Volti e persone

Prevenzione e vaccino: così si sconfigge il virus
di Claudia Carta.
Parte la campagna di vaccinazione contro il Covid-19 anche in Ogliastra. Ne abbiamo parlato con il direttore sanitario dell’ospedale di Lanusei, Luigi Ferrai
Sono molto forti le parole di Papa Francesco. Forti come i tempi che stiamo vivendo. Forti come i rischi che stiamo correndo, quelli oggettivi legati a una pandemia che non sembra cedere un metro nella sua corsa globale, e quelli celati dietro diffidenze, bufale, negazionismo e complottismo.
Vaccino, una scelta etica. È forte anche la presa di posizione che la nostra chiesa diocesana fa, a partire dalla sua guida. La stessa scelta, libera, consapevole, convinta e responsabile che l’intera società ogliastrina fa e deve fare. Libera. Come tutte le scelte…
Eppure: «Credo che eticamente tutti debbano prendere il vaccino – afferma Bergoglio –. È un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita di altri». E aggiunge: «C’è un negazionismo suicida che io non saprei spiegare».
Prevenzione e vaccino sono gli strumenti che ora abbiamo in mano per arginare e sconfiggere il virus.
E allora è corsa contro il tempo per riuscire a mettere a punto la più grande campagna di vaccinazione che sia mai stata realizzata. Siamo in ritardo, è vero, a tratti si naviga a vista, ma la speranza è che, una volta entrata a regime, la macchina possa funzionare spedita.
Obiettivo cruciale e sforzo organizzativo notevole per raggiungerlo. Anche al Nostra Signora della Mercede di Lanusei si lavora senza sosta in questa direzione. È Luigi Ferrai, capo della direzione sanitaria del presidio ospedaliero ogliastrino, a illustrarci logistica e pianificazione: «Abbiamo iniziato la somministrazione dei vaccini lo scorso 7 gennaio: ho inoculato la prima dose del vaccino a una mia collega e successivamente sono stato io il secondo. Solo il primo giorno sono state somministrate 162 dosi di vaccino a medici, infermieri, operatori socio-sanitari e tecnici dell’ospedale. La somministrazione è proseguita anche nei giorni successivi, dal momento che nella sera del 6 gennaio sono state consegnate 426 dosi. Cercheremo di effettuarne quanti più possibile: il 7 gennaio abbiamo testato la macchina organizzativa, siamo in grado di somministrare 200 vaccini al giorno, anche di più. Ci sarà poi il richiamo che verrà effettuato dopo 21 giorni».
La logistica racconta di unità operative, attività di counseling e consenso informato: «Si tratta – prosegue Ferrai – di un’organizzazione che coinvolge diverse figure professionali, in primis gli igienisti, io e il mio collega, dott. Dessì. Abbiamo coinvolto anche un medico anestesista, primario di Anestesia e Rianimazione, dott. Francesco Loddo. Fanno parte, inoltre, dello staff quattro infermieri, tre amministrativi e un Oss. L’iter prevede la somministrazione del vaccino a tutte le unità operative. Abbiamo fatto tre gruppi, ognuno dei quali è composto da sei unità operative e, ogni ora, ciascun gruppo manda un suo professionista. Siamo predisposti per effettuare circa 18 vaccini all’ora, in realtà, siamo riusciti a farne molti di più».
Sui ritardi iniziali, il direttore sanitario risponde così: «Abbiamo perso un po’ di tempo all’inizio, perché abbiamo curato dettagliatamente quella che è la preparazione del vaccino. C’è, infatti, tutto un procedimento da seguire. Successivamente abbiamo organizzato la prima fase, quella cosiddetta del counseling: ogni professionista ha ricevuto una mail con la modulistica da compilare secondo quello che è il consenso informato, allegato che contiene una serie di domande sullo stato di salute della persona che dà il consenso alla vaccinazione. Infine, c’è una parte destinata al medico che gestisce il vaccino, l’indicazione del lotto, l’ora di somministrazione e la data. Dati e documenti che arrivano già con il professionista; io e il mio collega ne controlliamo la regolarità ed eventualmente approfondiamo alcune tematiche prima di dare il consenso alla vaccinazione. Una volta che questa viene effettuata, la modulistica viene trasmessa agli amministrativi che caricano sul sistema i dati, generando un flusso di informazioni a livello aziendale e regionale».
Il vaccino in distribuzione è quello Pfizer-BioNTech, «stoccato in frigo a circa -80° a Cagliari – dice ancora l’igienista –. Le dosi vengono successivamente trasportate a Lanusei o a Nuoro tramite catena di custodia del freddo, attraverso una ditta specializzata».
