Spiritualità
“Lo Spirito intercede con insistenza per noi …”
di Maurizio Picchedda
“Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio”. (Rom. 8, 26-27)
Siamo a Pentecoste. Tempo dello Spirito Santo. Alcuni cristiani si ricordano dello Spirito Santo solo in questo tempo. Un vero peccato. Qualcuno ha detto che lo Spirito Santo è il grande sconosciuto. È vero che delle tre persone della Santissima Trinità lo Spirito Santo è il più enigmatico e difficile da capire. Quando parliamo di Dio Padre ci è facile capire cosa vuol dire, tutti capiamo la figura del padre, ancora di più quando diciamo Dio Figlio, ci immaginiamo Gesù, il Figlio unigenito. Ma quando parliamo di Dio Spirito Santo non sappiamo bene a cosa associarlo. A volte si pensa allo Spirito Santo come ad una forza generica. Nel Credo diciamo di lui che “è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti”.
A me piace ciò che dice sant’Agostino: Il Padre è l’amante, il Figlio è l’amato e lo Spirito Santo è l’amore. Gesù ci parla dello Spirito Santo dicendo che è il Paraclito, cioè l’avvocato, il consolatore. Possiamo dire che lo Spirito Santo è la persona della Trinità che è protagonista in questo tempo, che è il tempo della Chiesa. È l’anima della Chiesa: ci guida, come ha detto Gesù, verso la verità intera. Tra i libri del Nuovo Testamento che parlano dello Spirito Santo non possiamo non ricordare gli Atti degli Apostoli definito a buon ragione come il vangelo dello Spirito Santo. Ma anche san Paolo ci parla spesso dello Spirito Santo nelle sue lettere. In questo brano egli ci parla di ciò che lo Spirito fa nella nostra vita. Prima di tutto viene in aiuto alla nostra debolezza. Lo Spirito agisce dal di dentro. Nel nostro cuore. Al centro della nostra coscienza. Ci abita dentro. Noi siamo nella completa incapacità persino a domandare. Non sappiamo cosa domandare. Lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili.
Non è facile capire cosa volesse dire san Paolo con queste espressioni, ma certamente il fatto che lo Spirito abitando dentro di noi ci guida in maniera misteriosa con gemiti e aneliti del cuore. Ci muove interiormente. Ci suggerisce in maniera silenziosa. Questi gemiti inesprimibili che noi in fondo non capiamo, il Padre li capisce e viene in nostro aiuto. Queste espressioni di san Paolo ci sono di grande consolazione. Dio non è lontano da noi. Non si disinteressa della nostra vita. Non siamo soli. Dobbiamo allora essere coscienti di questa presenza dello Spirito in noi e affinare le orecchie del nostro cuore per percepirne la presenza e assecondare le sue mozioni interiori. Lasciamoci dunque guidare.
La Pentecoste conclude il tempo di Pasqua ma non vuol dire che è l’appendice della Pasqua, anzi vuole dire che la porta a compimento. Lo Spirito ci guidi nei sentieri della fede. Ripetiamo ogni giorno: Vieni Spirito Creatore, visita le nostre menti, illumina con la tua grazia i cuori che hai creato …
“Lascia la tua terra e va’ …”
di Pietro Sabatini
“Il Signore disse ad Abram: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran”. (Gen 12, 1-2.4)
Nella Genesi, dopo le storie epiche dei primi undici capitoli, lettura sapienziale del mistero della vita, dal capitolo dodicesimo inizia la storia dell’incontro tra Dio e gli uomini, tra l’eterno e il temporale, tra l’infinito e il finito. Strumento di questo incontro è Abramo, che decide di intraprendere un viaggio, secondo l’invito di Dio. Dietro la decisione di Abramo, è possibile percepire il suo dramma, la sterilità del suo matrimonio, la paura di scoprire che la sua vita sia inutile, come inutili sono le sue ricchezze, senza un erede che possa garantirle nel tempo. Quel figlio, che Dio gli promette è bene primario per la sua vita, ma il suo ottenimento è subordinato all’abbandono della sua terra e delle sue sicurezze, richiede la capacità di mettersi in viaggio verso una meta del tutto incerta, fidandosi di Dio. Abramo accetta la sfida e parte, così diviene il padre della fede, e il padre del Popolo che Dio si è scelto.
