In breve:

Volti e persone

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“Non possiedo nulla, ma è come se avessi tutto”.

di Paolo Balzano.

Paolo Balzano, 46 anni di Lanusei, verrà ordinato diacono il prossimo 26 aprile nel Santuario diocesano della Madonna d’Ogliastra. Ci racconta come sta vivendo e preparando questo importante momento della sua vita

In questo tempo di attesa in vista dell’Ordinazione diaconale cerco di stare con Gesù. La sua presenza, la sua compagnia, la sua amicizia, sono queste cose, che danno senso e sapore alla mia vita, ora. La preghiera accompagna la mia giornata. Passo ancora metà della settimana in seminario. Qui si prega in modo comunitario con gli altri allievi e i sacerdoti formatori. Una vita semplice, passata in letizia evangelica, nella condivisione degli spazi e dei beni più importanti. Un ambiente molto allegro, come sono quelli popolati dai giovani.

Appartengo da circa sei anni al Pontificio Seminario Regionale Sardo, la scuola dei preti dell’isola, che ha sede a Cagliari. Anni bellissimi. Avevo superato i trentanove quando abbandonai il mondo e la mia vita di prima. Avevo tutto, ma era come non avere niente. Ora non possiedo più nulla, ma è come se avessi tutto. Certo, non è stato facile. Ho dovuto accettare la disciplina, l’ubbidienza, proprio io che avevo sempre fatto tutto quel che volevo. Con la stessa franchezza ho usato la mia libertà per andare incontro a Dio. Ora dico che non mi ha abbandonato.

Nel percorso vocazionale ho avuto molto vicina la mia numerosa famiglia, in particolare mia madre. Mio padre se n’è andato vent’anni fa: non ho mai smesso di pensarlo e di pregare per lui. Certamente sarebbe stato contento di vedermi come sono oggi, mi ha trasmesso una fede discreta, amica più delle opere che delle esteriorità, il senso del lavoro. Ringrazio il Signore di avermi fatto crescere in una famiglia cattolica, che mi ha dato sempre un profondo affetto.

Ho trovato nella comunità diocesana un’altra famiglia adottiva. I seminaristi sono stati sorprendenti, davvero partecipi di questa fase finale del percorso di formazione verso l’ordinazione, dei veri fratelli. Vero appoggio ho trovato dai sacerdoti, dai diaconi e da molti operatori laici. In particolare a Lanusei, dove per altro il sostegno non mi è mai mancato da parte del parroco e della comunità.

Il vescovo mi ha insegnato a dare sapore al tempo. Questo tempo di attesa è saporoso se profuma di Cristo. Da qualche mese svolgo il mio servizio a Triei, Santa Maria Navarrese e Baunei. Ho imparato molto anche qui. Soprattutto come dividersi tra tre comunità. Non bisogna però dividersi, ma farsi moltiplicare, come ha fatto Gesù con i pani e i pesci. Cioè occorre donarsi. Mi occupo della formazione dei ragazzi, visito le famiglie e ricevo dagli anziani testimonianze di fede che spesso mi fanno arrossire.

Mi rendo conto di non avere le risorse necessarie per affrontare la missione che il Signore mi ha assegnato, ma devo portare Gesù ai fratelli, annunciare il suo Vangelo e non desidero nient’altro. Alla fine, secondo me, quel che importa è solo quel Dio pazzo, pazzo d’amore fino a morire, e per lui desidero oggi solo donarmi alla sua Chiesa, come uno sposo a una sposa.

Mario Lecca

Dalla Sardegna all’Antartico per studiare il clima

di Fabiana Carta.

Mario Lecca, 40 anni, di Austis, fisico meteorologo dell’Arpal (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente Ligure), ha fatto parte del gruppo composto da 13 persone durante la spedizione scientifica DC20, nella stazione italo-francese Concordia, sull’Altopiano Antartico

È terminata la DC20, la 39esima spedizione scientifica italiana in Antartide: il tuo compito era seguire alcuni progetti di ricerca nel campo della meteorologia e fisica dell’atmosfera. Quali risultati e scoperte hai portato a casa?

