Volti e persone
A tu per tu con Maria Agostina Cabiddu. I diritti vanno conquistati e difesi
di Rosanna Agnese Mesina.
Dottoressa Cabiddu potrebbe spiegarci cosa significa essere costituzionalista e qual è stato il suo percorso per diventarlo?
Ho iniziato a occuparmi di diritto costituzionale dopo la laurea. Inizialmente volevo fare il magistrato, poi ho accantonato l’idea, anche perché l’ho visto come un lavoro ripetitivo, di tipo impiegatizio e quindi ho iniziato a scrivere e a studiare. Ho fatto il dottorato di ricerca, il presidente di commissione era Gustavo Zagrebelsky, che poi sarebbe diventato giudice della Corte Costituzionale.
Diritto costituzionale è stato un amore successivo. Dopo tutto il cursus honorum, non risparmiandomi in niente, sono diventata idonea per l’associazione dei costituzionalisti e in seguito ordinario al Politecnico di Milano dove sono riuscita a far inserire nel programma di studi un esame di Istituzioni di Diritto pubblico che comprende anche Diritto costituzionale, perché ritengo che senza la sua conoscenza sia difficile lo studio del Diritto amministrativo.
Insomma, un percorso casuale, volendo, ma evidentemente toccava le mie corde.
Nel suo percorso formativo e lavorativo il fatto di essere una donna o di provenire dalla Sardegna le ha procurato difficoltà o qualche discriminazione?
Nessuna difficoltà, anzi, devo dire che il mio professore è stato una persona che non mi ha mai posto dei limiti, non ha mai domandato cosa facesse mio padre o da dove venissero i miei genitori, né si è fatto condizionare da altri vincoli. Come donna non ho mai percepito un disvalore, forse dovuto anche al fatto che non ho avuto figli, perché il dovermi dedicare alla famiglia avrebbe forse comportato una minore attenzione verso la professione.
Forse non ho mai percepito nulla anche per via del mio carattere: sono infatti refrattaria a qualunque condizionamento, e quando qualcuno ci prova faccio finta di non capire, o smorzo con una battuta. Una volta, ad esempio, mi hanno detto: «Ma tu sei una del sud?». «No – ho risposto –, sono occidentale e vengo dalla Sardegna». Oppure: «Ma tu sei una donna». «E allora? Vuol dire che sono meglio di te!». Rispondere a tono al momento giusto e difendersi in maniera adeguata è importante. Le donne spesso rispondono con eccesso di legittima difesa; occorre difendersi a livello giusto, non bisogna replicare con una cannonata a chi ti dà uno schiaffo. Questa cosa l’ho appresa da mia madre che diceva “tene e iscappa”, ossia trattieni il buono e lascia correre quello che non vale la pena di trattenere.
Bellezza. Per un sistema nazionale. Conosciamo meglio il suo libro.
È un libro che parla del rapporto tra patrimonio culturale immateriale, come ad esempio il nostro canto a tenore, e la qualità della vita delle persone. Nasce da un’idea che mi è venuta al tempo del Covid, quando un medico responsabile della terapia intensiva aveva preso numerose opere dall’Accademia Carrara, il museo di Bergamo, e le aveva esposte in ospedale dicendo che anche quella era una terapia, perché i malati avevano bisogno di trovare sollievo alzando lo sguardo verso quelle opere. Così ho pensato a un collegamento tra qualità della vita e patrimonio culturale, cercando di trovare se nella nostra Costituzione ci fosse un fondamento per un diritto alla bellezza, diritto universale per tutti, anche là dove regna il degrado.
Bellezza non vuol dire avere un Caravaggio in casa, magari nascosto. L’arte e la bellezza sono legati allo sviluppo della persona, non a un qualcosa per fare business. A me interessa l’aspetto della qualità della vita, per questo ritengo che la prima cosa da fare per educare i ragazzi alla bellezza sia far capire la differenza tra il “mi piace” e il dire “è bello”. Per arrivare a dire “è bello” è necessario conoscere il percorso che c’è, ad esempio, dietro un’opera d’arte. Solo se conosci come l’artista ci è arrivato puoi apprezzarlo e dire che è bello. Quando le opere scandalizzano vuol dire che non se ne è capito il valore. Anche ne I cento passi si legge che Peppino Impastato, guardando con un amico verso la Conca d’oro, verso lo sviluppo edilizio incontrollato, afferma che quelle costruzioni fanno schifo, che hanno degli infissi orrendi in allumino, poi però le persone ci vanno a vivere, ci mettono i fiori, le tendine e lentamente ci si abitua al brutto. Ci si abitua al brutto però bisogna educarsi e abituarsi al bello.
