In breve:

Volti e persone

La bottega di Pablo

La bottega di Pablo. Questione di…testa

di Iosè Pisu.

Barba o capelli? Michele, barbiere lanuseino di 25 anni, è pronto ad accontentare tutti e a coniare un marchio che vuole viaggiare lontano

Chi dice che i giovani d’oggi non hanno più sogni, progetti, passioni come una volta, si sbaglia. Basta cercarli, incontrarli, parlarci e soprattutto conoscerli, per cambiare idea ed essere smentiti.
Chi incontra Michele, un lanuseino di 25 anni con la freschezza di un diciottenne, capisce subito che ci sono giovani che hanno dei progetti e sono pure capaci di realizzarli, curando tutto nei minimi particolari.
Come suo insegnante, l’ho lasciato tra i banchi di scuola alle medie e rincontrarlo dopo anni nella sua Bottega di Pablo, mi ha fatto provare una particolare emozione. Non so se lui fosse emozionato quanto me, sta di fatto che la nostra è stata una bellissima chiacchierata, dalla quale è emersa la sua vitalità, sincerità e schiettezza. Persino alle domande più personali ha risposto con molta semplicità: «Nessun problema, chiedi pure». Ognuno si è sentito a proprio agio e abbiamo parlato da uomo a uomo, atteggiamento che ben si addice al luogo in cui eravamo, un posto per soli uomini, la sua barberia.
Mi incuriosiva tanto sapere cosa ha spinto un ragazzo ad aprire oggi una barberia nella sua piccola cittadina, dove tra l’altro sono già presenti altre barberie. Quando e come è nata in lui questa passione: «L’idea del barbiere l’avevo sin da bambino e l’ho maturata da ragazzo – racconta –. Mi piaceva andare un po’ da tutti i barbieri del paese e mi incuriosiva il loro mestiere. Un giorno a 15 anni ho chiesto a mio padre se potevo provare a tagliargli i cappelli, ma finii per rasarlo a zero! Per un mese fu costretto ad andare in giro con un berrettino… Comunque la passione c’era, dovevo solo studiare un po’». La tecnica era sicuramente ancora da affinare.
Michele lascia riposare questo desiderio nel cassetto del suo cuore e della sua mente, e continua gli studi liceali. Conseguito il diploma, tenta i test all’università in Scienze della formazione per seguire l’altro suo sogno: «La mia idea era quella di aiutare i ragazzi con disabilità. Ma evidentemente non era quello che avrei dovuto fare». Decide, così, di prendersi un anno sabatico. Dopo qualche lavoretto, «per non pesare troppo sulla famiglia», decide di risvegliare la sua passione giovanile. Così a 21 anni si iscrive a Cagliari a un corso europeo per acconciatori che frequenta per tre anni, viaggiando tre giorni alla settimana per seguire le lezioni. Terminato il corso, «grazie ai miei genitori – sottolinea – che hanno comprato un piccolo stabile nella centrale via Roma, a Lanusei, e alla mia caparbietà, ho deciso di aprire la mia barberia. Con mio padre muratore, abbiamo iniziato i lavori di ristrutturazione nel periodo del lockdown, preparando il locale a ospitare la nuova attività».
