In breve:

Volti e persone

Giardinieri

Giardini d’autore in Ogliastra

di Fabiana Carta.

Giuseppe, Giorgio e Patrizia Foddis, di Baueni, artigiani e artisti del verde

I primi passi in questo mondo dipinto di verde cominciano nei primi anni Settanta con babbo Luigi. Poi, i semi sparsi qua e là hanno attecchito anni dopo, anche sui suoi figli: Giuseppe, Giorgio e Patrizia Foddis. I ricordi più vecchi, al profumo di fiori e piante, sono legati a un villaggio turistico vicino al mare. La struttura aveva chiuso i battenti, ma il verde continuava a essere curato. «Nostro padre ci portava con sé, giocavamo insieme ai figli del guardiano, ma allo stesso tempo eravamo spettatori di tutti i lavori di giardinaggio – ricordano Giuseppe e Giorgio – lo abbiamo sempre seguito e accompagnato nei suoi cantieri, anche quando siamo cresciuti un po’. Ci siamo ritrovati a lavorare in questo mondo senza neanche accorgercene».

Una scelta che è fluita in modo naturale. Nel passaggio dalle scuole medie alle superiori, ricordano la proposta di scegliere l’Istituto Agrario fatta da babbo Luigi, lanciata come un piccolo suggerimento. Sfumato. «Non l’abbiamo colto. A 13 anni non pensi che tuo padre ti suggerisca una via per prepararti al lavoro, a quell’età non ci pensi proprio che quella scelta ci sarebbe potuta servire un giorno. Tant’è che io mi sono iscritto alla Ragioneria», ricorda Giuseppe.

A 16 anni decide di fermarsi perché non sembra sentirsi a suo agio fra diritto ed economia aziendale, così lascia la scuola per andare a lavorare con suo padre. Dopo due anni torna sui banchi a prendere il diploma, però, dopo tutte le stagioni e le pause dalla scuola passate ad affiancare babbo Luigi, a quel punto la direzione era chiara e definitiva. «Da bambini e ragazzini non ci faceva lavorare sul serio, però un giorno guardavi, un giorno gli passavi un rastrello, un giorno imparavi davvero. All’inizio non l’abbiamo visto come un lavoro, era solo un andare a fargli compagnia», raccontano.

Sia Giorgio che Giuseppe si specializzano in centri di formazione professionale fuori dalla Sardegna, uno a Bologna e l’altro a Monza, alla scuola agraria del Parco, dove studia arboricoltura. Patrizia, la sorella minore, ha in testa altri progetti che non prevedono fiori e piante, infatti dopo gli studi classici si laurea alla facoltà di Scienze Politiche sognando un futuro nelle relazioni internazionali. Da bambina ricorda alcuni momenti trascorsi con sua madre, nel negozio di piante aperto nel 1988, insieme alla grande collezione di libri sul giardinaggio sistemati in una libreria dietro i vasi esposti. «Il mio professore delle medie mi aveva consigliato di iscrivermi all’Istituto Agrario di Sassari, conosceva la mia famiglia. Non l’ho ascoltato perché avevo altre idee. Alla fine del mio percorso di studi ho fatto alcune esperienze, ma mi sono resa conto di non riuscire a stare lontano dal luogo di nascita e stando qui sarebbe stato molto difficile fare qualcosa inerente alle relazioni internazionali», racconta Patrizia.

Le piante sono un destino di famiglia. Così, dopo un lungo giro, torna a Santa Maria Navarrese e prende in mano il vecchio negozio di famiglia, rinnovandolo. Oggi lei è il centro dell’azienda, si occupa della contabilità, di allestimenti per matrimoni e segue il negozio. «Da quando sono tornata ho iniziato a lavorare anche il fiore reciso, ho fatto un corso di un anno nella scuola Federfiori a Vigevano e ho capito che questo lavoro mi piace molto. Soprattutto quando mi dedico agli allestimenti. Non mi dispiacerebbe approfondire gli studi che riguardano il giardinaggio, per imparare a progettare terrazze, il verde verticale, aiutando i miei fratelli nel lavoro», spiega.