Nell’idea di bene culturale non c’è quindi l’idea di appropriazione quanto di fruizione, cioè di un godimento che ti aiuta a vivere meglio. Se tu hai un bene materiale da consumare e lo consumi tu, non ce n’è per gli altri. La cultura, invece, non è un bene consumabile, anzi, più è diffusa meglio è. Purtroppo per la mancata fruizione sono andate perdute molte tradizioni.
Un suo scritto è stato scelto come traccia d’esame per la maturità: che effetto le ha fatto e cosa avrebbero dovuto esprimere i candidati che l’hanno scelta?
La traccia d’esame è stata presa da un articolo che ho scritto per la rivista dell’associazione dei costituzionalisti, e che mi era stato richiesto dal presidente Gustavo Zagrebelsky.
È stata una soddisfazione ovviamente inaspettata. Ritengo non sia stata una traccia facile, anche perché non so come nelle scuole si insegni l’educazione civica.
Penso che oggi ai giovani manchi la cultura dei diritti: non hanno la percezione che questi sono un qualcosa che esiste in natura e nessuno li può togliere. Ma i diritti vanno conquistati e difesi. Oggi non ci sono più manifestazioni di ragazzi che protestano insieme per i loro diritti; al contrario, ne conosco diversi che accettano di fare stage non pagati non una, ma tantissime volte. Forse lo fanno perché dietro ci sono le famiglie che provvedono a tutto, invece dovrebbero insegnare loro a curare i loro diritti e a difenderli. Quando, poi, questi giovani vanno all’estero perché qui non sono ben retribuiti, sbagliano perché stanno tradendo chi li ha formati. Invece si dovrebbero unire per far valere i loro diritti qui, ma loro agiscono come individui singoli, dimenticando che le persone sono fatte di socialità. Se si combatte insieme, forse le cose possono cambiare! Ai giovani manca la consapevolezza dei loro diritti e spesso non parlano di problemi seri. È vero che oggi non ci sono più tante associazioni come c’erano prima e mancano anche molti punti di riferimento: oggi gli esempi sono improvvise fortune come il calciatore o la velina. Non esiste più l’ascensore sociale che prima garantiva la scuola. Le famiglie in questo hanno grandi responsabilità.
Un consiglio alle nuove generazioni?
Ciascuno dovrebbe piano piano capire qual è il proprio percorso, coltivare il proprio sogno, anche se poi la vita ti porta altrove. Però se ti impegni, se fai dei sacrifici, raggiungi il traguardo.
Filigrana d’autore. Lisa Moi
di Gian Luisa Carracoi.
La sua bottega è luogo narrante dove abili mani disegnano singolari connubi di filigrana; dove la sapienza dell’artigiano e dell’artista si coniugano in una maestria che sa di tradizione e di estro creativo
Lisa Moi, classe 1980, padre ogliastrino e madre veneta. Oggi, moglie e mamma. Dopo la maturità in ragioneria, ha frequentato per due anni la scuola d’arte orafa a Vicenza, luogo natio, e sempre nella stessa città ha lavorato per circa un anno e mezzo. Successivamente ha proseguito il suo percorso nel laboratorio avviato dai suoi genitori nel 1984 a Bari Sardo, dopo tre anni dal loro rientro in Ogliastra a seguito di una lunga esperienza formativa e lavorativa. Suo padre era emigrato da ragazzino nella città palladiana, luogo in cui l’arte orafa affonda le radici nel lontano Medioevo, e lì ha studiato acquisendo il titolo di “maestro d’arte orafa”.