Il risultato di tanto lavoro è un locale semplice ma accogliente, che richiama l’idea della bottega e del lavoro artigianale. Entrando, salta all’occhio un grande arco in pietra scoperto durante i lavori, che fa da cornice al piano con i lavandini; sotto il piano risalta un bellissimo ramo in legno di ginepro. Di fronte ai lavandini vi sono i due posti a sedere girevoli, come quelli di una volta. Alla destra ci sono una macchina da cucire antica, un vecchio telefono fisso con la rotella e un rasoio antico, mentre a sinistra si trova un comodo divano e, appeso al muro come fosse un quadro, un veliero costruito a mano con dei fiammiferi. In questa atmosfera d’altri tempi, osservando bene, si nota qualcosa di moderno: un quadro di un artista locale raffigurante il ritratto di un cane, precisamente un bulldog, di nome Pablo. «Volevo dare un’impronta personale alla mia barberia – commenta – e ho scelto il nome del cane che avevo regalato due anni fa alla mia ex ragazza, con la quale sono rimasto in buoni rapporti». Ho chiamato il locale La bottega di Pablo.
Una cosa che mi ha incuriosito era capire se c’era una ragione particolare nello scegliere di essere un barbiere e non un parrucchiere. «In Italia esiste il mestiere dell’acconciatore di cappelli, che unisce le figure di parrucchiere e barbiere insieme, ma secondo me così si sminuiscono entrambi i ruoli. Io sono dell’idea che in Italia debbano esserci delle scuole per barbiere, per solo uomini, come era una volta».
Michele parla in modo disinvolto e sicuro. Gli chiedo se in questo percorso abbia incontrato ostacoli e difficoltà. «A dire la verità nessuna in particolare. Prima dell’apertura ero molto teso e in ansia; ma una volta aperto sono rimasto molto soddisfatto. Dopo un mese dall’apertura sono anche riuscito a rendermi indipendente, ora infatti vivo per conto mio. Sono davvero contento! A parte il Covid e le restrizioni, che però riesco a gestire bene con le prenotazioni. Ho tante idee da realizzare per i clienti, come ad esempio il poter prenotare anche online. Per ora sta andando tutto bene, non mi posso lamentare. Anche i clienti sembrano contenti, ancora nessuno si è lamentato e stanno tornando; c’è poi chi ha sottoscritto l’abbonamento mensile e chi segue le diverse promozioni».
Nella vita di un ragazzo sono fondamentali le amicizie e cosi ho chiesto a Michele che ruolo avessero avuto in questo progetto i suoi amici. «Erano felicissimi – aggiunge – soprattutto perché ne hanno approfittato alla grande mentre facevo il corso: sono stati più che fortunati! Vengono spesso a trovarmi. E il giorno dell’inaugurazione, il 21 agosto scorso, hanno organizzato una piccola festa come se fosse stata una laurea».
Come insegnante ho lavorato per tanti anni a Lanusei e nei paesi limitrofi, constatando che spesso tanti giovani si allontanano dal proprio paese in cerca di lavoro. Michele invece ha deciso di rimanere nel suo paese, ma con la voglia di ampliare la sua attività. «Lanusei è casa, un punto da dove partire per poi arrivare altrove. Ho dei progetti sia per crescere nei numeri che per andare da altre parti, ma non per forza spostandomi io. La mia idea è di avere il mio marchio, La bottega di Pablo, e con questo aprire altre barberie, gestendole sempre da qui».
Il tempo è trascorso in fretta e quando lo saluto, mi dice fieramente: «È una bella soddisfazione aver realizzato questa bottega; ho lavorato tanto per renderla così accogliente, la conosco centimetro per centimetro, so persino dove passano tutti i cavi elettrici! Devo sicuramente la realizzazione di questo mio sogno per il 50% ai miei genitori, per il 40% a me e per il restante 10% ai miei amici e a tutti quelli che hanno creduto in questa bella avventura». Buon viaggio Michele!