Attualmente il punto di vaccinazione è collocato all’interno dell’ospedale lanuseino: «Stiamo utilizzando un’ala di un reparto dove sono state allestite quattro stanze: una destinata alla segreteria per la raccolta dei dati, due alla somministrazione del vaccino e una stanza è allestita dal punto di vista rianimatorio se qualcuno, eventualmente, manifestasse qualche reazione allergica. Successivamente ci saranno dei punti di vaccinazione anche sul territorio, ma l’organizzazione territoriale andrà sicuramente in mano all’Igiene pubblica. È indubbio che l’ospedale offrirà, comunque, un supporto sul territorio come sta facendo da tempo perché c’è stata un’ampia e serena collaborazione tra ospedale, distretto, igiene pubblica, centro di igiene mentale. La nostra Asl da questo punto di vista è forte, collaboriamo costantemente, oggi ancora di più».
È ormai risaputo che i primi a essere vaccinati, come da normativa, siano gli ospedalieri, cioè a dire tutti i professionisti coinvolti, per la parte sanitaria, dentro il nosocomio. «Eseguita la somministrazione sulla parte ospedaliera – illustra Ferrai – procederemo con quella territoriale che va a coinvolgere i medici di medicina generale, le guardie mediche, gli specialisti, tutte le persone coinvolte nelle case di riposo, le persone fragili, ecc».
Poi il monito: «Il vaccino non è obbligatorio, ma è fortemente consigliato. Quello che abbiamo fatto in Ogliastra in questi ultimi dieci giorni è qualcosa di eccezionale, oserei dire di grandioso: uno screening di massa al quale hanno aderito quasi 30mila ogliastrini, con 300 sanitari e altrettanti volontari, che ha visto coinvolti 23 comuni e 46 postazioni, con una logistica senza precedenti, dato che la Asl di Lanusei – grazie al coordinamento di Luigi Mereu – ha fatto sì che le sedi avessero tutto il necessario per garantire la somministrazione del tampone antigenico. Il risultato: 152 persone positive che sono state sottoposte immediatamente a tampone molecolare così come i loro stretti contatti. Operazione che si è ripetuta l’11 e il 12 gennaio. Contemporaneamente stiamo somministrando il vaccino. È davvero importante – sottolinea ancora il vertice del Nostra Signora della Mercede – vedere quanto lavoro c’è dietro tutto questo: la direzione sanitaria, i miei più stretti collaboratori, le unità operative, gli specialisti ambulatoriali, i medici di medicina generale, i volontari e tutte le persone che ci hanno aiutato a ottenere un risultato così eclatante».
Sul dovere di fare il vaccino, Ferrai non ha dubbi: «Lo screening è una delle prime linee di prevenzione, è un autentico attacco al virus. Così pure lo è il vaccino. Stiamo lavorando sulla prevenzione e contemporaneamente stiamo cercando di annientare il virus: queste sono le armi che abbiamo in mano e dobbiamo assolutamente sfruttarle».

Sulla via di Damasco. Sintonizzati sulle frequenze di Dio
di Augusta Cabras.
Mattia Minetto è un giovane pieno di energia, amante dello sport, ogliastrino d’adozione, di professione osteopata
«Vivevo un periodo difficile della mia vita. Mi facevo tante domande ma forse non erano quelle giuste. La fede? Era un ricordo, sepolto, coperto di polvere e di stanchezza, di indifferenza e forse anche d’infelicità».
Incontro Mattia Minetto in una giornata autunnale che regala tiepidi raggi di sole. Parliamo di conversione, di Dio, di spiritualità, di testimonianza, di sport e di lavoro, «perché la mia fede non è scissa dal quotidiano, dal mio essere sempre e in tutti gli ambiti». E come non essere d’accordo!
Mattia ai primi anni del 2000, mentre conclude gli studi in osteopatia, rientra in Sardegna. La sua vita non brilla, galleggia in un mare d’insoddisfazione, di slanci mancati, di nebbia che non si dipana. Ma si sa, nelle situazioni di stasi, dove i passi si fanno pesanti e il cuore fatica, c’è sempre uno spiraglio che Dio attraversa con la sua misericordia e il suo amore. «Dio c’è sempre, c’era anche allora, ma io non ero sintonizzato sulle sue frequenze». E qualcosa accade.
