Volti e persone
Mons. Romero, esempio luminoso di Chiesa
a cura di Augusta Cabras.
Padre Josè Mauricio Quijada e Padre Edoardo Antonio Maldonado Flores sono sacerdoti della diocesi di Chalatenango, a El Salvador, terra natale dell’Arcivescovo Oscar Romero, assassinato nel 1980 mentre celebrava la Messa, proclamato Santo il 14 ottobre del 2018 da Papa Francesco. Abbiamo raccolto la loro riflessione
Chi era Mons. Oscar Romero? Perché è martire? La sua testimonianza di operatore di pace è ancora attuale dopo 45 anni dalla sua uccisione?
Padre Mauricio. Mons. Romero è un martire della giustizia sociale e dell’amore. Qui sta tutta l’azione pastorale del Vangelo, perché un Vangelo che non tocca la realtà non può essere credibile, un vangelo che non libera, svanisce. Il suo sogno era che El Salvador vivesse nella pace, nella giustizia, che ci fosse uno sviluppo umano integrale, a partire dai diversi organismi nazionali, per poter costruire un El Salvador secondo il cuore di Dio.
Se vogliamo essere veramente operatori di pace, dobbiamo vedere la configurazione di Mons. Romero con Gesù Cristo, quella fedeltà a Dio per liberare il suo popolo dalla morte, dall’ingiustizia, dall’oppressione. Con Romero si realizza ciò che Gesù ha detto: «Potranno uccidere il corpo, ma non toglieranno la vita. C’è una frase che si dice di Mons. Romero: «Mi uccideranno, ma io risorgerò tra la mia gente, e il sangue sia un seme di vita, di speranza e di pace»».
Padre Edoardo.Romero fu un uomo di Dio, un uomo di Chiesa e un pastore con l’odore delle pecore. Possiamo dire che questa figura, impiegata da Papa Francesco in Evangeli Gaudium, si applica molto bene a San Oscar Romero. Fu martire perché capace di difendere i poveri fino alla morte. Perché predicò la giustizia e la pace, perché fu capace di dire: «Niente mi interessa di più che la vita umana».
Mons. Romero fu amico dei poveri in un paese dilaniato dalla violenza della guerra civile. Cercava la pace a mani nude, con la sola forza delle parole del Vangelo. Era uno che dava fastidio. Persino da morto.
Padre Edoardo. San Oscar Romero amava i poveri perché lui stesso si considerava un povero tra i poveri. Diceva: «Fratelli, volete sapere se il vostro cristianesimo è autentico? Qui c’è la pietra di paragone. Con chi state bene? Chi sono quelli che vi criticano? Chi non vi accetta? Chi vi lusinga? Saprai allora che Cristo un giorno disse: “Non sono venuto a portare la pace, ma la divisione e vi sarà divisione persino nella stessa famiglia”, perché alcuni vogliono vivere più comodamente, secondo i principi del mondo, del potere e del denaro e altri, al contrario, hanno compreso la chiamata di Cristo e devono rifiutare tutto ciò che non può essere giusto nel mondo. La Chiesa appoggia e benedice gli sforzi per trasformare le strutture di ingiustizia e mette soltanto una condizione: che le trasformazioni sociali, economiche e politiche ridondino in autentico beneficio per i poveri. Cristo ci invita a non temere la persecuzione, perché, credetelo fratelli, chi si impegna con i poveri deve seguire lo stesso destino dei poveri».
Aveva paura di morire, ma aveva ancora più paura di tradire il Vangelo, di non amare la sua gente. Rimangono indelebili le ultime parole che ha pronunciato nell’omelia proclamata nel giorno prima del suo assassinio.
Padre Mauricio. Penso che ogni persona sperimenti la paura di morire, ma ciò che ha portato Romero a testimoniare la vita cristiana è stato identificarsi con un popolo sofferente, sfruttato, represso e vedere il dolore e la sofferenza di tante vittime. Quando si vive veramente quell’esperienza con le persone, non si può essere insensibili e i loro dolori fanno parte della vita del pastore, anche le loro gioie rallegrano il cuore del pastore. Nella sua ultima omelia della quinta domenica di Quaresima ha detto: «Nessuno è sconfitto, anche se viene messo sotto lo stivale dell’oppressione e della repressione, chi crede in Cristo sa di essere un vincitore». Ha anche detto: «Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contrario alla legge di Dio. Una legge immorale che nessuno deve rispettare. E di fronte all’ordine di uccidere prevale la legge di Dio: non uccidere».