Simonetta Delussu

Custodire la memoria

di Fabiana Carta.

Come un’eterna ricerca di quel piccolo mondo antico, dove il primitivo e l’arcaico fanno da sfondo a racconti, leggende, visioni e riti. Come per voler rivivere la suggestione del barbarico, del religioso, del superstizioso, le opere di Simonetta Delussu sono un omaggio alla nostra terra e alle nostre radici. Un’infanzia passata ad ascoltare le storie affascinanti e misteriose dei nonni e il desiderio che non andassero perdute. Questi racconti sono il filo conduttore di tutte le sue opere, «i racconti dei bidemortos (persone che avevano il dono di vedere lo spirito dei defunti) – mi spiega – che sono soprattutto donne. Storie incredibili che la fantasia non eguagliava e così mi son detta: ma perché perderle?». Ricorda la carissima nonna Rosina che aveva delle doti particolari, fonte primaria di ispirazione dei suoi libri, la ritroviamo nel personaggio di Rosa in Spiriti nella notte. Simonetta nasce a Tertenia e il legame con questo luogo è stato di fondamentale importanza per la sua formazione umana e professionale: «Il legame con la Sardegna, che ha accolto il mio primo respiro, è di simbiosi. Vivendo in una terra gelosa, devo dire che non ho mai spezzato il cordone che mi legava a lei. Così come un bambino non può stare lontano dalla mamma, io sento la stessa struggente nostalgia ogni volta che mi devo allontanare. Ha influito molto il mio essere sarda con la formazione che mi ha modellato».
Una laurea in Lettere e Filosofia all’università La Sapienza di Roma e un dottorato in Usi e Costumi sardi conseguito in Germania, che ricorda con piacere: «I tedeschi mi hanno fatto vedere il lato più magico della mia terra che loro studiano e amano tantissimo». Per scrivere i suoi saggi, sempre con grande desiderio di conoscenza, unisce la ricerca storica in archivio alla ricostruzione delle storie tassello per tassello, ascoltando gli anziani, i mannos, e corredando il tutto con le fotografie. «Alla fine c’era la storia lì davanti, quella che nessun libro avrebbe raccontato. C’era un personaggio che viveva davanti ai miei occhi, srotolava la sua vita e raccontava una Sardegna che non c’era più e così vivevo cento, mille vite», mi spiega.
Simonetta Delussu scrive da quando era una ragazzina: fa le sue prime esperienze nel giornalino locale, pubblicando per lo più racconti e poesie. All’età di vent’anni pubblica il suo primo libro di poesie, dal titolo Gabbiani. Da quel momento non si è più fermata: «Per me scrivere è come mangiare o respirare». Le domando, per soddisfare una grande curiosità, che tipo di scrittrice è: «Nella scrittura sono maniacale, l’editore deve strapparmi il libro dalle mani perché non finisco mai di correggerlo e rivederlo, parola per parola. Prima butto giù lo scheletro poi vado a rimpolpare, ed è un lavoro abbastanza lungo. Scrivo a braccio, mi faccio portare dalle sensazioni che il personaggio mi detta, come se avesse vita propria. Alla fine rileggo a voce alta tutto, meglio se ho davanti il libro in cartaceo. Ultimamente ho preso l’abitudine di inviarlo alla mia cara amica Marilena Cardia, prima ancora che all’editore: è una critica spietata e meravigliosa. I miei libri le devono molto. In genere amo scrivere vicino al camino o seduta sotto un albero, un posto tranquillo senza rumori circondata da libri o da alberi. Esisto solo io e il foglio bianco».
Parliamo di progetti futuri e mi racconta che sta per uscire con Parallelo 45 il suo nuovo libro, dal titolo L’eternità dura un’ora – la storia vera di Maria Pitzettu rapita dai pirati, portata in Algeria dove diventa la tata del figlio del Dey e finisce nell’harem – e sta lavorando in contemporanea a un nuovo romanzo che racconta di sette donne arse vive nell’autodafé del 1789 a Sassari.
Le donne, personaggi complessi e interessanti, coraggiose, forti e misteriose, sono le protagoniste indiscusse delle sue opere. Non solo scrittrice, Simonetta è anche una professoressa di lettere alle scuole superiori, ha quindi a che fare con una generazione che tende a leggere e scrivere poco. E meno si legge più il vocabolario si impoverisce. «È vero – conferma – la lingua è destrutturata, depauperata e così anche il loro mondo, la fantasia, e l’abitudine di mischiare termini inglesi quando abbiamo le corrispettive parole in italiano, fa sì che si perda anche la poca identità che eravamo riusciti a mantenere. Così quando leggono scelgono testi poveri, elementari, perché hanno perso di vista le parole più complesse. Bisogna educarli alla lettura, alla comprensione del testo. Ecco perché io faccio leggere in classe, a voce alta, Amore e psiche con fronte in latino, oppure Seneca, e pace e bene se devo spiegare parola per parola! Butti i semi, qualcosa attecchisce». Simonetta, battagliera e tenace come gli alberi che sopravvivono piegandosi al vento o crescono avviluppando le radici nella roccia, si fa custode del passato e portatrice di una memoria storica che sfida il tempo.