Lisa è figlia d’arte. Ha lavorato per vent’anni fianco a fianco con papà Giancarlo e mamma Carla, modellista, approfondendo la conoscenza della filigrana. «Inizialmente essa mi sembrava una cosa relegata al passato remoto – racconta –, fuori moda. Con il passare del tempo, vivendo in Sardegna, ho potuto capire che la filigrana non era solamente sinonimo di tradizione, ma poteva essere rivisitata in chiave moderna attraverso l’applicazione della tecnologia e del design. L’amore per l’arte orafa era dentro di me fin da bambina. All’età di cinque anni aiutavo già i miei genitori nel montaggio delle perline, poi pian piano negli anni delle elementari e medie si è un po’ placato, anche se le mie amiche ancora oggi ricordano le ricerche scolastiche che io facevo sugli oggetti della tradizione sarda».
All’interno dell’azienda Lisa ha potuto partecipare attivamente al progetto guidato dal Polaris di Cagliari per il quale sono stati selezionati solamente cinque orafi – fra questi uno è suo padre – i quali attraverso la collaborazione con un architetto di Milano sono riusciti a inventare una nuova tecnica. «La filigrana non viene più saldata – spiega Lisa – oppure ingabbiata all’interno di strutture particolari, ma è libera e si sostiene grazie all’ausilio della saldatura laser che non va a modificare la struttura molecolare del metallo perché lavora a crudo, ossia salda dove deve saldare, senza riscaldare tutto l’oggetto».
Da qui la conferma per Lisa che la filigrana non era solo relegata alla tradizione del passato, ma poteva ambire a molto di più. Ha continuato così a seguire i gioielli sardi, relativi all’abito tradizionale e alla tradizione in genere, di richiamo misto tra sacro e profano, utilizzati ancora oggi in particolari momenti della vita, come su coccu per il battesimo e lo spuligadentes per il matrimonio.
Dal 2020 però, con l’arrivo del Covid, la crisi economica ha messo in ginocchio tante attività artigiane e commerciali. «É stato un momento – ricorda – in cui anche la nostra produzione ha subito un arresto e non si capiva bene quale sarebbe stato il nostro futuro».
Ma lei non si è fatta abbattere. In quel momento di riflessione, ha maturato un’idea forte e ha capito ciò che voleva. Da qui la decisione di aprire al pubblico un’attività tutta sua. E così è stato. Il suo laboratorio, Filigrana d’autore dal marzo 2024 è presente in Corso Vittorio Emanuele, a Bari Sardo. Nell’arredamento della bottega ha messo tutta l’anima: dai ricami dipinti sui muri, che richiamano i pizzi della camicia tradizionale sarda, alla tavola realizzata a mano con il rame per riprendere parte del discorso che la più grande artigiana della parola in Sardegna, Grazia Deledda, pronunciò nel momento in cui, il 10 dicembre 1927, ritirò a Stoccolma il Nobel per la Letteratura. L’obbiettivo principale di ogni realizzazione di Lisa è la creazione di oggetti fatti a mano, inimitabili, marchiati e punzonati che fanno sì che il prodotto finale sia realmente un’opera d’arte unica. Tra i suoi lavori anche il restauro e la trasformazione dell’oro vecchio.
«Negli anni mi sono resa conto che la filigrana ha subito un maltrattamento da parte dei consumatori e anche dei commercianti – fa notare l’orafa ogliastrina –. Oggetti come la fede sarda, che dovrebbe rappresentare un gioiello dal forte valore simbolico e identitario, è stato invece declassato a causa di una indiscriminata produzione di massa. Ciò che invece dirige il mio lavoro è il desiderio di coniugare le richieste del cliente, che possono essere le più disparate, con quella che è la tradizione della nostra terra. Nel caso dell’anello di fidanzamento che ho realizzato quest’estate per un giovane bariese come dono per la sua ragazza di madre lingua inglese, ho creato un connubio tra Inghilterra e Sardegna, perché questo era il suo desiderio. Siamo partiti dall’anello iconico di fidanzamento inglese, quello alla Kate, e ho riprodotto lo stesso tipo di design, però al posto dei diamanti abbiamo scelto di inserire intorno allo zaffiro una corona di grani che richiamasse la fede sarda, simbolo di abbondanza e prosperità».
Per stimolare la curiosità dei clienti, Lisa ha inoltre avuto la brillante idea di creare un laboratorio senza muri, proprio come nelle antiche botteghe, per mostrare apertamente i suoi strumenti di lavoro e invitare i clienti a osservarla durante la realizzazione dei gioielli. Il lavoro è partito bene e nei prossimi anni le piacerebbe aprirsi a nuove esperienze per raccontare la filigrana a una clientela sempre più vasta.