Mattia e la sua futura moglie Patrizia, iniziano a frequentare gli incontri per prepararsi al matrimonio sacramento. Ogni appuntamento fatto di parole, di esperienze raccontate, di preghiera e di riflessione si trasforma in un leggero soffio che riaccende il fuoco della fede. E quindi quello della speranza. Il cammino è lento, ma diventa via via sempre più importante, bello, stimolante, tanto da dare alla vita di Mattia una nuova luce. «Questa rinascita – racconta – mi ha dato la possibilità di impostare la mia vita e il mio lavoro partendo sempre dall’essere a servizio degli altri. È forse un modo di essere che si scontra con la direzione che ha preso la nostra società, dove tutto sembra fatto per il tornaconto personale. Chi fa il mio lavoro sa di essere al servizio degli altri, al di là dell’aspetto economico. Lo fa per aiutare, e in questo la fede è un grande supporto».
Ricordando il tempo dedicato allo studio dell’osteopatia e ricordando in particolare una domanda che spesso veniva rivolta ai suoi maestri, si commuove. La domanda era questa: un osteopata può fare l’osteopata se non ha la fede? I maestri rispondevano: ricordati sempre che quando tratti un corpo, dentro c’è uno Spirito. Parole che gli fanno venire i brividi ancora oggi. Conferma che la relazione con i pazienti non è solo fisica, «perché c’è qualcosa che va al di là della nostra capacità di capire – sottolinea – e che costantemente agisce in loro e nei loro corpi; qualcosa che è più grande di noi. Per questo la fede è fondamentale, perché anche nei momenti più difficili, so sempre che c’è Qualcuno che opera, a cui mi posso affidare, che mi capisce. Dio è sempre disponibile e vicino, ma ci lascia liberi, anche di sbagliare. Sta a noi dargli la possibilità di entrare nelle nostre vite. Ogni volta che gliel’ho permesso, ogni volta che gli ho posto delle domande, non sempre sono arrivate le risposte che io mi aspettavo, ma sempre è arrivato qualcosa di positivo, ho sempre sentito dentro di me un cambiamento».
Da quel percorso di fede, iniziato con la preparazione al matrimonio, Mattia riprende a frequentare le celebrazioni e ogni volta è una scoperta. Ha la netta sensazione che le parole pronunciate dal celebrante siano scritte e dette per lui. La Sacra Scrittura diventa appiglio costante, fonte fresca da cui attingere incessantemente le risposte giuste ai grandi interrogativi, alle assillanti domande che puntellano l’esistenza. Gli chiedo se c’è una o più pagine del Vangelo che lo accompagnano costantemente e lui non ha dubbi. Uno è il brano raccontato da Luca nel capitolo 5. Gesù nel lago di Genèsaret vede due barche ormeggiate. Simone e gli altri pescatori sono in difficoltà, hanno pescato tutta la notte ma non hanno preso nulla e, sconfortati, sono alle prese con le reti vuote. In quella scena c’è l’umanità tutta che perde la speranza: «Vedo Gesù – commenta – con i suoi sandali che cammina e dice a Simone: prendi il largo e calate le reti per la pesca. Simone tentenna, ma poi si fida e si affida; getta le reti e le reti si riempiono di pesci».Gesù ribalta sempre le situazioni, è la speranza che non delude mai. È anche (o meglio spesso) quello che non ti aspetti. «Ho questa immagine nei miei occhi – aggiunge –: Gesù viene verso di noi, con i sandali ai piedi, con la sua semplicità che conquista e salva».
Ma c’è anche un passaggio di San Tommaso d’Aquino che è lampada per i passi di Mattia: “La vera pace consiste nel non separarci dalla volontà di Dio”. «Dio non ci lascia finché non prendiamo la direzione giusta – prosegue – al di là delle nostre difficoltà. Ci dobbiamo fidare. Anche Gesù nel momento della sua Passione, ha espresso la sua profonda umanità chiedendo a Dio “allontana da me questo calice”, ma poi si è affidato completamente alla sua volontà. È quello che dovremmo fare anche noi. Non è facile, perché è più semplice fuggire dal dolore e dalle difficoltà, ma è anche in quei momenti che Dio fa nascere in noi raggi di luce che ci trasformano nel profondo».
L’osteopata ogliastrino paragona la sua esperienza di fede all’esperienza della paternità, considerata un dono. La fede è testimoniare qualcosa di bello che ha cambiato la vita, che accompagna tutti i giorni, che fa camminare in una strada di speranza e di fiducia, verso noi stessi, verso gli altri e verso Dio. Decentrare la dimensione spirituale, negarla, allontanarla, determina il rischio di far appassire tutti i valori, di considerare e amare l’uomo solo come corpo e materia senza riconoscere la sua essenza.