Patrizia ha ereditato da suo padre il senso del gusto, dell’estetica, l’attenzione per i dettagli. Dai primi anni 2000, quando hanno iniziato ufficialmente a fare il mestiere di giardinieri, si sono fatti strada in questo settore trovando un loro stile personale e inconfondibile. Come dei pittori, lasciano la firma in ogni spazio verde. «Lavoriamo sia per abitazioni private che per strutture ricettive, villaggi e alberghi, in giro per tutta l’Ogliastra e a volte anche in altre zone della Sardegna. Abbiamo tantissime richieste, durante l’estate il lavoro diventa molto frenetico», spiegano. Così frenetico da non riuscire quasi più a cogliere il lato poetico di questo mestiere, così frenetico da non avere il tempo di contemplare la bellezza di fiori e piante. «Ricordo la frase di un cliente – dice Giuseppe –: «Che bello, voi lavorate con le piante, con degli esseri viventi». È vero, ma potrei apprezzare di più questo aspetto se potessi lavorare senza l’affanno di dover seguire tanti cantieri. D’estate la poesia quasi scompare, lavori come una macchina. Nella nostra zona si sente la mancanza di professionisti in questo settore, le richieste sono davvero tante. Abbiamo un dipendente fisso per tutto l’anno e due o tre da assumere durante la stagione estiva. Cerchiamo di dividerci».

Il lavoro del giardiniere potrebbe assomigliare a quello di un artista che deve creare la scenografia perfetta: si parte dalla visita al cantiere e da uno sguardo al terreno, dal contesto geografico, dal tipo di struttura, si immagina cosa “costruire”. Si scelgono i colori per la tela, si decide dove applicarli. Giuseppe e Giorgio non fanno progetti su carta – e questo rende il tutto ancora più difficile –, ogni idea si sviluppa nella loro testa, immaginando e proiettando nel tempo, in quel determinato luogo, fiori e piante. «Quando dobbiamo fare un nuovo lavoro chiediamo al cliente massima fiducia, dove è possibile. Osserviamo il terreno nudo e in base il contesto ci facciamo una prima idea sul tipo di piante da disporre, sul come disporle, pensando sempre anche al loro sviluppo. Ci dobbiamo immaginare quel giardino da “adulto”, con la nostra impronta», raccontano. E poi c’è la cura continua, lo scorrere del tempo e delle stagioni. L’inverno è la stagione più rilassante, il lavoro si fa lento, segue i ritmi della natura. Si può avere il lusso di dedicarsi solo a un olivastro millenario, abbandonato da decenni, cuore a cuore, per rimetterlo in sesto. «Così ho il tempo di girarmi con soddisfazione, osservare il lavoro che ho fatto, e sentirmi bene», conclude Giuseppe.

Piero Marras

A tu per tu con Piero Marras. La musica è libertà e comunicazione

a cura di Augusta Cabras.

Qualche mese fa ha tenuto una lezione-concerto in una scuola media di Tortolì.
Che è esperienza è stata? Si può ancora dialogare con i più giovani?

Si può certamente dialogare e la cosa bella è che hanno una disponibilità totale alla vita e anche alle novità. La musica per me è l’elemento primario formativo, che permette di comunicare e di potersi parlare intimamente. Incontri come quelli sono per me un modo per portare la musica, per consigliarla. Io consiglio la musica a tutti, è il rimedio al male di vivere, alla solitudine, è un’energia straordinaria per l’anima, per un percorso interiore serio.

Quando nasce questa passione e come l’ha coltivata?

Nella mia famiglia la musica è stata sempre presente. Io sono l’ultimo di quattro fratelli e mia madre a tutti fece studiare la musica, considerandola una componente importante della formazione. A 7 anni iniziai a prendere lezioni di piano e l’impatto non fu semplice anche perché si iniziava subito con il solfeggio. Poi smisi di seguire quelle lezioni per me così pesanti e quella fine fu in realtà l’inizio della conquista della musica, perché quando la musica smise di essere insegnamento e costrizione, divenne libertà. E allora io ero sempre attaccato ai tasti neri e ai tasti bianchi del pianoforte. È stata una scoperta e da allora non l’ho mai lasciata.