Durante i 10 anni di guerra civile, conclusasi nel 1992, il popolo di El Salvador è stato vittima di oppressione e violenza. I numeri sono drammatici. Cosa lascia al paese la testimonianza del martirio di Mons. Romero e il ricordo di quegli anni tragici?
Padre Edoardo. Mons. Romero era cosciente della sua debolezza davanti al martirio, aveva molta paura, ma la Parola di Dio era più forte.
Diceva: «Spesso hanno minacciato di uccidermi. Come cristiano devo dire che non credo nella morte senza resurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza superbia, con la più grande umiltà. In quanto pastore ho l’obbligo, per divina disposizione, di dare la mia vita per coloro che amo, ossia per tutti i salvadoregni, anche per coloro che potrebbero assassinarmi. Se le minacce giungessero a compimento, fin d’ora offrirei a Dio il mio sangue come seme di libertà e segno di speranza per la redenzione del Salvador.
Padre Mauricio. Romero testimonia che se non impariamo a vivere come fratelli e secondo la verità, in cui la società può basarsi sulla fiducia, sulla razionalità, sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, sarà difficile per El Salvador uscire dalla spirale della violenza.
Cosa significa per voi essere sacerdoti oggi, in un paese che ha sperimentato tutto questo? A cosa è chiamata oggi la Chiesa di El Salvador?
Padre Mauricio. Come sacerdote diocesano, in questi tempi, in cui l’ingiustizia sociale continua a essere la radice di tanti mali, e dove le politiche hanno così poco impatto sulla trasformazione della vita sociale, è una sfida, perché tanto dolore e sofferenza avrebbero potuto essere evitate o si sarebbero potute creare condizioni di vita migliori. A livello di vita cristiana, la figura di monsignor Oscar Arnulfo Romero è una sfida, perché ci sono inviti molto concreti: la vita di fede, nella preghiera personale e comunitaria, la vita ecclesiale, nell’azione sociale, l’insegnamento della Parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa.
Come ho detto, per me è una sfida, e la sfida più grande è la fedeltà alla chiamata di Cristo in una vocazione concreta, di servizio alla comunità, con una tensione preferenziale ai poveri. Questa non è concepita solo a livello di discorso o di materia, vivendo in una realtà concreta, dove si può vedere con gli occhi della fede, giudicare con amore e agire con speranza ed entusiasmo.
Padre Edoardo. Significa avere il coraggio di andare all’origine del Vangelo, per incontrarci con il paradigma del nostro sacerdozio, cioè, l’incontro con Gesù Buon Pastore che trasformò la vita di San Oscar Romero per essere un pastore secondo il cuore di Dio.
Amalia Usai. Una madre per i sacerdoti
di Michele Loi.
“Chi vive per sé perde tutto. Chi vive per gli altri, donando la sua vita, questi diventa grande. Questi valorizza il tempo e l’eternità”
Sono parole di Don Stefano Lamera, sacerdote della famiglia paolina, le cui meditazioni Amalia ha fedelmente trascritto per oltre 30 anni, e che si leggono nell’ultima copia del foglio “Ancilla Domini”, che puntualmente, con materna premura, mi inviava. In queste parole, mi sembra davvero di potere leggere il suo testamento spirituale. Amalia non ci scriverà più, ma quello che più conta, al termine della nostra vita, è, come ebbe a dire Papa Benedetto XVI, «ciò che avremo scritto nelle nostre anime immortali».
La notizia della sua morte improvvisa, lo scorso 6 dicembre, ci lascia certo smarriti, come quando viene a mancare una mamma, una sorella, una maestra di vita. Nel contempo, tuttavia, ci accompagna una grande serenità, unita alla certezza di avere acquistato, presso Dio, qualcuno che penserà e intercederà per noi.
La sua formazione cristiana inizia in famiglia, a Talana, in un ambiente profondamente credente, che darà alla Chiesa ben tre vocazioni religiose e una nel ministero ordinato del diaconato permanente. Prosegue in parrocchia, alla scuola di quel santo sacerdote che fu Don Emanuele Cabiddu, parroco di Santa Marta negli anni della sua giovinezza, grande formatore di anime, per il quale Amalia conserverà sempre grande venerazione e gratitudine. In seguito, durante il periodo degli studi magistrali a Cagliari, presso l’asilo della marina, ebbe modo di conoscere ed entrare in confidenza con Suor Teresa Tambelli, la venerata madre dei piccoli abbandonati di Cagliari, per la quale oggi è in corso la causa di beatificazione, prosecutrice dell’opera della Beata Suor Giuseppina Nicoli.