La base Concordia, che ha compiuto 20 anni proprio l’anno scorso, è una base scientifica ed è nata come supporto a uno dei più grandi esperimenti sul clima chiamato Epica che è arrivato a stimare il clima di 800mila anni fa, arrivando a una profondità di 2480 metri. Nel corso degli anni sono nati altri esperimenti in vari ambiti scientifici, dalla fisica dell’atmosfera alla meteorologia, sismologia, magnetismo, astrofisica e glaciologia. I miei ambiti di studio hanno riguardato la meteorologia con un osservatorio meteo permanente, lo studio della radiazione solare, studio di nubi e precipitazioni e del particolato atmosferico. L’analisi dei dati raccolti ha sempre un po’ di ritardo rispetto alle acquisizioni, tutti i campioni e i dati mandati in Italia e in Europa saranno analizzati nei prossimi mesi.

13 mesi nel cuore dell’Antartide, di cui 9 in completo isolamento perché nessuno avrebbe potuto raggiungere la base Concordia, a circa 4000 metri di altitudine e a -80 gradi centigradi, in un ambiente di aria secca carente di ossigeno. Come ci si prepara per una missione così estrema?

Gran parte della preparazione avviene dal punto di vista psicologico perché riprodurre quelle condizioni è pressoché impossibile. Ma anche la selezione dal punto di vista fisico è molto rigida, l’idoneità si ottiene dopo aver superato una serie di test psico-fisici presso l’ospedale militare di Roma, analoghe a quelle a cui si sottopongono i piloti dell’aeronautica militare: bisogna godere di ottima salute e in questo mi ritengo molto fortunato. La formazione prevede una settimana di permanenza sul Monte Bianco con la supervisione di guide alpine dell’esercito, più altre due settimane: una di formazione tecnica e una in cui, in presenza di due psicologi, si studiano le dinamiche di gruppo e si può venire esclusi in qualsiasi momento. La motivazione è importantissima per resistere a un periodo così lungo di isolamento e condizioni estreme.

La missione è stata anche una sfida sociale. Com’è stata la coesistenza forzata con un gruppo di persone che non conoscevi?

La missione è stata soprattutto una sfida sociale. Condividere spazi ristretti con persone sconosciute è complicato, è stato un continuo esercizio di pazienza e tolleranza, anche un piccolo problema può essere amplificato. È molto importante la gestione dei conflitti: è impossibile evitarli, ma bisogna puntare alla risoluzione perché la reazione personale all’isolamento o ai 4 mesi di buio è molto soggettiva. Bisogna ricordarsi in ogni momento di far parte di una squadra in cui magari c’è qualcuno che ha più bisogno di aiuto. Posso dire che questo aspetto mi ha arricchito moltissimo e che mi sono fatto anche qualche amico. In queste condizioni anche l’intensità dei rapporti è amplificata.

Intorno a te, a parte i tuoi compagni di missione, nessuna forma di vita. Come hai vissuto la solitudine? Quali sono state le difficoltà maggiori, da questo punto di vista?

L’unicità di questa esperienza consiste anche nello stacco dalla routine e dai ritmi veloci della nostra società, cosa che ho imparato ad apprezzare avendo a disposizione più tempo per me stesso. Per me è stata molto importante la lettura e l’attività fisica. Ho letto tantissimi libri e l’attività fisica era un momento di sfogo: assieme al sollevamento pesi che è stata una necessità, vista la mia perdita di peso, ho praticato yoga e meditazione. Ho persino iniziato a suonare la batteria prendendo lezioni in videoconferenza dall’Italia. Insomma, mi sono goduto la solitudine, ma ho anche preso consapevolezza che per me la condivisione è importante e non potrei fare una vita da eremita. Ci sono stati momenti in cui vedere una persona cara in videochiamata poteva essere importante quanto il cibo. In base non mancavano comunque i momenti di socialità e condivisione.

Dopo questa esperienza è cambiato il tuo rapporto con la natura, la vita?