La fede è luce che illumina anche i tempi bui come quelli che stiamo vivendo oggi, a causa dell’emergenza sanitaria. «Credo che anche da questa esperienza possiamo imparare», sostiene.
E per lui questi mesi difficili sono stati occasione per meditare, pregare, illuminare gli angoli bui di altre vite, condividere la sua fede con la sua comunità parrocchiale e con quanti, in una serata di fine estate, hanno assistito al suo racconto Diario di un laico ai tempi della pandemia.
Ogni opportunità è buona, anche dentro il peso di un momento difficile, per tornare ancora una volta all’essenzialità del messaggio evangelico, tra amore e speranza.

La bottega di Pablo. Questione di…testa
di Iosè Pisu.
Barba o capelli? Michele, barbiere lanuseino di 25 anni, è pronto ad accontentare tutti e a coniare un marchio che vuole viaggiare lontano
Chi dice che i giovani d’oggi non hanno più sogni, progetti, passioni come una volta, si sbaglia. Basta cercarli, incontrarli, parlarci e soprattutto conoscerli, per cambiare idea ed essere smentiti.
Chi incontra Michele, un lanuseino di 25 anni con la freschezza di un diciottenne, capisce subito che ci sono giovani che hanno dei progetti e sono pure capaci di realizzarli, curando tutto nei minimi particolari.
Come suo insegnante, l’ho lasciato tra i banchi di scuola alle medie e rincontrarlo dopo anni nella sua Bottega di Pablo, mi ha fatto provare una particolare emozione. Non so se lui fosse emozionato quanto me, sta di fatto che la nostra è stata una bellissima chiacchierata, dalla quale è emersa la sua vitalità, sincerità e schiettezza. Persino alle domande più personali ha risposto con molta semplicità: «Nessun problema, chiedi pure». Ognuno si è sentito a proprio agio e abbiamo parlato da uomo a uomo, atteggiamento che ben si addice al luogo in cui eravamo, un posto per soli uomini, la sua barberia.
Mi incuriosiva tanto sapere cosa ha spinto un ragazzo ad aprire oggi una barberia nella sua piccola cittadina, dove tra l’altro sono già presenti altre barberie. Quando e come è nata in lui questa passione: «L’idea del barbiere l’avevo sin da bambino e l’ho maturata da ragazzo – racconta –. Mi piaceva andare un po’ da tutti i barbieri del paese e mi incuriosiva il loro mestiere. Un giorno a 15 anni ho chiesto a mio padre se potevo provare a tagliargli i cappelli, ma finii per rasarlo a zero! Per un mese fu costretto ad andare in giro con un berrettino… Comunque la passione c’era, dovevo solo studiare un po’». La tecnica era sicuramente ancora da affinare.
Michele lascia riposare questo desiderio nel cassetto del suo cuore e della sua mente, e continua gli studi liceali. Conseguito il diploma, tenta i test all’università in Scienze della formazione per seguire l’altro suo sogno: «La mia idea era quella di aiutare i ragazzi con disabilità. Ma evidentemente non era quello che avrei dovuto fare». Decide, così, di prendersi un anno sabatico. Dopo qualche lavoretto, «per non pesare troppo sulla famiglia», decide di risvegliare la sua passione giovanile. Così a 21 anni si iscrive a Cagliari a un corso europeo per acconciatori che frequenta per tre anni, viaggiando tre giorni alla settimana per seguire le lezioni. Terminato il corso, «grazie ai miei genitori – sottolinea – che hanno comprato un piccolo stabile nella centrale via Roma, a Lanusei, e alla mia caparbietà, ho deciso di aprire la mia barberia. Con mio padre muratore, abbiamo iniziato i lavori di ristrutturazione nel periodo del lockdown, preparando il locale a ospitare la nuova attività».
Il risultato di tanto lavoro è un locale semplice ma accogliente, che richiama l’idea della bottega e del lavoro artigianale. Entrando, salta all’occhio un grande arco in pietra scoperto durante i lavori, che fa da cornice al piano con i lavandini; sotto il piano risalta un bellissimo ramo in legno di ginepro. Di fronte ai lavandini vi sono i due posti a sedere girevoli, come quelli di una volta. Alla destra ci sono una macchina da cucire antica, un vecchio telefono fisso con la rotella e un rasoio antico, mentre a sinistra si trova un comodo divano e, appeso al muro come fosse un quadro, un veliero costruito a mano con dei fiammiferi. In questa atmosfera d’altri tempi, osservando bene, si nota qualcosa di moderno: un quadro di un artista locale raffigurante il ritratto di un cane, precisamente un bulldog, di nome Pablo. «Volevo dare un’impronta personale alla mia barberia – commenta – e ho scelto il nome del cane che avevo regalato due anni fa alla mia ex ragazza, con la quale sono rimasto in buoni rapporti». Ho chiamato il locale La bottega di Pablo.