Decisiva però, fu senza dubbio, per la sua crescita umana e spirituale, l’incontro con la famiglia paolina, fondata dal Beato Giacomo Alberione, e in particolare, con don Stefano Lamera, con cui diede vita all’Associazione “Ancilla Domini”, per la cura e assistenza spirituale e materiale dei sacerdoti. Questa associazione laicale, ispirata agli insegnamenti sulla donna associata allo zelo sacerdotale, del fondatore della stessa famiglia paolina, fu approvata dal Vescovo di Trieste, Eugenio Ravignani, il 1 giugno 1997.
In questo nuovo compito, Amalia profuse, senza risparmio, le sue grandi doti di mente e di cuore. Il sacerdote era davvero per lei “Alter Christus”, per il quale pregare e offrire letteralmente la vita. Certamente Amalia ricordava l’esempio di Santa Teresa di Gesù Bambino; per i sacerdoti pregava, di giorno e di notte. Per loro preparava da mangiare, li visitava quando erano malati, offriva una fattiva e costante collaborazione in tutte le iniziative di apostolato, faceva penitenza e faceva celebrare le Sante. Messe quando il Signore li chiamava a sé. Era per loro una vera madre, la collaboratrice che tutti vorrebbero avere in parrocchia, la consigliera saggia che sapeva giudicare, con la luce di Dio, persone e avvenimenti.
La sua intelligenza acuta era sempre aperta alla relazione con l’altro, all’amicizia sincera e disinteressata, all’attenzione che sapeva intuire e prevenire, con premura, le necessità dei fratelli. Aveva sempre la battuta pronta, in grado di smorzare situazioni di tensione o di imbarazzo, e di ristabilire un clima sereno e costruttivo.
La sua singolare testimonianza di totale corrispondenza alla Grazia e di amore appassionato alla Chiesa e ai sacerdoti, non può essere dimenticata. In questo anno in cui la Diocesi d’Ogliastra festeggia e celebra i 200 anni dalla sua fondazione, sono convinto che uno dei frutti più belli della nostra santa e amata Chiesa, sia proprio la vita totalmente donata di Amalia Usai.
Nel suo feretro ho voluto deporre una stola e un purificatoio, in segno di gratitudine, a nome di tutti i sacerdoti, per cui lei si è offerta senza risparmio, come una vera madre.
Daniele Pinna. Formazione e qualità. L’accoglienza è servita
di Anna Piras.
Daniele Pinna è un giovane imprenditore di 35 anni. Vive a Tortolì con la sua compagna Jessica e il loro bimbo Tommaso di appena sei mesi.
Partendo dall’esperienza lavorativa del nonno e dei genitori, ha costruito una realtà imprenditoriale che spazia dalla ristorazione all’ospitalità alberghiera, con uno sguardo al passato, alle peculiarità del nostro territorio e alla tradizione, ma sempre protesa all’innovazione, alle nuove tendenze e alla crescita professionale.
Abbiamo incontrato Daniele all’interno delle sue strutture e ci ha descritto la sua esperienza a partire dalla storia della sua famiglia, quasi come dentro un bel libro, in un filo che si dipana dagli anni sessanta e arriva ai giorni nostri. Suo nonno, Salvatore Scattu, fu il primo imprenditore a portare a Lanusei la musica moderna nel suo locale e lo fece installando un jukebox per allietare i clienti e fu anche il primo a servire la pizza in Ogliastra.
La sua voglia di costruire una realtà economica importante lo convinse ad aprire uno chalet a Lanusei, lo Scattu Show. Era il 1962. Si può dire senza timore di essere smentiti che il suo lavoro e le sue passioni abbiano contagiato il resto della famiglia. La madre di Daniele, Anna Rosa, divenne ben presto anch’essa parte attiva di questo mondo tanto creativo, quanto complesso. Si sposò con Giuseppe, un giovane di Villasimius, da tutti conosciuto come Geppo, e fecero dei servizi di ristorazione la loro missione e la loro passione.
Due cuori e un piatto di pasta. Fu così che i due nel 2015 aprirono a Tortolì il ristorante Sa Contonera, dando seguito a quella che è stata la strada maestra anche per Daniele, cresciuto in cucina, sull’esempio della sua famiglia.
La “saga familiare”, nata nel piccolo locale di Lanusei dall’atmosfera unica, continua oggi a scrivere le sue puntate, grazie alle aspirazioni di Daniele che ha ereditato la passione per i sapori d’Ogliastra e per l’ospitalità. Ora è lui il titolare del ristorante tortoliese che è anche Hotel.