C’è stato un momento in cui ha capito che la passione poteva diventare professione?

Io sono un privilegiato perché sono riuscito a far coincidere le due cose: passione e professione. È stato un percorso graduale, anche di autostima personale che ogni tanto vacillava. Dovevo decidere a un certo punto se fare il professore di lettere o il musicista. Ho fatto tutta la gavetta; ho fatto parte di gruppi musicali, uno che si chiamava 2001, arrivò a Saint Vincent per Un disco per l’estate. A 18 anni da Nuoro mi trasferii a Cagliari e la musica mi aiutò a inserirmi, a comunicare. Suonai in diversi gruppi e questo fu molto formativo. A 24/25 anni era arrivato il momento di decidere cosa fare, nonostante a casa mia fossero molto tranquilli. A questo tipo di educazione molto libera e aperta devo molto perché mi ha permesso di continuare questa strada. Nel 1977 avevo scritto tutto Fuori Campo. Un amico di vecchia data fece ascoltare questo nastro a un direttore artistico della Emi italiana che rispose entusiasta. Capii che c’erano persone disposte ad ascoltare la mia musica. Credo che quello sia stato un momento fondamentale.

Lei canta sia in sardo che in italiano. Quali sono le differenze dal punto di vista musicale?

Sì, è diverso il suono della lingua, il suono della parola. Il sardo ha una grande peculiarità che, secondo me, ha a che fare con la sacralità che noi sardi abbiamo dentro. Noi abbiamo un senso religioso della vita, nel modo di affrontarla. Siamo molto seri, abbiamo poca leggerezza. E questo si riflette nella musica, nelle canzoni, nei testi che scegliamo. Sono spesso preghiere, cito la mia Mere manna, ad esempio. Abbiamo sempre questo riferimento all’Altro, che sia il cielo o la madre terra. Questo modo secondo me appartiene soprattutto ai sardi che hanno anche una storia non da vincitori, ma più spesso da vinti. Noi riusciamo a cantare la vita in maniera quasi spirituale. Io cerco di interpretarla, e ci sono tante sfaccettature. Io stesso non ho cantato solo canzoni spirituali, ma anche canzoni che dimostrassero che la lingua non è un fatto museale o da abbondare, ma può affiancarsi benissimo con il mio background che viene dal rock. Io non ho mai cantato la tradizione pura. Da quando ho fatto l’album Abbardente nel 1984 ho visto che qualcosa è successa, nel senso che ci è stata una presa di consapevolezza di sé anche negli altri gruppi che hanno iniziato a scrivere e cantare in sardo anziché fare solo cover.

Cosa è l’ispirazione?

Io non credo nel concetto di ispirazione come qualcosa che si aspetta. Serve cercarsi, entrare e frugare dentro se stessi, stimolarsi. Serve mettersi in movimento e in un atteggiamento di disponibilità e positività. Devi essere felice di quello che vivi, devi essere contento del tuo mondo. Io ho un mio modo di comporre: sto ore e ore, con il pianoforte o la chitarra, e suono, suono, senza sapere cosa sto suonando. Suono e poi arrivo dopo alle parole. Registro, lascio fermentare, poi riascolto in un momento in cui non ricordo nulla di quello che ho fatto e lì posso trovare elementi, idee, qualche melodia interessante da cui poi nasce qualcos’altro.

Lei è particolarmente attento ai talenti sardi. Mi riferisco anche al Campus di Energia Creativa. Da dove nasce questa idea?

Ho sentito l’esigenza di questo tempo e di questo spazio perché purtroppo non c’è nulla in Sardegna che permetta ai giovani, agli artisti di incontrarsi, sperimentare, confrontarsi. Io considero la canzone d’autore come una forma d’arte, quella dei cantautori è stata una corrente letteraria, e lo scambio è fondamentale. Le scuole che sono nate in Italia, avevano un grande vantaggio, che avevano dei luoghi di incontro e di scambio: pensiamo al Folk Studio di Roma, le osterie a Bologna ecc., fondamentali per creare, costruire, pensare, cantare insieme. Il Campus di Energia Creativa ha questo scopo: convoco gli artisti per stare insieme tre giorni per fare musica, ci si racconta, ci si mette insieme, si suona e si canta in un posto che deve essere bello, perché la bellezza della creatività si sposi con la bellezza del territorio. Una sorta di buen ritiro della musica, senza gare, votazioni, dove la musica è al centro e al centro sono gli artisti; senza competizione perché la competizione è la negazione della musica che invece è comunicazione.

Storie liberate è un altro suo importante progetto musicale e sociale.

Un progetto che ha attinto dal materiale presente negli archivi delle carceri sarde scansionato dai detenuti. Vittorio Gazzale mi ha coinvolto e mi sono appassionato, il progetto mi ha coinvolto molto. Il carcere è un luogo di cui non si parla o si parla poco e purtroppo in molti casi peggiora la vita di chi ci entra. Alcune delle storie racchiuse in quelle tantissime lettere censurate e abbandonate, di anime tormentate ma belle, sono state liberate, tolte dall’oblio e sono diventate canzoni. C’è molta vita in quelle parole, molto amore, umanità, fragilità, sofferenza, ma anche speranza.

Corrias

“Ha vinto la politica del Noi”. A tu per tu con Salvatore Corrias

di Claudia Carta.

Salvatore Corrias, di Baunei, è stato il candidato ogliastrino più votato nella scorsa tornata elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale. Eletto tra le fila del Partito Democratico, nella passata legislatura sedeva tra i banchi dell’opposizione. Ora entra in Consiglio regionale dalla porta principale. Abbiamo raccolto la sua riflessione

Salvatore Corrias, 3184 motivi per essere soddisfatto.

La democrazia è fatta di numeri, che sono sempre significativi di una scelta ben precisa, individuale e collettiva, soprattutto oggi, in un tempo di crescente disaffezione alla politica e di diffuso scetticismo, che è tale per cui la metà delle persone non va più a votare. Certo, sono soddisfatto dei numeri di queste elezioni, per il mio partito e per la coalizione, ma la soddisfazione sarebbe maggiore se tutti prendessimo atto di questo grande vuoto di democrazia e provassimo a colmarlo, comunicando e condividendo quel sentimento di fiducia che si è perso. Vorrei, dunque, che ci fossero 51.843 motivi, tanti quanti sono gli elettori ogliastrini, tali per cui tutti potremo dirci soddisfatti.

Come si costruisce il consenso?

Tutti i giorni, con attenzione e dedizione, ascoltando e condividendo, mettendosi in discussione e prospettando soluzioni ai problemi, affrancandosi dalla convinzione di essere indispensabili e dall’improvvisazione tipica di chi entra nelle competizioni elettorali promettendo cose impossibili. Il consenso è un credito di fiducia, un fatto collettivo e mai personale, che si costruisce con onestà, avendo sempre come orizzonte d’attesa il bene comune.

Alessandra Todde è risultata credibile agli occhi di quasi metà degli elettori. Perché?

Conosco Alessandra da tempo, e credo non potessimo fare scelta migliore. È credibile perché ha la giusta empatia, umana e politica, perché la sua storia parla chiaro, perché saprà mettere a disposizione di tutti la sua grande esperienza. È credibile perché è donna.

Ha mai avuto paura di perdere in un testa a testa tanto entusiasmante quanto estenuante?

Confesso di no. Se si vive la politica con impegno e passione bisogna sempre mettere in conto la sconfitta, un po’ come nelle competizioni sportive. Ma la paura non può appartenere a chi affronta una competizione con questo spirito. Certo, c’è sempre la sana adrenalina dell’attesa, ma serve la stessa consapevolezza di chi va per mare e sa, quiete o tempesta, che c’è sempre una stella che segna la rotta. Quella stella è l’amore per quel che si fa, e in politica quel che si fa deve servire agli altri, non a se stessi. Lì, in quel mare, non può esserci paura.

Per la seconda volta al palazzo di Via Roma a Cagliari, questa volta però tra le fila della maggioranza. Come si sente?

Un consigliere regionale ha il dovere di usare al meglio il suo ruolo legislativo e ispettivo, sia che appartenga alla maggioranza, sia che appartenga alla minoranza.

Se appartiene alla maggioranza la sua responsabilità è maggiore in quanto è artefice delle scelte decisionali, sia in sede legislativa che in sede esecutiva. Ecco, io sento forte questa responsabilità, sento l’onere e l’onore, e so bene che, nel bene e nel male, dovrò rendere conto alla collettività, ogliastrina e sarda. Noi siamo quello che facciamo.

 

[L’intervista integrale è sul numero di Marzo de L’Ogliastra]

Barbiere Urzulei

AcCongiu, per barba e capelli

di Augusta Cabras.

Gioca con le parole Federico Congiu, quando deve scegliere il nome per il suo nuovo salone di cura e bellezza. Lo chiama “AcCongiu”, creando con il suo cognome la parola che anche in sardo esprime la mansione svolta dal professionista che si dedica alla cura della barba e dei capelli: s’accongiu (o similare, a seconda dei paesi) operato dall’acconciatore, appunto, e dall’acconciatrice.

Il suo salone si trova al civico 34 della via Risorgimento, tra le vie interne del paese di Urzulei. All’ingresso, tra gli infissi blu, fa mostra di sé la Barber Pole, l’asta a strisce colorate. È l’insegna convenzionale usata dai barbieri per indicare la presenza della propria attività, la cui storia particolare affonda le origini nel Medioevo, quando i professionisti di lamette e di forbici, non si occupavano solo di acconciare la testa e il viso dei clienti, ma agivano come veri e propri chirurghi con i pazienti: estraevano i denti, suturavano le ferite, praticavano flebotomie e salassi nell’intento di far guarire dalle malattie. Il Barber Pole di oggi con le sue strisce colorate che girano, è un’evoluzione di quel palo con le bende bianche sporche di rosso sangue, che dovevano essere ben visibili e immediatamente riconoscibili dai malati e dai viaggiatori che necessitavano di un intervento chirurgico.

Il barbiere oggi ha perso quella funzione curativa e quasi taumaturgica, ma il simbolo è rimasto, insieme a quella voglia di far star bene le persone che chiedono il servizio. «Mi piace moltissimo il fatto che le persone vengano da me e in quel tempo in cui io mi occupo di loro, possono rilassarsi, chiacchierare, liberarsi dal peso dei pensieri. È questo il mio obiettivo principale: rispondere alle loro richieste, farlo bene e far stare bene i clienti», racconta con orgoglio Congiu.

Dal mese di maggio dello scorso anno, il ventisettenne di Urzulei, con le forbici e il rasoio in mano, soddisfa le esigenze dei suoi tanti frequentatori, per ora prevalentemente maschi: bambini, giovani e adulti, anche se non mancano le donne. «Lo ricordo bene quando da bambino mi sedevo nella poltrona del nostro barbiere, Romano. Mi ricordo bene la sensazione di benessere, di relax. Guardavo con curiosità e divertimento le forbici che avanzavano e scolpivano i capelli cambiando via via la loro forma iniziale», rammenta Federico con un sorriso. E chissà se sono state quelle belle sensazioni, se è stata l’esperienza vissuta da bambino ad aver riposto in lui, il desiderio di intraprendere questo percorso lavorativo.

Il suo salone che ora ha una veste rinnovata, ha accolto per anni una parruccheria. Anche il barbiere storico ha lasciato l’attività per raggiunta bella età e ora Congiu, in un simbolico passaggio di consegne, prende in mano il testimone, consentendo, (dettaglio di non poco conto), alle persone di Urzulei, di rinnovare in casa il taglio di barba e capelli, senza percorrere tanti chilometri per arrivare in un altro paese.