Sono cambiate molte cose. Di fronte alla grandezza della natura, per quanto inospitale e avara in questa zona della terra, ci si sente molto piccoli e impotenti. Il mio rapporto con la natura era già di estremo rispetto, avendo fatto sport acquatici e andando in montagna, ma in condizioni così estreme devi sviluppare un’attenzione particolare. Uscire all’esterno con -80 °C è molto rischioso e niente può essere lasciato al caso, una minima distrazione può essere fatale. Di contro, uscire a mezzogiorno con una Via Lattea così luminosa che sarà difficile rivedere, stare attaccati alla finestra ed essere pronti a uscire a qualsiasi ora per ammirare l’aurora è un’emozione unica. Questo luogo inospitale può sembrare noioso e monotono ai più, ma regala tante piccole sfumature diverse ogni giorno, nei paesaggi e nei colori, per chi impara a osservarle.

Sei tornato una persona diversa? L’unicità di questa esperienza ti ha dato delle risposte a livello spirituale, personale?

Mi porto dietro un bagaglio di esperienze unico, soprattutto a livello personale, e qualche cambiamento c’è stato, anche se ancora è presto per fare un bilancio complessivo. È stato sicuramente un anno di riflessioni scaturite da un profondo contatto con sé stessi, un viaggio nelle zone più profonde del proprio animo che a volte non abbiamo il coraggio di esplorare. In queste condizioni si fanno un po’ i conti con ciò che si è davvero, ci si mette alla prova e si affrontano anche i propri difetti. Ho rivalutato l’importanza del tempo, di azioni semplici della vita quotidiana che diamo per scontate, ma che non lo sono e di cui in queste condizioni si sente la mancanza. Si rivaluta l’importanza delle relazioni e del calore umano.

Ora che sei tornato, ti manca qualcosa dell’Antartide e di quella esperienza? È difficile riadattarsi alla vita “normale”?

A circa un mese dal rientro, il riadattamento è una parte altrettanto difficile. Si passa da avere pochi stimoli alla sovra stimolazione della vita a cui pensiamo di essere abituati e questo, assieme ai ritmi lavorativi completamente diversi, può essere causa di stress. Molto banalmente, al rientro si è molto sensibili ai rumori (ho evitato per un po’ posti troppo affollati) e persino ai colori, dal momento che per un anno non ho sperimentato una grande varietà cromatica.

È stato particolarmente emozionante ritrovarsi immersi nella vegetazione primaverile della Nuova Zelanda nella via del ritorno. Ancora ho qualche difficoltà nel rivedere le foto scattate in Antartide perché sono ancora vive le emozioni che richiamano. Qualcuno parla di “mal d’ Antartide”, simile al “mal d’Africa”, e nel mio caso sento un po’ di nostalgia della vita in base, dei luoghi tanto inospitali quanto affascinanti e della particolare condizione che si sperimenta, sapendo di far parte di un ridottissimo numero di persone che hanno avuto la fortuna di poter vivere in questo continente.

Michele Deiana

Michele Deiana. La comunicazione vincente

di Maria Franca Campus.

Un vulcano comunicativo. Ventun anni, di Lanusei, Michele Deiana lavora nel network marketing di prodotti e servizi finanziari

La sua non è un’occupazione come tante, un tradizionale impiego a tempo pieno scandito da orari ordinati e mansioni ripetitive. A dire il vero la parola lavoro, quando racconta quello che fa, non la nomina nemmeno. Si tratta piuttosto di un’avventura, tanto seria quanto entusiasmante, che gli permette l’agognata indipendenza che, a suo dire, gli dà tanto in termini di competenze e formazione personale.
È iscritto alla facoltà di psicologia di Cagliari, ma non vuole diventare uno psicoterapeuta. Ancora non sa cosa farà da grande eppure su molti fronti ha le idee chiarissime, convinto com’è che tale discernimento derivi proprio dall’esperienza nel network marketing.