Nel 2018 dà avvio a una nuova avventura, la pizzeria Geppo’s,che conserva il nome di suo padre e la genuinità della tradizione di famiglia, senza farle mancare il suo tocco personale e una grande attenzione alla qualità e alla soddisfazione del cliente.
Poi ci sono i numeri, perché anche quelli sono importanti: circa 7mila le presenze all’anno e 20mila le consegne a domicilio per questo giovane che guarda oltre, progetta e realizza il futuro per sé e per la sua famiglia, facendo ogni giorno un passo avanti. Si spiega anche così l’apertura del bar Geppo’s all’interno di un grande supermercato, a Tortolì.
Voglia di crescere e di portare avanti i propri sogni, tenendo ben saldi i piedi per terra, rimanendo al passo con i tempi, con le tendenze del mercato e le realtà economiche presenti nella penisola e all’estero. Aspetti per i quali la formazione è fondamentale. Per questo Daniele prepara spesso la valigia e parte: Milano, Rimini, Riva del Garda, città d’eccellenza per le fiere e le iniziative di settore. Ma la sua meta è qualunque luogo nel quale vi siano opportunità formative e di crescita professionale: «Apprendere è fondamentale – sottolinea il giovane imprenditore –, così come ascoltare, confrontarsi e osservare altre esperienze e tendenze. L’utilizzo delle tecnologie e delle innovazioni, inoltre, facilitano il lavoro in team, migliorando i servizi offerti e la qualità di vita di tutti».
Il segreto della gestione di tante realtà diverse e dislocate in luoghi differenti? Di sicuro, oltre la formazione continua per sé e per i dipendenti, la ricerca di soluzioni pratiche e dinamiche con le quali portare avanti il lavoro, la valorizzazione delle prerogative e attitudini di ciascuno, secondo quella che è la “regola della polivalenza”: tutti, all’interno dell’azienda, devono essere in grado di svolgere un gran numero di funzioni con la massima competenza.
Inutile dire che gli alti e bassi non sono mai mancati, ma Daniele ha sempre cercato di guardare avanti, imparando anche dalle esperienze negative e dagli errori. E questo diventa proprio il consiglio per chi vuole progettare una nuova impresa e cimentarsi nel lavoro autonomo: «Accedere al credito spesso può essere difficoltoso – fa notare –, non immediato, ma è possibile quando si hanno idee chiare e un progetto valido, con prospettive di crescita».
Persino il periodo della pandemia è stato vettore di nuove opportunità per Daniele che non si è dato per vinto, ma ha trasformato in nuova opportunità ciò che a tutti sembrava una strada buia. Rimboccandosi le maniche, ha saputo avvicinarsi ai suoi clienti in modo innovativo, riuscendo a trasformare una probabile crisi in alternativa. E il suo è un racconto ancora in divenire. Nuovi progetti all’orizzonte? Certo che sì: un’idea, che sta maturando lentamente e che presto vedrà la luce, ma che per il momento preferisce non svelare. La saga, insomma, continua…
L’arte come terapia
di Anna Piras.
Piticobà a Tortolì è uno spazio dove l’esplorazione si coniuga con la scoperta, la bellezza, il benessere per grandi e piccoli. Laura Melis è l’artefice di questo micromondo aperto a tutti
Si può dar vita a una nuova attività lavorativa, coniugando importanti elementi? La risposta è sì. Abbiamo incontrato Laura Melis per parlare con lei del suo percorso professionale e della sua attività. Abbiamo ripercorso le fasi che hanno caratterizzato la sua idea di impresa nata da un’idea innovativa e di come sia riuscita a progettare e realizzare il suo centro, Piticobà, a Tortolì.
Si tratta di una struttura davvero particolare, dove si svolgono attività di artiterapie e Snoezelen in uno spazio esplorativo dove nulla è lasciato al caso e tutto è volto al benessere della persona. I sorrisi dei piccoli ospiti e i loro occhietti curiosi trasmettono serenità e gioia.