È sicuramente una grande sfida quella che il giovane ogliastrino ha intrapreso. Ma lui fa tutto con grande passione, energia ed entusiasmo e il sorriso e la gentilezza non mancano mai. E forse la chiave per far bene le cose è proprio questa: un atteggiamento positivo e grintoso che si sposa con una certezza, il desiderio di stare nel proprio paese, di costruire qualcosa per non andare via, di contribuire alla crescita della comunità. E così i piccoli germogli di resistenza crescono.

Ma quale è stata la strada che il barbiere di Urzulei ha compiuto e che gli ha consentito di aprire la barberia? «Dopo il diploma all’Istituto Tecnico Commerciale frequentato a Tortolì, sono stato allievo per due anni della scuola per parrucchieri di Nuoro e ho preso la qualifica. È stato un percorso formativo bello, interessante, ricco di incontri e tante conoscenze, sia tecniche che teoriche, che si sono rivelate fondamentali anche per mettermi in proprio», racconta. Federico, oltre le lezioni pratiche, ricorda infatti le lezioni di dermatologia, di anatomia, di diritto ed economia di cui ha fatto tesoro per avviare la propria attività. La burocrazia di certo non è mancata, ma può considerarsi una parte che non ha preso il sopravvento sulla voglia di fare. E in un tempo in cui la cura dell’aspetto e il richiamo all’estetica è diventato un imperativo, è bello e piacevole trovare persone gentili e appassionate come Federico.

Isre

ISRE. Cultura viva

a cura di Augusta Cabras.

Dialogando con Stefano Lavra, Presidente dell’Isre.

Cosa è l’Isre e di che cosa si occupa?

L’Istituto Superiore Regionale Etnografico è il luogo della cultura sarda per eccellenza che custodisce, e attraverso lo studio, la ricerca e la promozione, dà impulso all’identità e alla cultura sarda. E lo fa a partire dalla valorizzazione degli intellettuali di ogni tempo: a partire da Grazia Deledda per cui abbiamo istituto con gli accademici, a dicembre scorso, il Centro Studi Grazia Deledda, che avvalorerà, incrementerà e potenzierà, nell’articolazione dell’Istituto, la figura straordinaria di questa scrittrice, premio Nobel, attraverso le pubblicazioni, la cinematografia e altre iniziative. Un altro elemento importante è la collaborazione con le Università di Cagliari e di Sassari, con cui dialoghiamo costantemente. L’ISRE incentiva le borse di studio e promuove la ricerca, la documentazione, l’approfondimento, coinvolgendo in particolare giovani. Il legame è forte con le scuole di tutti i gradi.
La sede della presidenza è a Nuoro, perché questa è stata la volontà dei padri fondatori. Giovanni Lilliu, in particolare, aveva individuato il Nuorese come l’area geografica che rappresentava la costante resistenziale sarda, che era quella che teneva unite le origini del popolo sardo dall’epoca nuragica fino ai giorni nostri, l’area che ha mantenuto tradizioni e identità, ma che rappresenta tutta l’Isola.
Per questo per noi è importante che l’ISRE sia aperto a tutti i territori, da Cagliari a Sassari, da Oristano a Tortolì; per questo l’Istituto Superiore Regionale Etnografico accoglie le iniziative che possono essere di valorizzazione della cultura nelle molteplici espressioni del popolo sardo, compresa la lingua sarda, altro pilastro della nostra azione.

Si evince che il legame con il territorio sia molto stretto.