Tutto è iniziato dal suo interesse per il mondo finanziario che lo ha spinto ad avvicinarsi a «una materia tabù per tanti». Voleva saperne di più, voleva imparare a nuotare in un mare dove in pochi galleggiano e i più affogano e quindi per evitare il peggio ne stanno lontani. Voleva andare oltre gli stereotipi «dei ricchi e cattivi che ci accompagnano fin da bambini con le storie di zio Paperone e Robin Hood» e ha deciso di intraprendere un cammino di educazione finanziaria che ritiene «fondamentale per chiunque, perché non occorre solo risparmiare, ma anche saper gestire il denaro, proteggerlo e imparare a moltiplicarlo».
Così tramite un passa parola, come succede in questo settore, spiega Michele, si è ritrovato a svolgere un’attività remunerativa e di crescita che soddisfa le sue esigenze: avere una certa indipendenza economica. Nel suo racconto appassionato e preciso, mette l’accento soprattutto sul percorso formativo, sulle competenze, sulle opportunità che sta incontrando in questo settore. Ma cosa fa esattamente? Non lavora per o alle dipendenze di: «sono imprenditore di me stesso – precisa – e mi appoggio a un’azienda internazionale che offre formazione nel settore della fintech, la finanza tecnologica con strumenti di intelligenza artificiale da sfruttare negli investimenti. È possibile avviare interventi finanziari semiautomatici a partire da impostazioni chiare e precise, non disturbate dalle emozioni». L’intelligenza artificiale avvia le ricerche e attiva le indicazioni tanto più specifiche quanto più si è preparati. Da qui l’importanza della formazione. Che per Michele sembra la parte più affascinante. «L’obiettivo è formare investitori consapevoli e questa azienda lo fa tramite un percorso d’eccellenza fatto di lezioni a distanza e incontri in presenza, una sorta di università di educazione finanziaria». Video lezioni da seguire comodamente a casa, ma anche corsi di aggiornamento a Bologna, Roma e Milano, Barcellona e Budapest. «L’azienda non dà consigli finanziari – sottolinea il giovane imprenditore lanuseino –, ma attraverso un’efficace preparazione mette il consumatore nelle condizioni di fare scelte opportune. Adoro il mondo del marketing e della vendita», dice mentre i suoi occhi scuri parlano insieme alle parole fluide e chiare, precise e sicure che raccontano la sua esperienza. Ciò che colpisce è la sua determinazione, la soddisfazione per «aver vinto i miei limiti e essere andato oltre il giudizio degli altri» dice da ex timido.

Ha frequentato il Liceo classico di Lanusei e dopo la maturità si è preso una pausa di orientamento, un gap year in cui ha fatto il cameriere in bar e ristoranti, ma ha anche ideato progetti educativi e didattici per gli alunni della scuola primaria. Dodici mesi dopo, il ritorno sui libri e l’ingresso nelle aule universitarie con un percorso, lo studio della psicologia, che ben si coniuga con le sue inclinazioni: «Ho capito di avere un forte interesse nel promuovere valori positivi, impattare la vita delle persone» e l’esperienza nel network marketing lo ha aiutato a raggiungere questa consapevolezza. «La cosa più interessante sono le competenze comunicative che sto acquisendo a livello personale e professionale – continua –. Ho scoperto la bellezza dell’interazione». La comunicazione passa sempre più attraverso i social, anche la sua: ha all’attivo un centinaio di video, «alcuni accuratamente preparati, altri improvvisati come quello che ho fatto stamattina tra i vicoli di Lanusei».

Naturalezza e strategie, spontaneità e studio, impegno e talento, una rete di risorse e qualità alla base del suo procedere. «La staticità non esiste: o si cresce o si decresce». Una legge della fisica, ma anche una filosofia di vita la sua. «Ricerco la crescita», afferma, convinto che per andare avanti occorrano degli obiettivi. E pensare che una volta sognava di intraprendere la carriera militare. Adesso punta su altre armi, quelle che ha iniziato ad affilare sul palco dell’aula magna dell’Istituto Leonardo Da Vinci da studente del Liceo classico, protagonista nelle riuscite rappresentazioni teatrali: «Non sono mai stato uno studente eccellente, ma quando qualcosa mi piaceva davvero davo del mio meglio. Non sono mai stato neppure un amante della lettura e invece l’anno scorso ho letto 40 libri».

Sacedoti Romero

Mons. Romero, esempio luminoso di Chiesa

a cura di Augusta Cabras.