Giardini d’autore in Ogliastra
di Fabiana Carta.
Giuseppe, Giorgio e Patrizia Foddis, di Baueni, artigiani e artisti del verde
I primi passi in questo mondo dipinto di verde cominciano nei primi anni Settanta con babbo Luigi. Poi, i semi sparsi qua e là hanno attecchito anni dopo, anche sui suoi figli: Giuseppe, Giorgio e Patrizia Foddis. I ricordi più vecchi, al profumo di fiori e piante, sono legati a un villaggio turistico vicino al mare. La struttura aveva chiuso i battenti, ma il verde continuava a essere curato. «Nostro padre ci portava con sé, giocavamo insieme ai figli del guardiano, ma allo stesso tempo eravamo spettatori di tutti i lavori di giardinaggio – ricordano Giuseppe e Giorgio – lo abbiamo sempre seguito e accompagnato nei suoi cantieri, anche quando siamo cresciuti un po’. Ci siamo ritrovati a lavorare in questo mondo senza neanche accorgercene».
Una scelta che è fluita in modo naturale. Nel passaggio dalle scuole medie alle superiori, ricordano la proposta di scegliere l’Istituto Agrario fatta da babbo Luigi, lanciata come un piccolo suggerimento. Sfumato. «Non l’abbiamo colto. A 13 anni non pensi che tuo padre ti suggerisca una via per prepararti al lavoro, a quell’età non ci pensi proprio che quella scelta ci sarebbe potuta servire un giorno. Tant’è che io mi sono iscritto alla Ragioneria», ricorda Giuseppe.
A 16 anni decide di fermarsi perché non sembra sentirsi a suo agio fra diritto ed economia aziendale, così lascia la scuola per andare a lavorare con suo padre. Dopo due anni torna sui banchi a prendere il diploma, però, dopo tutte le stagioni e le pause dalla scuola passate ad affiancare babbo Luigi, a quel punto la direzione era chiara e definitiva. «Da bambini e ragazzini non ci faceva lavorare sul serio, però un giorno guardavi, un giorno gli passavi un rastrello, un giorno imparavi davvero. All’inizio non l’abbiamo visto come un lavoro, era solo un andare a fargli compagnia», raccontano.
Sia Giorgio che Giuseppe si specializzano in centri di formazione professionale fuori dalla Sardegna, uno a Bologna e l’altro a Monza, alla scuola agraria del Parco, dove studia arboricoltura. Patrizia, la sorella minore, ha in testa altri progetti che non prevedono fiori e piante, infatti dopo gli studi classici si laurea alla facoltà di Scienze Politiche sognando un futuro nelle relazioni internazionali. Da bambina ricorda alcuni momenti trascorsi con sua madre, nel negozio di piante aperto nel 1988, insieme alla grande collezione di libri sul giardinaggio sistemati in una libreria dietro i vasi esposti. «Il mio professore delle medie mi aveva consigliato di iscrivermi all’Istituto Agrario di Sassari, conosceva la mia famiglia. Non l’ho ascoltato perché avevo altre idee. Alla fine del mio percorso di studi ho fatto alcune esperienze, ma mi sono resa conto di non riuscire a stare lontano dal luogo di nascita e stando qui sarebbe stato molto difficile fare qualcosa inerente alle relazioni internazionali», racconta Patrizia.
Le piante sono un destino di famiglia. Così, dopo un lungo giro, torna a Santa Maria Navarrese e prende in mano il vecchio negozio di famiglia, rinnovandolo. Oggi lei è il centro dell’azienda, si occupa della contabilità, di allestimenti per matrimoni e segue il negozio. «Da quando sono tornata ho iniziato a lavorare anche il fiore reciso, ho fatto un corso di un anno nella scuola Federfiori a Vigevano e ho capito che questo lavoro mi piace molto. Soprattutto quando mi dedico agli allestimenti. Non mi dispiacerebbe approfondire gli studi che riguardano il giardinaggio, per imparare a progettare terrazze, il verde verticale, aiutando i miei fratelli nel lavoro», spiega.