Una cosa che mi ha incuriosito era capire se c’era una ragione particolare nello scegliere di essere un barbiere e non un parrucchiere. «In Italia esiste il mestiere dell’acconciatore di cappelli, che unisce le figure di parrucchiere e barbiere insieme, ma secondo me così si sminuiscono entrambi i ruoli. Io sono dell’idea che in Italia debbano esserci delle scuole per barbiere, per solo uomini, come era una volta».
Michele parla in modo disinvolto e sicuro. Gli chiedo se in questo percorso abbia incontrato ostacoli e difficoltà. «A dire la verità nessuna in particolare. Prima dell’apertura ero molto teso e in ansia; ma una volta aperto sono rimasto molto soddisfatto. Dopo un mese dall’apertura sono anche riuscito a rendermi indipendente, ora infatti vivo per conto mio. Sono davvero contento! A parte il Covid e le restrizioni, che però riesco a gestire bene con le prenotazioni. Ho tante idee da realizzare per i clienti, come ad esempio il poter prenotare anche online. Per ora sta andando tutto bene, non mi posso lamentare. Anche i clienti sembrano contenti, ancora nessuno si è lamentato e stanno tornando; c’è poi chi ha sottoscritto l’abbonamento mensile e chi segue le diverse promozioni».
Nella vita di un ragazzo sono fondamentali le amicizie e cosi ho chiesto a Michele che ruolo avessero avuto in questo progetto i suoi amici. «Erano felicissimi – aggiunge – soprattutto perché ne hanno approfittato alla grande mentre facevo il corso: sono stati più che fortunati! Vengono spesso a trovarmi. E il giorno dell’inaugurazione, il 21 agosto scorso, hanno organizzato una piccola festa come se fosse stata una laurea».
Come insegnante ho lavorato per tanti anni a Lanusei e nei paesi limitrofi, constatando che spesso tanti giovani si allontanano dal proprio paese in cerca di lavoro. Michele invece ha deciso di rimanere nel suo paese, ma con la voglia di ampliare la sua attività. «Lanusei è casa, un punto da dove partire per poi arrivare altrove. Ho dei progetti sia per crescere nei numeri che per andare da altre parti, ma non per forza spostandomi io. La mia idea è di avere il mio marchio, La bottega di Pablo, e con questo aprire altre barberie, gestendole sempre da qui».
Il tempo è trascorso in fretta e quando lo saluto, mi dice fieramente: «È una bella soddisfazione aver realizzato questa bottega; ho lavorato tanto per renderla così accogliente, la conosco centimetro per centimetro, so persino dove passano tutti i cavi elettrici! Devo sicuramente la realizzazione di questo mio sogno per il 50% ai miei genitori, per il 40% a me e per il restante 10% ai miei amici e a tutti quelli che hanno creduto in questa bella avventura». Buon viaggio Michele!

Custodire la memoria
di Fabiana Carta.
Come un’eterna ricerca di quel piccolo mondo antico, dove il primitivo e l’arcaico fanno da sfondo a racconti, leggende, visioni e riti. Come per voler rivivere la suggestione del barbarico, del religioso, del superstizioso, le opere di Simonetta Delussu sono un omaggio alla nostra terra e alle nostre radici. Un’infanzia passata ad ascoltare le storie affascinanti e misteriose dei nonni e il desiderio che non andassero perdute. Questi racconti sono il filo conduttore di tutte le sue opere, «i racconti dei bidemortos (persone che avevano il dono di vedere lo spirito dei defunti) – mi spiega – che sono soprattutto donne. Storie incredibili che la fantasia non eguagliava e così mi son detta: ma perché perderle?». Ricorda la carissima nonna Rosina che aveva delle doti particolari, fonte primaria di ispirazione dei suoi libri, la ritroviamo nel personaggio di Rosa in Spiriti nella notte. Simonetta nasce a Tertenia e il legame con questo luogo è stato di fondamentale importanza per la sua formazione umana e professionale: «Il legame con la Sardegna, che ha accolto il mio primo respiro, è di simbiosi. Vivendo in una terra gelosa, devo dire che non ho mai spezzato il cordone che mi legava a lei. Così come un bambino non può stare lontano dalla mamma, io sento la stessa struggente nostalgia ogni volta che mi devo allontanare. Ha influito molto il mio essere sarda con la formazione che mi ha modellato».