Padre Josè Mauricio Quijada e Padre Edoardo Antonio Maldonado Flores sono sacerdoti della diocesi di Chalatenango, a El Salvador, terra natale dell’Arcivescovo Oscar Romero, assassinato nel 1980 mentre celebrava la Messa, proclamato Santo il 14 ottobre del 2018 da Papa Francesco. Abbiamo raccolto la loro riflessione

Chi era Mons. Oscar Romero? Perché è martire? La sua testimonianza di operatore di pace è ancora attuale dopo 45 anni dalla sua uccisione?

Padre Mauricio. Mons. Romero è un martire della giustizia sociale e dell’amore. Qui sta tutta l’azione pastorale del Vangelo, perché un Vangelo che non tocca la realtà non può essere credibile, un vangelo che non libera, svanisce. Il suo sogno era che El Salvador vivesse nella pace, nella giustizia, che ci fosse uno sviluppo umano integrale, a partire dai diversi organismi nazionali, per poter costruire un El Salvador secondo il cuore di Dio.

Se vogliamo essere veramente operatori di pace, dobbiamo vedere la configurazione di Mons. Romero con Gesù Cristo, quella fedeltà a Dio per liberare il suo popolo dalla morte, dall’ingiustizia, dall’oppressione. Con Romero si realizza ciò che Gesù ha detto: «Potranno uccidere il corpo, ma non toglieranno la vita. C’è una frase che si dice di Mons. Romero: «Mi uccideranno, ma io risorgerò tra la mia gente, e il sangue sia un seme di vita, di speranza e di pace»».

Padre Edoardo.Romero fu un uomo di Dio, un uomo di Chiesa e un pastore con l’odore delle pecore. Possiamo dire che questa figura, impiegata da Papa Francesco in Evangeli Gaudium, si applica molto bene a San Oscar Romero. Fu martire perché capace di difendere i poveri fino alla morte. Perché predicò la giustizia e la pace, perché fu capace di dire: «Niente mi interessa di più che la vita umana».

Mons. Romero fu amico dei poveri in un paese dilaniato dalla violenza della guerra civile. Cercava la pace a mani nude, con la sola forza delle parole del Vangelo. Era uno che dava fastidio. Persino da morto.

Padre Edoardo. San Oscar Romero amava i poveri perché lui stesso si considerava un povero tra i poveri. Diceva: «Fratelli, volete sapere se il vostro cristianesimo è autentico? Qui c’è la pietra di paragone. Con chi state bene? Chi sono quelli che vi criticano? Chi non vi accetta? Chi vi lusinga? Saprai allora che Cristo un giorno disse: “Non sono venuto a portare la pace, ma la divisione e vi sarà divisione persino nella stessa famiglia”, perché alcuni vogliono vivere più comodamente, secondo i principi del mondo, del potere e del denaro e altri, al contrario, hanno compreso la chiamata di Cristo e devono rifiutare tutto ciò che non può essere giusto nel mondo. La Chiesa appoggia e benedice gli sforzi per trasformare le strutture di ingiustizia e mette soltanto una condizione: che le trasformazioni sociali, economiche e politiche ridondino in autentico beneficio per i poveri. Cristo ci invita a non temere la persecuzione, perché, credetelo fratelli, chi si impegna con i poveri deve seguire lo stesso destino dei poveri».

Aveva paura di morire, ma aveva ancora più paura di tradire il Vangelo, di non amare la sua gente. Rimangono indelebili le ultime parole che ha pronunciato nell’omelia proclamata nel giorno prima del suo assassinio.

Padre Mauricio. Penso che ogni persona sperimenti la paura di morire, ma ciò che ha portato Romero a testimoniare la vita cristiana è stato identificarsi con un popolo sofferente, sfruttato, represso e vedere il dolore e la sofferenza di tante vittime. Quando si vive veramente quell’esperienza con le persone, non si può essere insensibili e i loro dolori fanno parte della vita del pastore, anche le loro gioie rallegrano il cuore del pastore. Nella sua ultima omelia della quinta domenica di Quaresima ha detto: «Nessuno è sconfitto, anche se viene messo sotto lo stivale dell’oppressione e della repressione, chi crede in Cristo sa di essere un vincitore». Ha anche detto: «Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contrario alla legge di Dio. Una legge immorale che nessuno deve rispettare. E di fronte all’ordine di uccidere prevale la legge di Dio: non uccidere».