Questo è un punto fondamentale. Anche il nuovo corso, con la mia presidenza si è avviato con questa apertura dell’Istituto al territorio e a tutte le sue ricchezze, a partire dalla valorizzazione delle risorse umane, del tessuto sociale, culturale e produttivo. Penso ad esempio all’artigianato, capace di essere un motore propulsivo anche per l’economia, che ha tantissimo riverbero nelle nostre comunità, nel legame profondo tra tradizione, identità e innovazione, che riesce a essere attrattivo.
L’apertura è anche verso l’esterno. Ne è un esempio la partecipazione alle fiere internazionali. L’ultima è stata la Fiera Internazionale dell’Artigianato a Milano, che ha visto l’ISRE partecipare attivamente come istituzione, nel promuovere il nuovo nato Museo della Ceramica Sarda che ha messo in luce tutto l’artigianato della ceramica in Sardegna, che ha avuto un grande risvolto agli inizi del ‘900 fiorendo con l’arte attraverso l’opera di Nivola, Fancello, Ciusa, e altri grandi ceramisti sardi i quali hanno aperto una pagina internazionale straordinaria. Il Museo della Ceramica è un gioiello, di cui siamo particolarmente orgogliosi. Da luglio ha avuto tantissimi visitatori e un ottimo riscontro anche da parte degli artisti e degli intellettuali a livello internazionale e di questo siamo molto contenti.

Le bellissime e numerose attività che l’ISRE organizza nei territori smentiscono il luogo comune che la cultura, il museo, le raccolte siano compartimenti statici e in alcuni casi asfittici. È una vostra missione quella di rendere viva e attuale la cultura?

Sì. Vogliamo che l’ISRE sia un’istituzione viva, dinamica. Le faccio un esempio: in occasione del Natale, per un arco temporale di oltre un mese, all’interno del Museo della Ceramica abbiamo portato la tematica della natività di Gesù con le opere di Maria Lai, aperta a tutti i visitatori. Il museo raccoglie continuamente le informazioni dall’esterno, si apre al contributo del mondo intellettuale, artistico, culturale e il museo diventa una vera scuola di confronto, dialogo, crescita. È cosi anche il nostro Museo del Costume o meglio Museo della Civiltà Sarda con tutto quello che rappresenta; è uno dei musei etnografici più importanti a livello europeo, curatissimo e molto apprezzato; nell’ultimo anno ha avuto oltre 60.000 visitatori, con una crescita del 20% rispetto all’anno precedente.
Abbiamo anche dato impulso alla comunicazione per promuovere i nostri musei come luogo d’incontro e di dialogo, con una serie di convegni, dibattiti e attività artistiche. I musei non sono solo i luoghi di conservazione delle opere.

L’ISRE si occupa anche del cinema e della musica tradizionale?

La sezione ISRE Musica è attiva nel coinvolgimento delle associazioni culturali che danno lustro al canto a tenore e agli strumenti musicali della tradizione: launeddas, organetto ecc. in modo da mettere sempre in luce questo grande potenziale.
La sezione ISRE Audiovisivo, attraverso la prestigiosa edizione di ISREAL darà spazio agli scenari sardi. Con il cinema del reale, documentaristico quindi, si metterà in risalto il valore della Sardegna, il suo paesaggio, le sue genti, l’espressività più caratterizzante di una terra autentica. Il cinema sardo si confronterà con quello internazionale in un dialogo costruttivo.
Il filo conduttore dell’attività che stiamo svolgendo in questo mandato è chiaramente nel segno dell’apertura del rapporto tra l’Istituto, la Sardegna, il resto del Mediterraneo e non solo, con tutti i popoli che rappresentano la parte più vera della propria storia e della propria cultura.

matteo-porru

L’elogio del talento

a cura di Augusta Cabras.

Giovanissimo, ha quasi 23 anni, Matteo Porru è autore di romanzi, saggi e racconti. Esordisce in libreria a 16 anni, dopo numerosi racconti pubblicati sul web, con il libro The mission. Scrive per il cinema e per il teatro. È stato inserito da D di Repubblica fra i 25 under 25 più promettenti al mondo. Nel 2019, mentre frequenta l’ultimo anno del Liceo Classico Dettori di Cagliari, vince la sezione Giovani del Premio Campiello con Talismani. La giuria lo premia per un “racconto compatto che ha il merito di spingere lo sguardo oltre i confini della propria anima e delle proprie vicende personali, tratteggiando i rapporti di una madre afgana con il suo giovane figlio”.