Oltre a segnare la storia di Israele, la scelta di Abramo, ci insegna che l’atto di fede si lega sempre alla scelta di partire: il viaggio è la condizione dell’uomo che crede. Infatti, una delle prime professioni di fede, utilizzata nel rituale dell’offerta delle primizie, inizia con le parole: “Mio Padre era un Arameo errante” (Dt 26,5). Di Abramo non si dice il nome ma la sua condizione. In questo modo la fede di Abramo diventa emblema della fede di tutti i credenti. Credere è sempre lasciare le certezze conquistate, le nostre proprietà, tutto ciò che ci è d’impedimento nel viaggio, a cui Dio ci invita. Anche gli apostoli di Gesù, “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,11). Così in questi duemila anni di cristianesimo tanti uomini hanno intrapreso la condizione di “erranti”: Antonio abate, Francesco d’Assisi, Charles de Foucauld e tanti altri chiamati da Dio, hanno trovato in Dio la forza per decidere di “fare il santo viaggio”(Sal 84).
Una decisione di partire, che potrebbe apparire stolta e per questo produce derisione e incomprensione e chiede una grande libertà rispetto alle cose del mondo e alla mentalità di peccato che lo abita, perché dal condizionamento del male, nessuno può dirsi esente. Per vincere le difficoltà bisogna avere un motivo molto forte e mantenerlo chiaro nella propria mente. Questo motivo, che si esprime con formulazioni e aspirazioni diverse, si può riassumere proprio con la parola “vita”. La vita ci chiede continuamente di lasciare qualcosa per ritrovare il valore del proprio essere. Chi non accetta di lasciare e di partire vive nel corpo ma è morto alla sua anima. La ricerca esasperata di sicurezza finisce per impedire di vivere la propria umanità. Anche l’attualità, spettatrice di un grande fenomeno migratorio, si può leggere a partire dall’esperienza di Abramo e le migliaia di persone, che ogni giorno mettono a rischio la propria vita, sono la versione più moderna della scelta di Abramo, della ricerca di verità e di libertà per la loro vita.
Qualsiasi cosa vi dica, fatela»
di don Virgilio Mura
Ufficio della Pastorale della Salute
“Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare» e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono”. (Gv. 2,1-8)
Nel brano evangelico delle nozze di Cana, la Madre di Gesù dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Le parole pronunciate da Maria ci ricordano l’essenziale: ascoltare Gesù, affidarsi a Lui via, verità e vita. I Vangeli narrano sovente l’attenzione di Gesù per i malati verso i quali provava autentica compassione. Culmine della sua vicinanza all’umanità sofferente è stata la sua morte in croce, mediante la quale ha guarito definitivamente la nostra morte e ogni nostra malattia. Lui, che è Dio, non poteva dimostrare in un modo più grande il suo Amore misericordioso per noi.
«In questa Giornata Mondiale del Malato – scrive Papa Francesco – possiamo chiedere a Gesù misericordioso, attraverso l’intercessione di Maria, Madre sua e nostra, che conceda a tutti noi questa disposizione al servizio dei bisognosi, e concretamente dei nostri fratelli e delle nostre sorelle malati. Talvolta questo servizio può risultare faticoso, pesante, ma siamo certi che il Signore non mancherà di trasformare il nostro sforzo umano in qualcosa di divino. Anche noi possiamo essere mani, braccia, cuori che aiutano Dio a compiere i suoi prodigi, spesso nascosti. Anche noi, sani o malati, possiamo offrire le nostre fatiche e sofferenze come quell’acqua che riempì le anfore alle nozze di Cana e fu trasformata nel vino più buono. Con l’aiuto discreto a chi soffre, così come nella malattia, si prende sulle proprie spalle la croce di ogni giorno e si segue il Maestro; e anche se l’incontro con la sofferenza sarà sempre un mistero, Gesù ci aiuta a svelarne il senso».