Durante i 10 anni di guerra civile, conclusasi nel 1992, il popolo di El Salvador è stato vittima di oppressione e violenza. I numeri sono drammatici. Cosa lascia al paese la testimonianza del martirio di Mons. Romero e il ricordo di quegli anni tragici?

Padre Edoardo. Mons. Romero era cosciente della sua debolezza davanti al martirio, aveva molta paura, ma la Parola di Dio era più forte.

Diceva: «Spesso hanno minacciato di uccidermi. Come cristiano devo dire che non credo nella morte senza resurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza superbia, con la più grande umiltà. In quanto pastore ho l’obbligo, per divina disposizione, di dare la mia vita per coloro che amo, ossia per tutti i salvadoregni, anche per coloro che potrebbero assassinarmi. Se le minacce giungessero a compimento, fin d’ora offrirei a Dio il mio sangue come seme di libertà e segno di speranza per la redenzione del Salvador.

Padre Mauricio. Romero testimonia che se non impariamo a vivere come fratelli e secondo la verità, in cui la società può basarsi sulla fiducia, sulla razionalità, sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, sarà difficile per El Salvador uscire dalla spirale della violenza.

Cosa significa per voi essere sacerdoti oggi, in un paese che ha sperimentato tutto questo? A cosa è chiamata oggi la Chiesa di El Salvador?

Padre Mauricio. Come sacerdote diocesano, in questi tempi, in cui l’ingiustizia sociale continua a essere la radice di tanti mali, e dove le politiche hanno così poco impatto sulla trasformazione della vita sociale, è una sfida, perché tanto dolore e sofferenza avrebbero potuto essere evitate o si sarebbero potute creare condizioni di vita migliori. A livello di vita cristiana, la figura di monsignor Oscar Arnulfo Romero è una sfida, perché ci sono inviti molto concreti: la vita di fede, nella preghiera personale e comunitaria, la vita ecclesiale, nell’azione sociale, l’insegnamento della Parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa.

Come ho detto, per me è una sfida, e la sfida più grande è la fedeltà alla chiamata di Cristo in una vocazione concreta, di servizio alla comunità, con una tensione preferenziale ai poveri. Questa non è concepita solo a livello di discorso o di materia, vivendo in una realtà concreta, dove si può vedere con gli occhi della fede, giudicare con amore e agire con speranza ed entusiasmo.

Padre Edoardo. Significa avere il coraggio di andare all’origine del Vangelo, per incontrarci con il paradigma del nostro sacerdozio, cioè, l’incontro con Gesù Buon Pastore che trasformò la vita di San Oscar Romero per essere un pastore secondo il cuore di Dio.

Amalia Usai

Amalia Usai. Una madre per i sacerdoti

di Michele Loi.

Chi vive per sé perde tutto. Chi vive per gli altri, donando la sua vita, questi diventa grande. Questi valorizza il tempo e l’eternità

Sono parole di Don Stefano Lamera, sacerdote della famiglia paolina, le cui meditazioni Amalia ha fedelmente trascritto per oltre 30 anni, e che si leggono nell’ultima copia del foglio “Ancilla Domini”, che puntualmente, con materna premura, mi inviava. In queste parole, mi sembra davvero di potere leggere il suo testamento spirituale. Amalia non ci scriverà più, ma quello che più conta, al termine della nostra vita, è, come ebbe a dire Papa Benedetto XVI, «ciò che avremo scritto nelle nostre anime immortali».

La notizia della sua morte improvvisa, lo scorso 6 dicembre, ci lascia certo smarriti, come quando viene a mancare una mamma, una sorella, una maestra di vita. Nel contempo, tuttavia, ci accompagna una grande serenità, unita alla certezza di avere acquistato, presso Dio, qualcuno che penserà e intercederà per noi.