Don Ignazio Ferreli

Insegnare? Una vocazione

di don Ignazio Ferreli.

L’esperienza di don Ignazio Ferreli docente alla Facoltà Teologica, l’amore per lo studio e il suo rapporto con gli studenti

In una lettera inviatami da Parigi nel maggio del 1995 il padre Sebastiano Mosso così mi confidava: «Io registro, con grande consenso positivo, la tua esigenza seria, vitale, non strumentale: mi pare di registrare come i “segni” di una “vocazione” allo studio». Questa stessa impressione era diventata auspicio nel 1997 quando ancora mi scriveva: «Spero che un giorno possa dare un aiuto prezioso anche nella nostra facoltà».
In effetti i desideri del Padre Mosso si concretizzarono il 4 ottobre del 1999, festa di san Francesco, in una telefonata con il quale il Padre Maurizio Teani mi chiedeva la disponibilità per un servizio in Facoltà. Quella chiamata avvenne mentre andavo a celebrare la Messa nel santuario della Madonna d’Ogliastra. Quel giorno avevo parlato del fatto che san Francesco pregava così: Mio Dio, mio tutto, e di quella Totalità ne ero e ne sono intimamente persuaso.
Si tratta della medesima persuasione con la quale cerco di vivere il mio studio come una vocazione, così come aveva avvertito Padre Mosso, nel senso di una ricerca della totalità nella storia delle persone, soprattutto nella vicenda dei ragazzi che si preparano a ricevere il sacramento dell’ordine sacro. Anche se è vero che la Facoltà è aperta a tutti, confido che io sento una sensibilità particolare verso i seminaristi, immedesimandomi nelle difficoltà che anch’io provavo nello studio della teologia e della filosofia.
Da oltre vent’anni mi occupo dei corsi di Metafisica e Teodicea.
La Metafisica che, come Kant ci avverte, da Aristotele non ha fatto che pochi passi avanti, è una scienza che ha per oggetto una causalità i cui moventi non si ritrovano nelle motivazioni naturali. Ed è proprio per questo che occorre ricercare nella causalità che non trova moventi negli eventi naturali, come le relazioni di amicizia tra le persone che si vogliono autenticamente bene. L’essere in quanto essere, in questa mozione, è una gratuità che non corrisponde a nessuna scienza dell’essere particolare; e ci conduce sino a quella sostanza che nella transustanziazione del mistero eucaristico connette le relazioni trinitarie con le vicende umane.
La Teodicea, che tenta di vedere le possibilità della ragione umana di trovare qualche strada per rendersi familiare l’esistenza di Dio e qualche parvenza delle sue dignità, è una scienza che impone una umiltà enorme. Al culmine della nostra possibilità speculativa, afferma san Tommaso, giungiamo a conoscere Dio come ignoto (in fine nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscere possumus). Eppure, in questa nebbia dell’intelletto, abbiamo una possibilità straordinaria di congiungerci ottimamente a Dio (optime Deo conjungimur) quando gli effetti dell’amore di Dio nelle creature soccorrono l’indigenza della ragione umana.
Si tratta di itinerari di ricerca in cui io stesso debbo essere continuamente alunno con i miei alunni, fornendomi in questo modo l’esperienza di una grande soddisfazione quando, assieme, si giunge a qualche risultato e, allo stesso tempo, di enorme delusione e tristezza quando per qualche povertà della Facoltà o di altre circostanze si perde il tempo della meraviglia e della scoperta.

Introvigne

Dialogo fra religioni: un complesso percorso di rinnovamento culturale

a cura di Augusta Cabras

I cristiani, sappiamo essere perseguitati in molte parti del mondo. Il rischio è alto anche in Occidente?
Non possiamo paragonare quanto avviene in Cina o in altri Paesi non democratici con la situazione in Occidente. In Cina, per esempio, il governo riconosce – ma anche qui con limitazioni – una solo Chiesa protestante unificata e con leader nominati dal Partito Comunista, la cosiddetta Chiesa delle Tre Autonomie, e un’associazione detta patriottica che in teoria dovrebbe riunire tutti i cattolici. Prima del 2018 l’adesione all’associazione era vietata o almeno sconsigliata ai cattolici dalla Santa Sede. Con l’accordo tra Vaticano e Cina del 2018, che dovrebbe ora essere rinnovato, la Santa Sede consente – da qualche punto di vista, perfino consiglia – ai cattolici l’adesione all’associazione, ma nello stesso tempo in un documento del 2019 ha chiesto «rispetto» per chi, per ragioni di coscienza, si rifiuta di aderire. In verità non c’è nessun rispetto. Chi rifiuta di aderire all’associazione patriottica è discriminato in mille modi e spesso finisce in prigione. Quanto ai protestanti, chi si rifiuta di aderire alla Chiesa delle Tre Autonomie è fuori della legge e perseguitato.
In Occidente non parlerei di persecuzione, piuttosto di intolleranza, che è un fatto culturale, e che qualche volta diventa discriminazione, un fatto giuridico.

Quali sono gli elementi del cristianesimo che maggiormente generano nelle persone di altre religioni questi atteggiamenti?
Vi è oggi in Occidente una cultura che non è necessariamente maggioritaria nella popolazione – come gli esiti delle elezioni dimostrano in diversi Paesi – ma è assolutamente maggioritaria tra coloro che scrivono sui grandi media che fa prevalere i cosiddetti nuovi diritti – aborto, assoluta libertà sessuale, rivendicazioni delle persone omosessuali, e così via – rispetto ai diritti umani tradizionali, compresa la libertà religiosa. Il cristianesimo non accetta questo rovesciamento nella nozione dei diritti – che per la verità preoccupa anche intellettuali non cristiani – e per questo è visto come un ostacolo che deve essere spazzato via.

Cosa del Magistero di Papa Francesco incide di più, secondo lei, nella prospettiva dell’incontro tra le religioni?
Papa Francesco è talora criticato “da destra” per discorsi come quello che tenne a Posillipo nel 2019, dove afferma che ci sono elementi di verità in tutte le religioni e talora altre religioni hanno qualche cosa da insegnare a noi cattolici. Personalmente, apprezzo queste aperture, che in realtà hanno precedenti nel Magistero antecedente a Papa Francesco. Non si tratta di relativismo. Ma ci sono molti modi di guardare la stessa verità e lo sguardo di altre religioni può spesso aiutare il nostro. C’è anche una critica “da sinistra” a Papa Francesco, accusato di avere deluso le promesse di chi si aspettava che riformasse radicalmente la Chiesa, magari aprendo il sacerdozio alle donne o agli uomini sposati. A me sembra che il modo gentile ma sistematico in cui Francesco ci invita a cogliere gli elementi di verità in altre religioni sia non una rivoluzione (come ho accennato, non mancano i precedenti) ma uno stile nuovo, che comporta un rinnovamento più profondo rispetto a riforme che magari sarebbero più facilmente leggibili da parte dei grandi media.

Il Medio Oriente è uno dei terreni più infuocati, ma è anche il luogo delle tre grandi religioni. Come si concilia questo e come si conciliano tra loro?
Il Medio Oriente è un terreno di scontro politico e questo scontro politico ha una dimensione religiosa. Una parte del mondo politico israeliano – non tutto e non la maggioranza – vede nella difesa e nell’espansione dello Stato d’Israele una missione voluta direttamente da Dio. Una parte del mondo politico medio-orientale musulmano – non tutto, ma in questo caso, e almeno finora, la maggioranza – vede nella distruzione dello Stato d’Israele qualche cosa cui i musulmani non possono rinunciare senza tradire a loro volta un comando di Dio. Se le posizioni rimangono queste, ovviamente lo scontro non avrà mai fine. Tuttavia, ci sono degli sviluppi positivi, tra cui il fatto che nelle ultime settimane prima gli Emirati Arabi Uniti e poi il Bahrain abbiano allacciato relazioni diplomatiche con Israele, grazie agli sforzi della diplomazia americana. Anche la diplomazia della Santa Sede lavora – com’è suo costume – lontano dai riflettori, ma opera incessantemente per la pace.

Lei si occupa e si è occupato di religione e religioni, ma anche di esoterismo, spiritismo ecc. Nei tempi di maggior crisi e difficoltà, aumenta la tentazione da parte delle persone più fragili, di affidarsi a queste pratiche pericolose?
È importante distinguere diversi livelli. Oggi c’è una tendenza a usare esoterismo come se fosse una parolaccia. In realtà l’esoterismo – una materia che si studia in molte università, c’è un intero istituto che se ne occupa all’Università di Amsterdam e una cattedra alla Sorbona – è una quinta ineliminabile della storia del pensiero occidentale, dall’epoca ellenistica ai giorni nostri, passando per il Rinascimento. L’esoterismo è stato attaccato come pericoloso prima da una certa cultura protestante, per cui era il residuo della Roma pagana presente nel cattolicesimo, poi dall’Illuminismo in nome della ragione, quindi dal marxismo sulla base della tesi che l’esoterismo favoriva posizioni politiche di destra (una tesi falsa, perché nell’Ottocento è stato semmai il socialismo a essere legato a filo doppio all’esoterismo). Oggi la cultura accademica ha rivalutato l’esoterismo. La stampa però qualche volta confonde l’esoterismo come corrente di pensiero con l’occultismo, che è un insieme di pratiche che comprendono evocazione di spiriti, divinazione, fatture (non quelle fiscali!), uso di talismani e così via. Tra esoterismo e occultismo c’è una relazione, nel senso che alcuni esponenti anche di primo piano dell’esoterismo – ma non tutti – si sono interessati all’occultismo. Ma non c’è nessuna relazione tra l’esoterismo in senso proprio e l’occultismo cialtrone dei maghi a pagamento che, come lei dice, sfruttano le persone più fragili al solo scopo di arricchirsi. La loro conoscenza della cultura esoterica è spesso inesistente.

Massimo Introvigne
Sociologo, dirige a Torino il CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni). Nel 2011, è stato Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa.

Tonino Serra

La verità nelle carte

di Alessandra Secci.