«Il mio Piticobà nasce come un centro delle terapie espressive e corporee – racconta Laura –, uno spazio esplorativo in cui le artiterapie e lo Snoezelen si fondono per diffondere benessere e contribuire alla cura e alla crescita della persona. La struttura è stata inaugurata tre anni fa, a maggio del 2021, ma la sua ideazione e progettazione risale al 2018, anno in cui ho fatto domanda di finanziamento Resto al Sud – l’incentivo che sostiene la nascita e lo sviluppo di nuove attività imprenditoriali e libero professionali in diverse zone centrali e meridionali d’Italia, ndr –. Da quel momento, di difficoltà e sfide da affrontare ce ne sono state tante, a partire dalla messa in forma della mia idea imprenditoriale, che era sì chiara nella mia mente, ma non in quella di chi avrebbe dovuto guidarmi nella realizzazione e ancor meno delineata nei regolamenti attuativi e nelle normative vigenti. In sostanza il progetto era apparso da subito innovativo e valido, ma difficilmente inquadrabile e progettualmente ostico. La mia idea era quella di creare un luogo d’ascolto e condivisione, aperto a tutti, che potesse creare buone occasioni di scambio e che aprisse piccoli spiragli di consapevolezza».
Strada ardua e complessa, nella quale Laura Melis si prepara, studia, si specializza attraverso percorsi formativi mirati, con l’obiettivo di rendere il suo centro, praticamente unico: «Durante il mio percorso universitario nella facoltà di Scienze dell’Educazione – spiega – ho avuto la fortuna di lavorare e crearmi una lunga esperienza lavorativa, ma soprattutto comprendere come volessi spendere le mie competenze e quali altri strumenti voler acquisire nel tempo con la mia formazione. Le mie passioni e le mie attitudine hanno finalmente trovato nutrimento nei percorsi di specializzazione: quello triennale come arte terapeuta e quello come operatore Snoezelen, ultimati entrambi dopo l’apertura del centro, che hanno delineato in maniera marcata non solo le mie esperienze e le mie scelte formative, ma anche il mio progetto dandogli l’identità che ancora oggi, tra mille sforzi e difficoltà combatto per preservare».
Determinazione e tenacia. Sono le caratteristiche della giovane professionista ogliastrina che mai si è arresa dinanzi ai cavilli burocratici, ai problemi di accesso ai finanziamenti o alla ricerca dell’inquadramento specifico per il suo centro, anche se le difficoltà non mancano mai. Una certezza solida: la sua famiglia che la segue e la incoraggia: «Tante sono state e sono tutt’oggi le volte in cui ho pensato di mollare – ammette –. Se in fase progettuale le paure maggiori sono state quelle di veder sfumare un sogno prossimo alla realizzazione, adesso le difficoltà maggiori stanno nel restare a galla, sopravvivere alle innumerevoli spese e incombenze di una Partita Iva che non ammette leggerezze o distrazioni. Se vuoi sopravvivere devi correre e marciare senza poterti concedere il lusso di rallentare, come nel caso della maternità, per citare un esempio che mi ha riguardata da vicino. Per fortuna ho avuto chi ha creduto da subito in me e nelle mie idee: la mia famiglia. Mi sono resa conto delle mille e più criticità e difficoltà che i giovani incontrano nel costruirsi un futuro, nell’accedere al credito e nel portare a compimento i propri progetti. L’ho imparato a mie spese, giorno dopo giorno: bisogna scontrarsi con normative ormai poco adeguate ai nostri tempi, che ostacolano persino la cosa più semplice quale quella di poter assegnare un codice all’impresa, regolamentarne gli spazi interni, inquadrarla e poterle dare vita. La mia famiglia ha creduto in me più di quanto ci credessi io in certe giornate!».
Portare avanti un centro così all’avanguardia nell’offerta alle famiglie, sicuramente ha fatto la differenza. Ma in che modo, in questo spazio, ci si prende cura degli altri? «Le possibilità sono diverse e personalizzabili in base alle età e ai bisogni. Con la prima infanzia è semplice: si parte da zero in un percorso guidato di sperimentazione e indagine. Si fa esperienza dei materiali artistici, naturali e di recupero, per conoscerli e farne uso, come mezzo espressivo del nostro immenso universo interiore. Ma tutte le arti fanno da padrone nelle nostre proposte: l’espressione corporea per esempio, dove si entra in contatto con le parti del nostro corpo, ampliandone la percezione e il potenziale; la musica e gli strumenti, che ci guidano nei lavori di gruppo e ci permettono di entrare in contatto col suono e col ritmo; e poi ovviamente la stimolazione sensoriale controllata e modulabile come ci insegna lo Snoezelen. Con gli adulti, o con chiunque scelga di avvicinarsi a noi, vale lo stesso principio, ma cambiano gli obiettivi e anche le modalità vengono adattate in base ai bisogni».