La sua formazione cristiana inizia in famiglia, a Talana, in un ambiente profondamente credente, che darà alla Chiesa ben tre vocazioni religiose e una nel ministero ordinato del diaconato permanente. Prosegue in parrocchia, alla scuola di quel santo sacerdote che fu Don Emanuele Cabiddu, parroco di Santa Marta negli anni della sua giovinezza, grande formatore di anime, per il quale Amalia conserverà sempre grande venerazione e gratitudine. In seguito, durante il periodo degli studi magistrali a Cagliari, presso l’asilo della marina, ebbe modo di conoscere ed entrare in confidenza con Suor Teresa Tambelli, la venerata madre dei piccoli abbandonati di Cagliari, per la quale oggi è in corso la causa di beatificazione, prosecutrice dell’opera della Beata Suor Giuseppina Nicoli.

Decisiva però, fu senza dubbio, per la sua crescita umana e spirituale, l’incontro con la famiglia paolina, fondata dal Beato Giacomo Alberione, e in particolare, con don Stefano Lamera, con cui diede vita all’Associazione “Ancilla Domini”, per la cura e assistenza spirituale e materiale dei sacerdoti. Questa associazione laicale, ispirata agli insegnamenti sulla donna associata allo zelo sacerdotale, del fondatore della stessa famiglia paolina, fu approvata dal Vescovo di Trieste, Eugenio Ravignani, il 1 giugno 1997.

In questo nuovo compito, Amalia profuse, senza risparmio, le sue grandi doti di mente e di cuore. Il sacerdote era davvero per lei “Alter Christus”, per il quale pregare e offrire letteralmente la vita. Certamente Amalia ricordava l’esempio di Santa Teresa di Gesù Bambino; per i sacerdoti pregava, di giorno e di notte. Per loro preparava da mangiare, li visitava quando erano malati, offriva una fattiva e costante collaborazione in tutte le iniziative di apostolato, faceva penitenza e faceva celebrare le Sante. Messe quando il Signore li chiamava a sé. Era per loro una vera madre, la collaboratrice che tutti vorrebbero avere in parrocchia, la consigliera saggia che sapeva giudicare, con la luce di Dio, persone e avvenimenti.

La sua intelligenza acuta era sempre aperta alla relazione con l’altro, all’amicizia sincera e disinteressata, all’attenzione che sapeva intuire e prevenire, con premura, le necessità dei fratelli. Aveva sempre la battuta pronta, in grado di smorzare situazioni di tensione o di imbarazzo, e di ristabilire un clima sereno e costruttivo.

La sua singolare testimonianza di totale corrispondenza alla Grazia e di amore appassionato alla Chiesa e ai sacerdoti, non può essere dimenticata. In questo anno in cui la Diocesi d’Ogliastra festeggia e celebra i 200 anni dalla sua fondazione, sono convinto che uno dei frutti più belli della nostra santa e amata Chiesa, sia proprio la vita totalmente donata di Amalia Usai.

Nel suo feretro ho voluto deporre una stola e un purificatoio, in segno di gratitudine, a nome di tutti i sacerdoti, per cui lei si è offerta senza risparmio, come una vera madre.

 

 

Daniele Pinna

Daniele Pinna. Formazione e qualità. L’accoglienza è servita

di Anna Piras.

Daniele Pinna è un giovane imprenditore di 35 anni. Vive a Tortolì con la sua compagna Jessica e il loro bimbo Tommaso di appena sei mesi.

Partendo dall’esperienza lavorativa del nonno e dei genitori, ha costruito una realtà imprenditoriale che spazia dalla ristorazione all’ospitalità alberghiera, con uno sguardo al passato, alle peculiarità del nostro territorio e alla tradizione, ma sempre protesa all’innovazione, alle nuove tendenze e alla crescita professionale.

Abbiamo incontrato Daniele all’interno delle sue strutture e ci ha descritto la sua esperienza a partire dalla storia della sua famiglia, quasi come dentro un bel libro, in un filo che si dipana dagli anni sessanta e arriva ai giorni nostri. Suo nonno, Salvatore Scattu, fu il primo imprenditore a portare a Lanusei la musica moderna nel suo locale e lo fece installando un jukebox per allietare i clienti e fu anche il primo a servire la pizza in Ogliastra.