Una laurea in Lettere e Filosofia all’università La Sapienza di Roma e un dottorato in Usi e Costumi sardi conseguito in Germania, che ricorda con piacere: «I tedeschi mi hanno fatto vedere il lato più magico della mia terra che loro studiano e amano tantissimo». Per scrivere i suoi saggi, sempre con grande desiderio di conoscenza, unisce la ricerca storica in archivio alla ricostruzione delle storie tassello per tassello, ascoltando gli anziani, i mannos, e corredando il tutto con le fotografie. «Alla fine c’era la storia lì davanti, quella che nessun libro avrebbe raccontato. C’era un personaggio che viveva davanti ai miei occhi, srotolava la sua vita e raccontava una Sardegna che non c’era più e così vivevo cento, mille vite», mi spiega.
Simonetta Delussu scrive da quando era una ragazzina: fa le sue prime esperienze nel giornalino locale, pubblicando per lo più racconti e poesie. All’età di vent’anni pubblica il suo primo libro di poesie, dal titolo Gabbiani. Da quel momento non si è più fermata: «Per me scrivere è come mangiare o respirare». Le domando, per soddisfare una grande curiosità, che tipo di scrittrice è: «Nella scrittura sono maniacale, l’editore deve strapparmi il libro dalle mani perché non finisco mai di correggerlo e rivederlo, parola per parola. Prima butto giù lo scheletro poi vado a rimpolpare, ed è un lavoro abbastanza lungo. Scrivo a braccio, mi faccio portare dalle sensazioni che il personaggio mi detta, come se avesse vita propria. Alla fine rileggo a voce alta tutto, meglio se ho davanti il libro in cartaceo. Ultimamente ho preso l’abitudine di inviarlo alla mia cara amica Marilena Cardia, prima ancora che all’editore: è una critica spietata e meravigliosa. I miei libri le devono molto. In genere amo scrivere vicino al camino o seduta sotto un albero, un posto tranquillo senza rumori circondata da libri o da alberi. Esisto solo io e il foglio bianco».
Parliamo di progetti futuri e mi racconta che sta per uscire con Parallelo 45 il suo nuovo libro, dal titolo L’eternità dura un’ora – la storia vera di Maria Pitzettu rapita dai pirati, portata in Algeria dove diventa la tata del figlio del Dey e finisce nell’harem – e sta lavorando in contemporanea a un nuovo romanzo che racconta di sette donne arse vive nell’autodafé del 1789 a Sassari.
Le donne, personaggi complessi e interessanti, coraggiose, forti e misteriose, sono le protagoniste indiscusse delle sue opere. Non solo scrittrice, Simonetta è anche una professoressa di lettere alle scuole superiori, ha quindi a che fare con una generazione che tende a leggere e scrivere poco. E meno si legge più il vocabolario si impoverisce. «È vero – conferma – la lingua è destrutturata, depauperata e così anche il loro mondo, la fantasia, e l’abitudine di mischiare termini inglesi quando abbiamo le corrispettive parole in italiano, fa sì che si perda anche la poca identità che eravamo riusciti a mantenere. Così quando leggono scelgono testi poveri, elementari, perché hanno perso di vista le parole più complesse. Bisogna educarli alla lettura, alla comprensione del testo. Ecco perché io faccio leggere in classe, a voce alta, Amore e psiche con fronte in latino, oppure Seneca, e pace e bene se devo spiegare parola per parola! Butti i semi, qualcosa attecchisce». Simonetta, battagliera e tenace come gli alberi che sopravvivono piegandosi al vento o crescono avviluppando le radici nella roccia, si fa custode del passato e portatrice di una memoria storica che sfida il tempo.

Insegnare? Una vocazione
di don Ignazio Ferreli.
L’esperienza di don Ignazio Ferreli docente alla Facoltà Teologica, l’amore per lo studio e il suo rapporto con gli studenti
In una lettera inviatami da Parigi nel maggio del 1995 il padre Sebastiano Mosso così mi confidava: «Io registro, con grande consenso positivo, la tua esigenza seria, vitale, non strumentale: mi pare di registrare come i “segni” di una “vocazione” allo studio». Questa stessa impressione era diventata auspicio nel 1997 quando ancora mi scriveva: «Spero che un giorno possa dare un aiuto prezioso anche nella nostra facoltà».
In effetti i desideri del Padre Mosso si concretizzarono il 4 ottobre del 1999, festa di san Francesco, in una telefonata con il quale il Padre Maurizio Teani mi chiedeva la disponibilità per un servizio in Facoltà. Quella chiamata avvenne mentre andavo a celebrare la Messa nel santuario della Madonna d’Ogliastra. Quel giorno avevo parlato del fatto che san Francesco pregava così: Mio Dio, mio tutto, e di quella Totalità ne ero e ne sono intimamente persuaso.