Verba volant, scripta manent: come recita la celeberrima locuzione latina, le parole si librano nell’aria, quel che è scritto invece resta. Ed è così, le carte sono un’entità, un organismo dormiente ma vivo, una sorta di scrigno analogico pronto ad aprirsi in qualunque momento e a raccontare. E raccontano. A volte narrano, altre strillano, denunciano, sentenziano. Anche quelle più incomprensibili, scritte in idiomi antichi e in grafie imperscrutabili. Lo sa bene Tonino Serra, che di ardue grafie, in quanto medico, se ne intende.
Ierzese, già medico di famiglia e fisiatra, 73 anni, un passato politico come sindaco del suo paese d’origine negli anni Ottanta e come consigliere comunale a Cagliari per buona parte degli anni Novanta, nonché come assessore provinciale alla Pubblica Istruzione, una smania per la ricerca documentaria e per l’antropologia criminale sviluppate in parallelo con la sua lunga attività negli ambulatori e in alcune brevi esperienze (presso i Tribunali di Cagliari e Lanusei) come consulente in medicina legale.
«Da medico mi ha sempre incuriosito il percorso patologico del paziente – racconta –, qual è lo sviluppo che da una situazione di affezione porta alla morte o alla guarigione. Uno specialista, qualunque sia il suo campo, ha il dovere di indagare quanto più dettagliatamente possibile ciò che ha davanti, e questa indagine deve necessariamente essere svolta a livello viscerale, molecolare; la funzione a cui è chiamato lo storico è esattamente la stessa. Troppi avverbi, troppi probabilmente, forse, poche salde certezze: chi fa ricerca deve essere in una botte di ferro! Il mio percorso di ricercatore e di assiduo frequentatore degli archivi (di Stato a Cagliari e Diocesano a Lanusei in primis) si è evoluto soprattutto sotto questa spinta (e lo sprone di nomi tutt’altro che marginali nel panorama saggistico sardo, quali Bruno Anatra e Giancarlo Sorgia, n.d.r.): la letteratura storica che parlava delle nostre origini e delle nostre piccole comunità necessitava di una revisione, andava nuovamente esaminata attraverso la lente delle carte, che spesso rivelano fatti che rispetto a testi considerati oramai sacri e incontrovertibili, assumono una dimensione totalmente opposta. Uno dei tanti emblemi fu quando lavorai alla prima stesura del saggio su Ulassai e mi accorsi, dopo nemmeno una settimana, che le informazioni da cui partii, quelle fornite dall’Angius, erano incongruenti: sul campo ebbi subito modo di ravvisare, ad esempio, la presenza di alcune emergenze archeologiche che lo studioso nemmeno citava. Insomma, se non si tratta di riscrivere del tutto la storia, quantomeno si ha il dovere di essere deontologicamente ed eticamente analitici».
E di analisi, negli anni, ne sono state fatte tante: dalle monografie su Jerzu e Ulassai (da cui provenivano i bisnonni), ai saggi realizzati sulle fitte testimonianze fornite dalle carte della Real Udienza, gli errori giudiziari e i compaesani dimenticati: «Una su tutti, Battistina Carta, della quale per prima mi parlò il compianto Peppino Fiori all’inizio degli anni Duemila. Una donna coraggiosissima, da annoverare sicuramente nelle fila dei partigiani ierzesi che di distinsero al Nord (come Salvatore Melis, perito a Torino nel tentativo di difendere il suocero, uno dei capi della Resistenza cittadina, o come Francesco Salis, alias Ulisse, a cui è stata di recente dedicata una piazza del centro storico), vedova della Grande Guerra, che sposò in seconde nozze un boemo, conosciuto a Jerzu, col quale prima si spostò a Praga dove sopravvisse alle persecuzioni di Heydrich e degli stessi italiani passati alle SS, poi tornò al paese natale, guardata a vista perché considerata una spia e costretta persino agli arresti domiciliari. E poi le vicende dei tantissimi soldati, martiri delle due Guerre e degli innumerevoli conflitti tra queste (Etiopia, Spagna, Grecia, dove l’esercito italiano scrisse una vergognosa pagina della sua storia, perpetrando un’autentica Marzabotto ellenica, sconosciuta ai più), che resistono anch’esse, indelebili, sulla stoica cellulosa dei fogli matricolari».
Ma le carte sono tante e solo di recente, dopo un lungo stop dovuto all’emergenza epidemiologica, gli archivi hanno potuto riaprire: «Sono in ultimazione I cipressi di San Vincenzo, una particolare analisi di duecento monumenti funebri del cimitero di Jerzu, corredato dalle splendide immagini di Renato D’Ascanio, nonché un altro studio sul territorio che verrà presentato nel 2022, in occasione del 250° anniversario dell’istituzione da parte del governo sabaudo dei consigli comunitativi (1772) e nel quale confluiranno i due saggi, Jerzesi: mille vite, una storia e Storia dell’amministrazione civica di Jerzu dal 1400 in poi. Questi volumi sono in dirittura d’arrivo, ma non vedo l’ora di tornare nei locali di via Gallura per dedicarmi a Morti di fame, un ideale ritorno alla medicina con l’esame delle carestie e delle epidemie dal Settecento in poi».

Pamela Balloi

Felicemente all’aperto

di Fabiana Carta.

In questa storia ci sono tre elementi principali: una figlia, il desiderio di un ritmo lento, l’amore per gli animali