La sua voglia di costruire una realtà economica importante lo convinse ad aprire uno chalet a Lanusei, lo Scattu Show. Era il 1962. Si può dire senza timore di essere smentiti che il suo lavoro e le sue passioni abbiano contagiato il resto della famiglia. La madre di Daniele, Anna Rosa, divenne ben presto anch’essa parte attiva di questo mondo tanto creativo, quanto complesso. Si sposò con Giuseppe, un giovane di Villasimius, da tutti conosciuto come Geppo, e fecero dei servizi di ristorazione la loro missione e la loro passione.

Due cuori e un piatto di pasta. Fu così che i due nel 2015 aprirono a Tortolì il ristorante Sa Contonera, dando seguito a quella che è stata la strada maestra anche per Daniele, cresciuto in cucina, sull’esempio della sua famiglia.

La “saga familiare”, nata nel piccolo locale di Lanusei dall’atmosfera unica, continua oggi a scrivere le sue puntate, grazie alle aspirazioni di Daniele che ha ereditato la passione per i sapori d’Ogliastra e per l’ospitalità. Ora è lui il titolare del ristorante tortoliese che è anche Hotel.

Nel 2018 dà avvio a una nuova avventura, la pizzeria Geppo’s,che conserva il nome di suo padre e la genuinità della tradizione di famiglia, senza farle mancare il suo tocco personale e una grande attenzione alla qualità e alla soddisfazione del cliente.

Poi ci sono i numeri, perché anche quelli sono importanti: circa 7mila le presenze all’anno e 20mila le consegne a domicilio per questo giovane che guarda oltre, progetta e realizza il futuro per sé e per la sua famiglia, facendo ogni giorno un passo avanti. Si spiega anche così l’apertura del bar Geppo’s all’interno di un grande supermercato, a Tortolì.

Voglia di crescere e di portare avanti i propri sogni, tenendo ben saldi i piedi per terra, rimanendo al passo con i tempi, con le tendenze del mercato e le realtà economiche presenti nella penisola e all’estero. Aspetti per i quali la formazione è fondamentale. Per questo Daniele prepara spesso la valigia e parte: Milano, Rimini, Riva del Garda, città d’eccellenza per le fiere e le iniziative di settore. Ma la sua meta è qualunque luogo nel quale vi siano opportunità formative e di crescita professionale: «Apprendere è fondamentale – sottolinea il giovane imprenditore –, così come ascoltare, confrontarsi e osservare altre esperienze e tendenze. L’utilizzo delle tecnologie e delle innovazioni, inoltre, facilitano il lavoro in team, migliorando i servizi offerti e la qualità di vita di tutti».
Il segreto della gestione di tante realtà diverse e dislocate in luoghi differenti? Di sicuro, oltre la formazione continua per sé e per i dipendenti, la ricerca di soluzioni pratiche e dinamiche con le quali portare avanti il lavoro, la valorizzazione delle prerogative e attitudini di ciascuno, secondo quella che è la “regola della polivalenza”: tutti, all’interno dell’azienda, devono essere in grado di svolgere un gran numero di funzioni con la massima competenza.

Inutile dire che gli alti e bassi non sono mai mancati, ma Daniele ha sempre cercato di guardare avanti, imparando anche dalle esperienze negative e dagli errori. E questo diventa proprio il consiglio per chi vuole progettare una nuova impresa e cimentarsi nel lavoro autonomo: «Accedere al credito spesso può essere difficoltoso – fa notare –, non immediato, ma è possibile quando si hanno idee chiare e un progetto valido, con prospettive di crescita».

Persino il periodo della pandemia è stato vettore di nuove opportunità per Daniele che non si è dato per vinto, ma ha trasformato in nuova opportunità ciò che a tutti sembrava una strada buia. Rimboccandosi le maniche, ha saputo avvicinarsi ai suoi clienti in modo innovativo, riuscendo a trasformare una probabile crisi in alternativa. E il suo è un racconto ancora in divenire. Nuovi progetti all’orizzonte? Certo che sì: un’idea, che sta maturando lentamente e che presto vedrà la luce, ma che per il momento preferisce non svelare. La saga, insomma, continua…