Si tratta della medesima persuasione con la quale cerco di vivere il mio studio come una vocazione, così come aveva avvertito Padre Mosso, nel senso di una ricerca della totalità nella storia delle persone, soprattutto nella vicenda dei ragazzi che si preparano a ricevere il sacramento dell’ordine sacro. Anche se è vero che la Facoltà è aperta a tutti, confido che io sento una sensibilità particolare verso i seminaristi, immedesimandomi nelle difficoltà che anch’io provavo nello studio della teologia e della filosofia.
Da oltre vent’anni mi occupo dei corsi di Metafisica e Teodicea.
La Metafisica che, come Kant ci avverte, da Aristotele non ha fatto che pochi passi avanti, è una scienza che ha per oggetto una causalità i cui moventi non si ritrovano nelle motivazioni naturali. Ed è proprio per questo che occorre ricercare nella causalità che non trova moventi negli eventi naturali, come le relazioni di amicizia tra le persone che si vogliono autenticamente bene. L’essere in quanto essere, in questa mozione, è una gratuità che non corrisponde a nessuna scienza dell’essere particolare; e ci conduce sino a quella sostanza che nella transustanziazione del mistero eucaristico connette le relazioni trinitarie con le vicende umane.
La Teodicea, che tenta di vedere le possibilità della ragione umana di trovare qualche strada per rendersi familiare l’esistenza di Dio e qualche parvenza delle sue dignità, è una scienza che impone una umiltà enorme. Al culmine della nostra possibilità speculativa, afferma san Tommaso, giungiamo a conoscere Dio come ignoto (in fine nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscere possumus). Eppure, in questa nebbia dell’intelletto, abbiamo una possibilità straordinaria di congiungerci ottimamente a Dio (optime Deo conjungimur) quando gli effetti dell’amore di Dio nelle creature soccorrono l’indigenza della ragione umana.
Si tratta di itinerari di ricerca in cui io stesso debbo essere continuamente alunno con i miei alunni, fornendomi in questo modo l’esperienza di una grande soddisfazione quando, assieme, si giunge a qualche risultato e, allo stesso tempo, di enorme delusione e tristezza quando per qualche povertà della Facoltà o di altre circostanze si perde il tempo della meraviglia e della scoperta.

Dialogo fra religioni: un complesso percorso di rinnovamento culturale
a cura di Augusta Cabras
I cristiani, sappiamo essere perseguitati in molte parti del mondo. Il rischio è alto anche in Occidente?
Non possiamo paragonare quanto avviene in Cina o in altri Paesi non democratici con la situazione in Occidente. In Cina, per esempio, il governo riconosce – ma anche qui con limitazioni – una solo Chiesa protestante unificata e con leader nominati dal Partito Comunista, la cosiddetta Chiesa delle Tre Autonomie, e un’associazione detta patriottica che in teoria dovrebbe riunire tutti i cattolici. Prima del 2018 l’adesione all’associazione era vietata o almeno sconsigliata ai cattolici dalla Santa Sede. Con l’accordo tra Vaticano e Cina del 2018, che dovrebbe ora essere rinnovato, la Santa Sede consente – da qualche punto di vista, perfino consiglia – ai cattolici l’adesione all’associazione, ma nello stesso tempo in un documento del 2019 ha chiesto «rispetto» per chi, per ragioni di coscienza, si rifiuta di aderire. In verità non c’è nessun rispetto. Chi rifiuta di aderire all’associazione patriottica è discriminato in mille modi e spesso finisce in prigione. Quanto ai protestanti, chi si rifiuta di aderire alla Chiesa delle Tre Autonomie è fuori della legge e perseguitato.
In Occidente non parlerei di persecuzione, piuttosto di intolleranza, che è un fatto culturale, e che qualche volta diventa discriminazione, un fatto giuridico.
Quali sono gli elementi del cristianesimo che maggiormente generano nelle persone di altre religioni questi atteggiamenti?
Vi è oggi in Occidente una cultura che non è necessariamente maggioritaria nella popolazione – come gli esiti delle elezioni dimostrano in diversi Paesi – ma è assolutamente maggioritaria tra coloro che scrivono sui grandi media che fa prevalere i cosiddetti nuovi diritti – aborto, assoluta libertà sessuale, rivendicazioni delle persone omosessuali, e così via – rispetto ai diritti umani tradizionali, compresa la libertà religiosa. Il cristianesimo non accetta questo rovesciamento nella nozione dei diritti – che per la verità preoccupa anche intellettuali non cristiani – e per questo è visto come un ostacolo che deve essere spazzato via.