Patrizia ha ereditato da suo padre il senso del gusto, dell’estetica, l’attenzione per i dettagli. Dai primi anni 2000, quando hanno iniziato ufficialmente a fare il mestiere di giardinieri, si sono fatti strada in questo settore trovando un loro stile personale e inconfondibile. Come dei pittori, lasciano la firma in ogni spazio verde. «Lavoriamo sia per abitazioni private che per strutture ricettive, villaggi e alberghi, in giro per tutta l’Ogliastra e a volte anche in altre zone della Sardegna. Abbiamo tantissime richieste, durante l’estate il lavoro diventa molto frenetico», spiegano. Così frenetico da non riuscire quasi più a cogliere il lato poetico di questo mestiere, così frenetico da non avere il tempo di contemplare la bellezza di fiori e piante. «Ricordo la frase di un cliente – dice Giuseppe –: «Che bello, voi lavorate con le piante, con degli esseri viventi». È vero, ma potrei apprezzare di più questo aspetto se potessi lavorare senza l’affanno di dover seguire tanti cantieri. D’estate la poesia quasi scompare, lavori come una macchina. Nella nostra zona si sente la mancanza di professionisti in questo settore, le richieste sono davvero tante. Abbiamo un dipendente fisso per tutto l’anno e due o tre da assumere durante la stagione estiva. Cerchiamo di dividerci».
Il lavoro del giardiniere potrebbe assomigliare a quello di un artista che deve creare la scenografia perfetta: si parte dalla visita al cantiere e da uno sguardo al terreno, dal contesto geografico, dal tipo di struttura, si immagina cosa “costruire”. Si scelgono i colori per la tela, si decide dove applicarli. Giuseppe e Giorgio non fanno progetti su carta – e questo rende il tutto ancora più difficile –, ogni idea si sviluppa nella loro testa, immaginando e proiettando nel tempo, in quel determinato luogo, fiori e piante. «Quando dobbiamo fare un nuovo lavoro chiediamo al cliente massima fiducia, dove è possibile. Osserviamo il terreno nudo e in base il contesto ci facciamo una prima idea sul tipo di piante da disporre, sul come disporle, pensando sempre anche al loro sviluppo. Ci dobbiamo immaginare quel giardino da “adulto”, con la nostra impronta», raccontano. E poi c’è la cura continua, lo scorrere del tempo e delle stagioni. L’inverno è la stagione più rilassante, il lavoro si fa lento, segue i ritmi della natura. Si può avere il lusso di dedicarsi solo a un olivastro millenario, abbandonato da decenni, cuore a cuore, per rimetterlo in sesto. «Così ho il tempo di girarmi con soddisfazione, osservare il lavoro che ho fatto, e sentirmi bene», conclude Giuseppe.
A tu per tu con Piero Marras. La musica è libertà e comunicazione
a cura di Augusta Cabras.
Qualche mese fa ha tenuto una lezione-concerto in una scuola media di Tortolì.
Che è esperienza è stata? Si può ancora dialogare con i più giovani?
Si può certamente dialogare e la cosa bella è che hanno una disponibilità totale alla vita e anche alle novità. La musica per me è l’elemento primario formativo, che permette di comunicare e di potersi parlare intimamente. Incontri come quelli sono per me un modo per portare la musica, per consigliarla. Io consiglio la musica a tutti, è il rimedio al male di vivere, alla solitudine, è un’energia straordinaria per l’anima, per un percorso interiore serio.
Quando nasce questa passione e come l’ha coltivata?
Nella mia famiglia la musica è stata sempre presente. Io sono l’ultimo di quattro fratelli e mia madre a tutti fece studiare la musica, considerandola una componente importante della formazione. A 7 anni iniziai a prendere lezioni di piano e l’impatto non fu semplice anche perché si iniziava subito con il solfeggio. Poi smisi di seguire quelle lezioni per me così pesanti e quella fine fu in realtà l’inizio della conquista della musica, perché quando la musica smise di essere insegnamento e costrizione, divenne libertà. E allora io ero sempre attaccato ai tasti neri e ai tasti bianchi del pianoforte. È stata una scoperta e da allora non l’ho mai lasciata.
C’è stato un momento in cui ha capito che la passione poteva diventare professione?