Abbiamo chiesto a Laura Melis se oggi si sentisse al posto giusto e nel momento giusto, col lavoro giusto e i sogni professionali realizzati: «Non sono certa di essere nel posto giusto al momento giusto – risponde –, di strada per raggiungere quelli che sono i miei obiettivi ce n’è ancora tantissima da fare. L’unica certezza è che, indipendentemente da come andranno le cose, questo progetto mi sta arricchendo moltissimo, sia dal punto di vista umano che professionale e so per certo che questa esperienza maturata mi sarà utile nella vita perché mi sta permettendo di acquisire consapevolezza dei miei punti di forza e di debolezza, spingendomi a fare meglio, a dare il massimo, a conoscermi profondamente, imparando dagli errori».
A tu per tu con Maria Agostina Cabiddu. I diritti vanno conquistati e difesi
di Rosanna Agnese Mesina.
Dottoressa Cabiddu potrebbe spiegarci cosa significa essere costituzionalista e qual è stato il suo percorso per diventarlo?
Ho iniziato a occuparmi di diritto costituzionale dopo la laurea. Inizialmente volevo fare il magistrato, poi ho accantonato l’idea, anche perché l’ho visto come un lavoro ripetitivo, di tipo impiegatizio e quindi ho iniziato a scrivere e a studiare. Ho fatto il dottorato di ricerca, il presidente di commissione era Gustavo Zagrebelsky, che poi sarebbe diventato giudice della Corte Costituzionale.
Diritto costituzionale è stato un amore successivo. Dopo tutto il cursus honorum, non risparmiandomi in niente, sono diventata idonea per l’associazione dei costituzionalisti e in seguito ordinario al Politecnico di Milano dove sono riuscita a far inserire nel programma di studi un esame di Istituzioni di Diritto pubblico che comprende anche Diritto costituzionale, perché ritengo che senza la sua conoscenza sia difficile lo studio del Diritto amministrativo.
Insomma, un percorso casuale, volendo, ma evidentemente toccava le mie corde.
Nel suo percorso formativo e lavorativo il fatto di essere una donna o di provenire dalla Sardegna le ha procurato difficoltà o qualche discriminazione?
Nessuna difficoltà, anzi, devo dire che il mio professore è stato una persona che non mi ha mai posto dei limiti, non ha mai domandato cosa facesse mio padre o da dove venissero i miei genitori, né si è fatto condizionare da altri vincoli. Come donna non ho mai percepito un disvalore, forse dovuto anche al fatto che non ho avuto figli, perché il dovermi dedicare alla famiglia avrebbe forse comportato una minore attenzione verso la professione.
Forse non ho mai percepito nulla anche per via del mio carattere: sono infatti refrattaria a qualunque condizionamento, e quando qualcuno ci prova faccio finta di non capire, o smorzo con una battuta. Una volta, ad esempio, mi hanno detto: «Ma tu sei una del sud?». «No – ho risposto –, sono occidentale e vengo dalla Sardegna». Oppure: «Ma tu sei una donna». «E allora? Vuol dire che sono meglio di te!». Rispondere a tono al momento giusto e difendersi in maniera adeguata è importante. Le donne spesso rispondono con eccesso di legittima difesa; occorre difendersi a livello giusto, non bisogna replicare con una cannonata a chi ti dà uno schiaffo. Questa cosa l’ho appresa da mia madre che diceva “tene e iscappa”, ossia trattieni il buono e lascia correre quello che non vale la pena di trattenere.
Bellezza. Per un sistema nazionale. Conosciamo meglio il suo libro.
È un libro che parla del rapporto tra patrimonio culturale immateriale, come ad esempio il nostro canto a tenore, e la qualità della vita delle persone. Nasce da un’idea che mi è venuta al tempo del Covid, quando un medico responsabile della terapia intensiva aveva preso numerose opere dall’Accademia Carrara, il museo di Bergamo, e le aveva esposte in ospedale dicendo che anche quella era una terapia, perché i malati avevano bisogno di trovare sollievo alzando lo sguardo verso quelle opere. Così ho pensato a un collegamento tra qualità della vita e patrimonio culturale, cercando di trovare se nella nostra Costituzione ci fosse un fondamento per un diritto alla bellezza, diritto universale per tutti, anche là dove regna il degrado.
Bellezza non vuol dire avere un Caravaggio in casa, magari nascosto. L’arte e la bellezza sono legati allo sviluppo della persona, non a un qualcosa per fare business. A me interessa l’aspetto della qualità della vita, per questo ritengo che la prima cosa da fare per educare i ragazzi alla bellezza sia far capire la differenza tra il “mi piace” e il dire “è bello”. Per arrivare a dire “è bello” è necessario conoscere il percorso che c’è, ad esempio, dietro un’opera d’arte. Solo se conosci come l’artista ci è arrivato puoi apprezzarlo e dire che è bello. Quando le opere scandalizzano vuol dire che non se ne è capito il valore. Anche ne I cento passi si legge che Peppino Impastato, guardando con un amico verso la Conca d’oro, verso lo sviluppo edilizio incontrollato, afferma che quelle costruzioni fanno schifo, che hanno degli infissi orrendi in allumino, poi però le persone ci vanno a vivere, ci mettono i fiori, le tendine e lentamente ci si abitua al brutto. Ci si abitua al brutto però bisogna educarsi e abituarsi al bello.
Nell’idea di bene culturale non c’è quindi l’idea di appropriazione quanto di fruizione, cioè di un godimento che ti aiuta a vivere meglio. Se tu hai un bene materiale da consumare e lo consumi tu, non ce n’è per gli altri. La cultura, invece, non è un bene consumabile, anzi, più è diffusa meglio è. Purtroppo per la mancata fruizione sono andate perdute molte tradizioni.
Un suo scritto è stato scelto come traccia d’esame per la maturità: che effetto le ha fatto e cosa avrebbero dovuto esprimere i candidati che l’hanno scelta?
La traccia d’esame è stata presa da un articolo che ho scritto per la rivista dell’associazione dei costituzionalisti, e che mi era stato richiesto dal presidente Gustavo Zagrebelsky.
È stata una soddisfazione ovviamente inaspettata. Ritengo non sia stata una traccia facile, anche perché non so come nelle scuole si insegni l’educazione civica.
Penso che oggi ai giovani manchi la cultura dei diritti: non hanno la percezione che questi sono un qualcosa che esiste in natura e nessuno li può togliere. Ma i diritti vanno conquistati e difesi. Oggi non ci sono più manifestazioni di ragazzi che protestano insieme per i loro diritti; al contrario, ne conosco diversi che accettano di fare stage non pagati non una, ma tantissime volte. Forse lo fanno perché dietro ci sono le famiglie che provvedono a tutto, invece dovrebbero insegnare loro a curare i loro diritti e a difenderli. Quando, poi, questi giovani vanno all’estero perché qui non sono ben retribuiti, sbagliano perché stanno tradendo chi li ha formati. Invece si dovrebbero unire per far valere i loro diritti qui, ma loro agiscono come individui singoli, dimenticando che le persone sono fatte di socialità. Se si combatte insieme, forse le cose possono cambiare! Ai giovani manca la consapevolezza dei loro diritti e spesso non parlano di problemi seri. È vero che oggi non ci sono più tante associazioni come c’erano prima e mancano anche molti punti di riferimento: oggi gli esempi sono improvvise fortune come il calciatore o la velina. Non esiste più l’ascensore sociale che prima garantiva la scuola. Le famiglie in questo hanno grandi responsabilità.
Un consiglio alle nuove generazioni?
Ciascuno dovrebbe piano piano capire qual è il proprio percorso, coltivare il proprio sogno, anche se poi la vita ti porta altrove. Però se ti impegni, se fai dei sacrifici, raggiungi il traguardo.
Filigrana d’autore. Lisa Moi
di Gian Luisa Carracoi.
La sua bottega è luogo narrante dove abili mani disegnano singolari connubi di filigrana; dove la sapienza dell’artigiano e dell’artista si coniugano in una maestria che sa di tradizione e di estro creativo
Lisa Moi, classe 1980, padre ogliastrino e madre veneta. Oggi, moglie e mamma. Dopo la maturità in ragioneria, ha frequentato per due anni la scuola d’arte orafa a Vicenza, luogo natio, e sempre nella stessa città ha lavorato per circa un anno e mezzo. Successivamente ha proseguito il suo percorso nel laboratorio avviato dai suoi genitori nel 1984 a Bari Sardo, dopo tre anni dal loro rientro in Ogliastra a seguito di una lunga esperienza formativa e lavorativa. Suo padre era emigrato da ragazzino nella città palladiana, luogo in cui l’arte orafa affonda le radici nel lontano Medioevo, e lì ha studiato acquisendo il titolo di “maestro d’arte orafa”.