Cosa del Magistero di Papa Francesco incide di più, secondo lei, nella prospettiva dell’incontro tra le religioni?
Papa Francesco è talora criticato “da destra” per discorsi come quello che tenne a Posillipo nel 2019, dove afferma che ci sono elementi di verità in tutte le religioni e talora altre religioni hanno qualche cosa da insegnare a noi cattolici. Personalmente, apprezzo queste aperture, che in realtà hanno precedenti nel Magistero antecedente a Papa Francesco. Non si tratta di relativismo. Ma ci sono molti modi di guardare la stessa verità e lo sguardo di altre religioni può spesso aiutare il nostro. C’è anche una critica “da sinistra” a Papa Francesco, accusato di avere deluso le promesse di chi si aspettava che riformasse radicalmente la Chiesa, magari aprendo il sacerdozio alle donne o agli uomini sposati. A me sembra che il modo gentile ma sistematico in cui Francesco ci invita a cogliere gli elementi di verità in altre religioni sia non una rivoluzione (come ho accennato, non mancano i precedenti) ma uno stile nuovo, che comporta un rinnovamento più profondo rispetto a riforme che magari sarebbero più facilmente leggibili da parte dei grandi media.
Il Medio Oriente è uno dei terreni più infuocati, ma è anche il luogo delle tre grandi religioni. Come si concilia questo e come si conciliano tra loro?
Il Medio Oriente è un terreno di scontro politico e questo scontro politico ha una dimensione religiosa. Una parte del mondo politico israeliano – non tutto e non la maggioranza – vede nella difesa e nell’espansione dello Stato d’Israele una missione voluta direttamente da Dio. Una parte del mondo politico medio-orientale musulmano – non tutto, ma in questo caso, e almeno finora, la maggioranza – vede nella distruzione dello Stato d’Israele qualche cosa cui i musulmani non possono rinunciare senza tradire a loro volta un comando di Dio. Se le posizioni rimangono queste, ovviamente lo scontro non avrà mai fine. Tuttavia, ci sono degli sviluppi positivi, tra cui il fatto che nelle ultime settimane prima gli Emirati Arabi Uniti e poi il Bahrain abbiano allacciato relazioni diplomatiche con Israele, grazie agli sforzi della diplomazia americana. Anche la diplomazia della Santa Sede lavora – com’è suo costume – lontano dai riflettori, ma opera incessantemente per la pace.
Lei si occupa e si è occupato di religione e religioni, ma anche di esoterismo, spiritismo ecc. Nei tempi di maggior crisi e difficoltà, aumenta la tentazione da parte delle persone più fragili, di affidarsi a queste pratiche pericolose?
È importante distinguere diversi livelli. Oggi c’è una tendenza a usare esoterismo come se fosse una parolaccia. In realtà l’esoterismo – una materia che si studia in molte università, c’è un intero istituto che se ne occupa all’Università di Amsterdam e una cattedra alla Sorbona – è una quinta ineliminabile della storia del pensiero occidentale, dall’epoca ellenistica ai giorni nostri, passando per il Rinascimento. L’esoterismo è stato attaccato come pericoloso prima da una certa cultura protestante, per cui era il residuo della Roma pagana presente nel cattolicesimo, poi dall’Illuminismo in nome della ragione, quindi dal marxismo sulla base della tesi che l’esoterismo favoriva posizioni politiche di destra (una tesi falsa, perché nell’Ottocento è stato semmai il socialismo a essere legato a filo doppio all’esoterismo). Oggi la cultura accademica ha rivalutato l’esoterismo. La stampa però qualche volta confonde l’esoterismo come corrente di pensiero con l’occultismo, che è un insieme di pratiche che comprendono evocazione di spiriti, divinazione, fatture (non quelle fiscali!), uso di talismani e così via. Tra esoterismo e occultismo c’è una relazione, nel senso che alcuni esponenti anche di primo piano dell’esoterismo – ma non tutti – si sono interessati all’occultismo. Ma non c’è nessuna relazione tra l’esoterismo in senso proprio e l’occultismo cialtrone dei maghi a pagamento che, come lei dice, sfruttano le persone più fragili al solo scopo di arricchirsi. La loro conoscenza della cultura esoterica è spesso inesistente.
Massimo Introvigne
Sociologo, dirige a Torino il CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni). Nel 2011, è stato Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa.