaneo è stato, ma forse solo apparentemente, l’esordio della sua creatività.
In realtà tutta la vita di Nena Fenu è stata un creare incessante, abbandonando situazioni e contesti sterili e rigidi e aprendo nuovi spazi, nuove situazioni, determinando nuove possibilità.
Nativa di Bitti, lì ha vissuto per oltre vent’anni, con la madre e il padre, morto molto presto, quattro sorelle e tre fratelli. Fin da bambina è determinata e volitiva, curiosa e insofferente alla rigidità di un paese chiuso, piccolo, in cui il pettegolezzo vola veloce di bocca in bocca e il giudizio, soprattutto per le ragazze che rivendicano la stessa libertà dei ragazzi, pesa come un macigno.
Inizia a lavorare molto presto dopo alcuni corsi di formazione, come assistente sociale per un’opera portata avanti dai Gesuiti. Ma Nena decide che non è lì che vuole stare. Si trasferisce a Milano insieme ad alcune cugine, svolge diversi lavori finché non arriva a Zurigo. Sono tre i mesi di prova che deve fare alla Lindt, famosa industria di cioccolato svizzero, e invece ci rimarrà 27 anni. Anni in cui si occupa di accogliere il nuovo personale, di seguirlo nella sistemazione abitativa offerta dalla fabbrica e poi di selezionarlo lei stessa. Per necessità impara lo spagnolo, il tedesco, i dialetti del sud Italia, pugliese in particolare, seleziona persone che arrivano dalla Jugoslavia, dalla Cina e dalla Turchia. Ogni difficoltà per Nena è sempre un’opportunità di crescita e di apprendimento.
Lei, che oggi ha 85 anni, è sempre stata un vulcano di energia e passione.
Oltre il suo lavoro, quando è in Svizzera, ha a cuore la condizione delle donne immigrate e che per la maggior parte vive segregata in casa. Per loro chiama a raccolta volontari medici, avvocati e insegnanti e fonda un consultorio. In Svizzera conosce la persona che diventerà suo marito, Francesco Piras. Sardo come lei, condividono tanti interessi e passioni. Come quella per l’arte. A Zurigo negli anni Settanta c’è un grande fermento culturale che Nena e Francesco respirano a pieni polmoni. Lui dipinge e insieme a un gruppo di amici fonda il Gruppo Artistico. Nena per il Gruppo organizza le mostre personali e collettive, ne individua il filo conduttore, prepara i testi delle brochure, scrive agli enti pubblici e privati, crea un bel movimento.
Anche la casa porta i segni di quest’onda culturale. Pennelli, tele e colori sono sempre pronti per essere usati. Anche da Nena, che fino a quel momento aveva solo ammirato le opere ma mai aveva creato. Quei pennelli esercitano su di lei una forza a cui non riesce più a resistere. Inizia a dipingere. Di nascosto. La notte. Prova quasi pudore a mostrare questa sua prorompente necessità. Dipinge spontaneamente, liberamente. Sui fogli bianchi le pennellate di tempera nera sono decise, chiare, forti. I primi dipinti sono volti di donne, alcuni asimmetrici rivelano angoscia, altri si celano da se stessi. Sono dipinti che sembrano squarciare la tela, tanto sono intensi. Altri sono più morbidi ma di grande forza. Mi rivela di aver dipinto oltre 500 volti, mai identici, nella moltitudine di espressioni, sensibilità, temperamenti, gioie e dolori del genere umano. Volti quindi, ma anche fiori, (altra grande passione condivisa con il marito) che dalle tele escono a regalare un dolce senso di libertà, e poi visioni cosmiche, incendi di colori nelle colluttazioni spaziali.
Nena negli anni Ottanta lascia la Svizzera. Si trasferisce con il marito in Sardegna, nella sua casa di Tancau, e anche in Ogliastra mette a frutto la sua energia. Si laurea in Lingue, insegna spagnolo per dicei anni all’Università delle Terza Età, espone i suoi lavori in tante mostre, apre la sua casa a pittori, musicisti e artisti. Tra le pareti tanti quadri suoi, del marito, del fratello, di altri amici e poi i libri, ricordi di innumerevoli viaggi in varie parti del mondo, tanta musica, da Mozart a Paolo Conte, fiori e piante. Un trionfo di natura e di cultura per una donna che ha fatto della passione e della condivisione uno stile di vita.