Lisa è figlia d’arte. Ha lavorato per vent’anni fianco a fianco con papà Giancarlo e mamma Carla, modellista, approfondendo la conoscenza della filigrana. «Inizialmente essa mi sembrava una cosa relegata al passato remoto – racconta –, fuori moda. Con il passare del tempo, vivendo in Sardegna, ho potuto capire che la filigrana non era solamente sinonimo di tradizione, ma poteva essere rivisitata in chiave moderna attraverso l’applicazione della tecnologia e del design. L’amore per l’arte orafa era dentro di me fin da bambina. All’età di cinque anni aiutavo già i miei genitori nel montaggio delle perline, poi pian piano negli anni delle elementari e medie si è un po’ placato, anche se le mie amiche ancora oggi ricordano le ricerche scolastiche che io facevo sugli oggetti della tradizione sarda».
All’interno dell’azienda Lisa ha potuto partecipare attivamente al progetto guidato dal Polaris di Cagliari per il quale sono stati selezionati solamente cinque orafi – fra questi uno è suo padre – i quali attraverso la collaborazione con un architetto di Milano sono riusciti a inventare una nuova tecnica. «La filigrana non viene più saldata – spiega Lisa – oppure ingabbiata all’interno di strutture particolari, ma è libera e si sostiene grazie all’ausilio della saldatura laser che non va a modificare la struttura molecolare del metallo perché lavora a crudo, ossia salda dove deve saldare, senza riscaldare tutto l’oggetto».
Da qui la conferma per Lisa che la filigrana non era solo relegata alla tradizione del passato, ma poteva ambire a molto di più. Ha continuato così a seguire i gioielli sardi, relativi all’abito tradizionale e alla tradizione in genere, di richiamo misto tra sacro e profano, utilizzati ancora oggi in particolari momenti della vita, come su coccu per il battesimo e lo spuligadentes per il matrimonio.
Dal 2020 però, con l’arrivo del Covid, la crisi economica ha messo in ginocchio tante attività artigiane e commerciali. «É stato un momento – ricorda – in cui anche la nostra produzione ha subito un arresto e non si capiva bene quale sarebbe stato il nostro futuro».
Ma lei non si è fatta abbattere. In quel momento di riflessione, ha maturato un’idea forte e ha capito ciò che voleva. Da qui la decisione di aprire al pubblico un’attività tutta sua. E così è stato. Il suo laboratorio, Filigrana d’autore dal marzo 2024 è presente in Corso Vittorio Emanuele, a Bari Sardo. Nell’arredamento della bottega ha messo tutta l’anima: dai ricami dipinti sui muri, che richiamano i pizzi della camicia tradizionale sarda, alla tavola realizzata a mano con il rame per riprendere parte del discorso che la più grande artigiana della parola in Sardegna, Grazia Deledda, pronunciò nel momento in cui, il 10 dicembre 1927, ritirò a Stoccolma il Nobel per la Letteratura. L’obbiettivo principale di ogni realizzazione di Lisa è la creazione di oggetti fatti a mano, inimitabili, marchiati e punzonati che fanno sì che il prodotto finale sia realmente un’opera d’arte unica. Tra i suoi lavori anche il restauro e la trasformazione dell’oro vecchio.
«Negli anni mi sono resa conto che la filigrana ha subito un maltrattamento da parte dei consumatori e anche dei commercianti – fa notare l’orafa ogliastrina –. Oggetti come la fede sarda, che dovrebbe rappresentare un gioiello dal forte valore simbolico e identitario, è stato invece declassato a causa di una indiscriminata produzione di massa. Ciò che invece dirige il mio lavoro è il desiderio di coniugare le richieste del cliente, che possono essere le più disparate, con quella che è la tradizione della nostra terra. Nel caso dell’anello di fidanzamento che ho realizzato quest’estate per un giovane bariese come dono per la sua ragazza di madre lingua inglese, ho creato un connubio tra Inghilterra e Sardegna, perché questo era il suo desiderio. Siamo partiti dall’anello iconico di fidanzamento inglese, quello alla Kate, e ho riprodotto lo stesso tipo di design, però al posto dei diamanti abbiamo scelto di inserire intorno allo zaffiro una corona di grani che richiamasse la fede sarda, simbolo di abbondanza e prosperità».
Per stimolare la curiosità dei clienti, Lisa ha inoltre avuto la brillante idea di creare un laboratorio senza muri, proprio come nelle antiche botteghe, per mostrare apertamente i suoi strumenti di lavoro e invitare i clienti a osservarla durante la realizzazione dei gioielli. Il lavoro è partito bene e nei prossimi anni le piacerebbe aprirsi a nuove esperienze per raccontare la filigrana a una clientela sempre più vasta.