Quando e dove nasce la tua passione (o vocazione) per la scrittura?

Io ho iniziato a scrivere perché volevo essere onnipotente. Perché, dopo una vita in cui ero stato controllato, volevo essere io a controllare, a decidere i destini del mondo, a capacitarmi delle cose che accadono. Soprattutto a me. È stata la mia salvezza riuscire a rifugiarmi e a nascondermi tra le parole. La data di inizio, come tutte le avventure, non è indicata, forse non è mai esistita davvero. Ma so che il bisogno di urlare, ed essere ascoltato, è nato quando ho raggiunto un esubero di dolore e di passività.

A 18 anni ricevi uno dei premi più prestigiosi per i giovani scrittori. Cosa ha rappresentato quel momento per te?

La più grande attestazione di un talento. Mi sorprese la vittoria, ma ancora di più la reazione e la conseguenza del conseguimento di quel titolo: tanti lettori, tante occasioni e opportunità che altrimenti non so se avrei avuto. Non credo molto alla frase “Si chiude una porta, si apre un portone”, perché le porte si aprono e si chiudono e i portoni pure, ma quello è stato il mio grande varco d’accesso alla professione. Grazie al Campiello Giovani sono passato dalla piccola editoria alla grande editoria, a quel premio devo molta più felicità di quella che ho mostrato al mondo.

Cosa è l’ispirazione?

Una cosa che ha inventato chi non è mai riuscito a scrivere, o chi pensa che ci sia una sorta di benedizione celeste dietro un’opera di finzione. L’ispirazione non esiste: esiste l’osservazione, l’empatia, la capacità di notare cose piccole o trascurabili. La storia non nasce in grassetto. Ogni storia nasce in minuscolo.

Puoi raccontarci il tuo impegno con i ragazzi e le ragazze che vivono una vita difficile?

I ragazzi non sono difficili. Quelli difficili sono gli adulti. I ragazzi sono infinitamente migliori, più forti, più audaci, più veri della stragrande maggioranza di quelli che si reputano tali, non facile rispondere agli affondi dopo essere stati pestati dalla vita; non è facile se la società continua, per qualche meccanismo malato che continuo a non capire, a demonizzarli. Ogni ragazzo che salviamo è un atto di fede verso il futuro: questa è l’unica cosa che conta davvero.

Cosa ti ha portato lì? Cosa ti stupisce quando sei con loro? Cosa hai imparato e impari da loro che non avevi previsto?

Io lavoro con loro da parecchio tempo. Mi stupisce la loro capacità di affrontare le cose. Per essere un eroe bisogna affrontare il mostro. Conosco, vedo ragazzi e ragazze che combattono con dei mostri che la gran parte di noi teme anche solo di poter pensare. Sono mostri che produciamo noi come società, perché la stragrande maggioranza delle cose che accade a questi ragazzi sono la diretta conseguenza dei cambiamenti sociali degli ultimi vent’anni e delle degenerazioni. È un processo lunghissimo per loro. Ma lo affrontano con un coraggio e una dignità che fa invidia a tanti e dovrebbe far riflettere tutti. Io ho fatto esperienza nelle carceri minorili, nelle carceri per adulti, nelle comunità e io in tutta serenità inviterei le persone a visitare un carcere, una comunità. Serve in Italia un’educazione sociale. Dai ragazzi e dalle ragazze delle comunità ho imparato più di quanto loro abbiano imparato da me. Cosa non avevo previsto? Che mi sarei follemente innamorato di loro.

La scrittura può essere cura?

Non credo. La scrittura è una delle migliori terapie mai scoperte. La possibilità di rielaborare, di stravolgere, di annientare, di catalizzare, di stare in silenzio davanti a un foglio riesce, in qualche modo, a mantenerti vivo e sincero. Penso sarei imploso senza questa valvola di sfogo. E invece, per dirla come Vasco, io sono ancora qua. Eh già.