Io sono un privilegiato perché sono riuscito a far coincidere le due cose: passione e professione. È stato un percorso graduale, anche di autostima personale che ogni tanto vacillava. Dovevo decidere a un certo punto se fare il professore di lettere o il musicista. Ho fatto tutta la gavetta; ho fatto parte di gruppi musicali, uno che si chiamava 2001, arrivò a Saint Vincent per Un disco per l’estate. A 18 anni da Nuoro mi trasferii a Cagliari e la musica mi aiutò a inserirmi, a comunicare. Suonai in diversi gruppi e questo fu molto formativo. A 24/25 anni era arrivato il momento di decidere cosa fare, nonostante a casa mia fossero molto tranquilli. A questo tipo di educazione molto libera e aperta devo molto perché mi ha permesso di continuare questa strada. Nel 1977 avevo scritto tutto Fuori Campo. Un amico di vecchia data fece ascoltare questo nastro a un direttore artistico della Emi italiana che rispose entusiasta. Capii che c’erano persone disposte ad ascoltare la mia musica. Credo che quello sia stato un momento fondamentale.
Lei canta sia in sardo che in italiano. Quali sono le differenze dal punto di vista musicale?
Sì, è diverso il suono della lingua, il suono della parola. Il sardo ha una grande peculiarità che, secondo me, ha a che fare con la sacralità che noi sardi abbiamo dentro. Noi abbiamo un senso religioso della vita, nel modo di affrontarla. Siamo molto seri, abbiamo poca leggerezza. E questo si riflette nella musica, nelle canzoni, nei testi che scegliamo. Sono spesso preghiere, cito la mia Mere manna, ad esempio. Abbiamo sempre questo riferimento all’Altro, che sia il cielo o la madre terra. Questo modo secondo me appartiene soprattutto ai sardi che hanno anche una storia non da vincitori, ma più spesso da vinti. Noi riusciamo a cantare la vita in maniera quasi spirituale. Io cerco di interpretarla, e ci sono tante sfaccettature. Io stesso non ho cantato solo canzoni spirituali, ma anche canzoni che dimostrassero che la lingua non è un fatto museale o da abbondare, ma può affiancarsi benissimo con il mio background che viene dal rock. Io non ho mai cantato la tradizione pura. Da quando ho fatto l’album Abbardente nel 1984 ho visto che qualcosa è successa, nel senso che ci è stata una presa di consapevolezza di sé anche negli altri gruppi che hanno iniziato a scrivere e cantare in sardo anziché fare solo cover.
Cosa è l’ispirazione?
Io non credo nel concetto di ispirazione come qualcosa che si aspetta. Serve cercarsi, entrare e frugare dentro se stessi, stimolarsi. Serve mettersi in movimento e in un atteggiamento di disponibilità e positività. Devi essere felice di quello che vivi, devi essere contento del tuo mondo. Io ho un mio modo di comporre: sto ore e ore, con il pianoforte o la chitarra, e suono, suono, senza sapere cosa sto suonando. Suono e poi arrivo dopo alle parole. Registro, lascio fermentare, poi riascolto in un momento in cui non ricordo nulla di quello che ho fatto e lì posso trovare elementi, idee, qualche melodia interessante da cui poi nasce qualcos’altro.
Lei è particolarmente attento ai talenti sardi. Mi riferisco anche al Campus di Energia Creativa. Da dove nasce questa idea?
Ho sentito l’esigenza di questo tempo e di questo spazio perché purtroppo non c’è nulla in Sardegna che permetta ai giovani, agli artisti di incontrarsi, sperimentare, confrontarsi. Io considero la canzone d’autore come una forma d’arte, quella dei cantautori è stata una corrente letteraria, e lo scambio è fondamentale. Le scuole che sono nate in Italia, avevano un grande vantaggio, che avevano dei luoghi di incontro e di scambio: pensiamo al Folk Studio di Roma, le osterie a Bologna ecc., fondamentali per creare, costruire, pensare, cantare insieme. Il Campus di Energia Creativa ha questo scopo: convoco gli artisti per stare insieme tre giorni per fare musica, ci si racconta, ci si mette insieme, si suona e si canta in un posto che deve essere bello, perché la bellezza della creatività si sposi con la bellezza del territorio. Una sorta di buen ritiro della musica, senza gare, votazioni, dove la musica è al centro e al centro sono gli artisti; senza competizione perché la competizione è la negazione della musica che invece è comunicazione.
Storie liberate è un altro suo importante progetto musicale e sociale.