Pamela Balloi, quarantunenne di Lanusei, ha sempre vissuto per lavorare, come si suol dire. Per dieci anni ha lavorato in un salumificio e per altri dieci anni ha fatto la barista, con tutto quello che ne consegue: turni di lavoro massacranti, giornate che trascorrono veloci e frenetiche. «Io e mio marito siamo due stacanovisti, per noi esisteva solo il lavoro, al quale dedicavamo anche 16 ore al giorno», mi confessa.
A un certo punto la svolta, arriva una figlia: «Ha cambiato completamente la mia prospettiva di visione del lavoro, invertendo le priorità». Quel modo di vivere non poteva più conciliarsi con una figlia e il suo vedersi mamma, per questo entrambi sentono la necessità di pensare a un lavoro che non occupasse tutta la giornata, un lavoro da poter gestire in autonomia.
L’idea, racconta, nasce durante una delle visite periodiche dalla pediatra. «Era il periodo dello svezzamento, la dottoressa mi disse che la bambina avrebbe potuto mangiare le uova, possibilmente senza pesticidi, un uovo buono per davvero!». Perché non provare ad allevare delle galline in modo naturale? Alla fine del 2018 si imbarcano in questa avventura, con qualche dubbio e qualche paura. «Per iniziare – racconta – abbiamo provato ad allevarne qualcuna a casa e poi abbiamo deciso di fare quest’esperimento più in grande, documentandoci tantissimo». La scelta accurata sul tipo di galline, le Livornesi bianche, è il primo passo. Sono qualitativamente migliori, galline ruspanti adatte all’allevamento all’aperto. Pamela ci tiene a precisare che all’aperto non vuole a terra. Allevarle all’aperto significa lasciarle fuori nei campi, libere: «Hanno uno spazio enorme dove possono razzolare, divertirsi. Lasciamo a disposizione della paglia e rametti che le aiutano a scaricare lo stress». Mi spiega che un grande gruppo di galline è come un gruppo di bambini, più sono e più tendono a litigare fra loro. «Per aiutarle a stare bene e non beccarsi a vicenda hanno a disposizione dei giocattoli, questo ci permette anche di non tagliare loro il becco, pratica utilizzata per renderle calme e tranquille e non farsi del male a vicenda. Non hanno nessun tipo di forzatura, compresa la luce: considerando che depongono in base ad essa, vuol dire che d’inverno produrranno un po’di meno. A livello commerciale implica qualche rinuncia, ma ben volentieri purché gli animali stiano bene».
Pamela, con l’appoggio costante di suo marito, ha iniziato a piccoli passi. Con ombrellone e banchetto proponeva le sue uova nei vari mercati e il riscontro positivo le ha dato la carica per continuare a investire e impegnarsi in questo progetto. «Ho capito che il problema del buon cibo se lo pongono tante persone, soprattutto noi mamme». Oggi la sensibilità verso argomenti quali gli allevamenti intensivi e il benessere animale è certamente maggiore di un tempo e la scelta verso il cibo migliore è più accurata. Lo step successivo è stato quello di riuscire a vendere il prodotto nei negozi. «Io e mio marito siamo cocciuti, abbiamo fatto delle ricerche, ci siamo buttati dentro un iter burocratico che pareva interminabile e siamo riusciti a ottenere l’autorizzazione ministeriale grazie alla quale possiamo vendere nei market. In meno di un anno abbiamo raggiunto un obiettivo importante, ne siamo orgogliosi e felici!». Un’azienda agricola fresca fresca, nei territori di Loceri, una vera e propria oasi che ospita due gruppi di galline, uno da 250 e l’altro da 400, nel rispetto totale di questi simpatici animali.
«Le galline mangiano ciò che trovano in natura, come vermetti e pietroline. Stanno tutto il giorno fuori e all’imbrunire rientrano da sole nel capanno, dove possono trovare l’acqua, il cibo – noi aggiungiamo solo granaglie (indispensabili per la loro salute) – e i loro posatoi». Una grande soddisfazione il loro piccolo centro di imballaggi, che presenta tutte le potenzialità e le autorizzazioni che può vantare un grosso centro con trentamila galline.
Chiedo a Pamela come vede il futuro della sua azienda nata da poco: «Io sono già contenta così, vedremo come andrà, ho ancora tante cose da imparare, è meglio fare un passo per volta. Credo che aumenterò leggermente il numero di galline, ma non di tanto perché non potrei né garantire loro lo spazio e le attenzioni di cui hanno bisogno, né assicurare ciò che sto offrendo in questo momento».
Dopo la chiacchierata con Pamela mi rendo conto di quante volte, nei suoi discorsi, sia saltata fuori la parola felicità. Verso la fine chiedo il nome scelto per questa azienda: Felicemente all’aperto, mi dice. Appunto.