Un progetto che ha attinto dal materiale presente negli archivi delle carceri sarde scansionato dai detenuti. Vittorio Gazzale mi ha coinvolto e mi sono appassionato, il progetto mi ha coinvolto molto. Il carcere è un luogo di cui non si parla o si parla poco e purtroppo in molti casi peggiora la vita di chi ci entra. Alcune delle storie racchiuse in quelle tantissime lettere censurate e abbandonate, di anime tormentate ma belle, sono state liberate, tolte dall’oblio e sono diventate canzoni. C’è molta vita in quelle parole, molto amore, umanità, fragilità, sofferenza, ma anche speranza.
“Ha vinto la politica del Noi”. A tu per tu con Salvatore Corrias
di Claudia Carta.
Salvatore Corrias, di Baunei, è stato il candidato ogliastrino più votato nella scorsa tornata elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale. Eletto tra le fila del Partito Democratico, nella passata legislatura sedeva tra i banchi dell’opposizione. Ora entra in Consiglio regionale dalla porta principale. Abbiamo raccolto la sua riflessione
Salvatore Corrias, 3184 motivi per essere soddisfatto.
La democrazia è fatta di numeri, che sono sempre significativi di una scelta ben precisa, individuale e collettiva, soprattutto oggi, in un tempo di crescente disaffezione alla politica e di diffuso scetticismo, che è tale per cui la metà delle persone non va più a votare. Certo, sono soddisfatto dei numeri di queste elezioni, per il mio partito e per la coalizione, ma la soddisfazione sarebbe maggiore se tutti prendessimo atto di questo grande vuoto di democrazia e provassimo a colmarlo, comunicando e condividendo quel sentimento di fiducia che si è perso. Vorrei, dunque, che ci fossero 51.843 motivi, tanti quanti sono gli elettori ogliastrini, tali per cui tutti potremo dirci soddisfatti.
Come si costruisce il consenso?
Tutti i giorni, con attenzione e dedizione, ascoltando e condividendo, mettendosi in discussione e prospettando soluzioni ai problemi, affrancandosi dalla convinzione di essere indispensabili e dall’improvvisazione tipica di chi entra nelle competizioni elettorali promettendo cose impossibili. Il consenso è un credito di fiducia, un fatto collettivo e mai personale, che si costruisce con onestà, avendo sempre come orizzonte d’attesa il bene comune.
Alessandra Todde è risultata credibile agli occhi di quasi metà degli elettori. Perché?
Conosco Alessandra da tempo, e credo non potessimo fare scelta migliore. È credibile perché ha la giusta empatia, umana e politica, perché la sua storia parla chiaro, perché saprà mettere a disposizione di tutti la sua grande esperienza. È credibile perché è donna.
Ha mai avuto paura di perdere in un testa a testa tanto entusiasmante quanto estenuante?
Confesso di no. Se si vive la politica con impegno e passione bisogna sempre mettere in conto la sconfitta, un po’ come nelle competizioni sportive. Ma la paura non può appartenere a chi affronta una competizione con questo spirito. Certo, c’è sempre la sana adrenalina dell’attesa, ma serve la stessa consapevolezza di chi va per mare e sa, quiete o tempesta, che c’è sempre una stella che segna la rotta. Quella stella è l’amore per quel che si fa, e in politica quel che si fa deve servire agli altri, non a se stessi. Lì, in quel mare, non può esserci paura.
Per la seconda volta al palazzo di Via Roma a Cagliari, questa volta però tra le fila della maggioranza. Come si sente?
Un consigliere regionale ha il dovere di usare al meglio il suo ruolo legislativo e ispettivo, sia che appartenga alla maggioranza, sia che appartenga alla minoranza.
Se appartiene alla maggioranza la sua responsabilità è maggiore in quanto è artefice delle scelte decisionali, sia in sede legislativa che in sede esecutiva. Ecco, io sento forte questa responsabilità, sento l’onere e l’onore, e so bene che, nel bene e nel male, dovrò rendere conto alla collettività, ogliastrina e sarda. Noi siamo quello che facciamo.
[L’intervista integrale è sul numero di Marzo de L’Ogliastra]
AcCongiu, per barba e capelli
di Augusta Cabras.
Gioca con le parole Federico Congiu, quando deve scegliere il nome per il suo nuovo salone di cura e bellezza. Lo chiama “AcCongiu”, creando con il suo cognome la parola che anche in sardo esprime la mansione svolta dal professionista che si dedica alla cura della barba e dei capelli: s’accongiu (o similare, a seconda dei paesi) operato dall’acconciatore, appunto, e dall’acconciatrice.
Il suo salone si trova al civico 34 della via Risorgimento, tra le vie interne del paese di Urzulei. All’ingresso, tra gli infissi blu, fa mostra di sé la Barber Pole, l’asta a strisce colorate. È l’insegna convenzionale usata dai barbieri per indicare la presenza della propria attività, la cui storia particolare affonda le origini nel Medioevo, quando i professionisti di lamette e di forbici, non si occupavano solo di acconciare la testa e il viso dei clienti, ma agivano come veri e propri chirurghi con i pazienti: estraevano i denti, suturavano le ferite, praticavano flebotomie e salassi nell’intento di far guarire dalle malattie. Il Barber Pole di oggi con le sue strisce colorate che girano, è un’evoluzione di quel palo con le bende bianche sporche di rosso sangue, che dovevano essere ben visibili e immediatamente riconoscibili dai malati e dai viaggiatori che necessitavano di un intervento chirurgico.
Il barbiere oggi ha perso quella funzione curativa e quasi taumaturgica, ma il simbolo è rimasto, insieme a quella voglia di far star bene le persone che chiedono il servizio. «Mi piace moltissimo il fatto che le persone vengano da me e in quel tempo in cui io mi occupo di loro, possono rilassarsi, chiacchierare, liberarsi dal peso dei pensieri. È questo il mio obiettivo principale: rispondere alle loro richieste, farlo bene e far stare bene i clienti», racconta con orgoglio Congiu.
Dal mese di maggio dello scorso anno, il ventisettenne di Urzulei, con le forbici e il rasoio in mano, soddisfa le esigenze dei suoi tanti frequentatori, per ora prevalentemente maschi: bambini, giovani e adulti, anche se non mancano le donne. «Lo ricordo bene quando da bambino mi sedevo nella poltrona del nostro barbiere, Romano. Mi ricordo bene la sensazione di benessere, di relax. Guardavo con curiosità e divertimento le forbici che avanzavano e scolpivano i capelli cambiando via via la loro forma iniziale», rammenta Federico con un sorriso. E chissà se sono state quelle belle sensazioni, se è stata l’esperienza vissuta da bambino ad aver riposto in lui, il desiderio di intraprendere questo percorso lavorativo.
Il suo salone che ora ha una veste rinnovata, ha accolto per anni una parruccheria. Anche il barbiere storico ha lasciato l’attività per raggiunta bella età e ora Congiu, in un simbolico passaggio di consegne, prende in mano il testimone, consentendo, (dettaglio di non poco conto), alle persone di Urzulei, di rinnovare in casa il taglio di barba e capelli, senza percorrere tanti chilometri per arrivare in un altro paese.
È sicuramente una grande sfida quella che il giovane ogliastrino ha intrapreso. Ma lui fa tutto con grande passione, energia ed entusiasmo e il sorriso e la gentilezza non mancano mai. E forse la chiave per far bene le cose è proprio questa: un atteggiamento positivo e grintoso che si sposa con una certezza, il desiderio di stare nel proprio paese, di costruire qualcosa per non andare via, di contribuire alla crescita della comunità. E così i piccoli germogli di resistenza crescono.
Ma quale è stata la strada che il barbiere di Urzulei ha compiuto e che gli ha consentito di aprire la barberia? «Dopo il diploma all’Istituto Tecnico Commerciale frequentato a Tortolì, sono stato allievo per due anni della scuola per parrucchieri di Nuoro e ho preso la qualifica. È stato un percorso formativo bello, interessante, ricco di incontri e tante conoscenze, sia tecniche che teoriche, che si sono rivelate fondamentali anche per mettermi in proprio», racconta. Federico, oltre le lezioni pratiche, ricorda infatti le lezioni di dermatologia, di anatomia, di diritto ed economia di cui ha fatto tesoro per avviare la propria attività. La burocrazia di certo non è mancata, ma può considerarsi una parte che non ha preso il sopravvento sulla voglia di fare. E in un tempo in cui la cura dell’aspetto e il richiamo all’estetica è diventato un imperativo, è bello e piacevole trovare persone gentili e appassionate come Federico.