La misericordia non è solo sentimento interiore, ma si traduce in fatti, in gesti concreti di compassione. Per questo Gesù invita il dottore della legge a cui ha narrato la parabola del buon samaritano: «Va e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10 ,37).
La misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono dal profondo delle viscere per il proprio figlio. Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio. Egli l’ha narrata vivendola nel suo corpo, facendola nelle sue azioni, piegandosi amorevolmente su ogni forma di miseria umana, verso tutti coloro che fisicamente o moralmente avevano bisogno di pietà, di compassione, di presenza, di aiuto, di sostegno, di comprensione, di perdono.
“Troverete un bimbo avvolto in fasce…”
di Maurizio Picchedda
“C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. (Lc. 2,8-12)
La notte di Natale è una notte particolare. Per noi cristiani è una delle notti più belle di tutto l’anno liturgico insieme alla notte della veglia di Pasqua. Per la maggior parte dei cristiani il Natale è la festa cristiana per eccellenza, ma in realtà è la Pasqua il centro dell’anno liturgico. Per qualcuno sembrerà strano ma è la Pasqua che illumina la notte di Natale. Si, perché se Cristo non fosse risorto nessuno avrebbe mai ricordato la sua nascita. In fondo, Gesù bambino adagiato nella mangiatoia ci ricorda Gesù adagiato sulla croce. Nella mangiatoia e sulla croce c’è lo stesso mistero: la Kenosis del Figlio di Dio, il suo abbassarsi, il suo svuotamento, la sua umiltà. L’evangelista Luca non intende presentarci un resoconto fiabesco della nascita di Gesù, c’è infatti qualcosa di drammatico nel suo racconto.
Luca è uno degli evangelisti più informati dei fatti, certamente deve aver avuto notizie dalla viva voce di Maria. Prima di tutto ci fa sapere le coordinante storiche e geografiche della nascita di Gesù: non vuole fare storia in senso stretto, ma ci vuole avvisare che la vita di Gesù non è bel racconto edificante, non è per l’appunto una bella fiaba, non è neanche un mito. E’ una storia vera! La sua nascita avviene nella storia: al tempo dell’Imperatore Romano Cesare Augusto, del governatore della Siria Quirino, in una villaggio della Giudea chiamato Betlemme. Non si tratta di un invenzione di qualcuno per manipolare la gente. Gesù è meravigliosamente reale.
Nel racconto entrano in scena Maria e Giuseppe. E’ una famiglia povera, semplice, in loro non c’è nulla di altisonante, eppure sono i custodi della salvezza del mondo. Niente di regale eppure sono la famiglia del Re dei Re. Anzi Luca ce li descrive come gli esponenti di quella povera gente umiliata dai capricci dei potenti. Devono infatti sottostare ad un viaggio lungo e pericoloso per obbedire al censimento voluto dall’Imperatore, forse per fare i conti delle tasse da dover riscuotere. Giuseppe e Maria non protestano, si mettono in viaggio. Proprio a Betlemme, il paese di origine di Giuseppe, nasce Gesù. Dove poteva nascere se non a Betlemme, il Messia? Si adempie così la Scrittura.
Luca è estremamente sintetico, nessuno commento. “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoria”. Nel racconto non c’è niente di miracoloso, di fantasmagorico. Gesù nasce senza clamori, senza squilli di tromba. Nella grotta di Betlemme tutto è semplicità, tutto è povertà. Ma è proprio questa semplicità e povertà che ci rapisce il cuore e ci fa intuire che li, in quella grotta, c’è Dio. Luca non si dimentica di un particolare, che in questa notte, riecheggia nelle nostre chiese: non c’era posto per loro nell’alloggio. Questo particolare è solo cronaca? O è pura attualità nei nostri giorni? Gesù, forse, non trova ancora posto nei cuori di tanta gente.
“Pregate perché la parola del Signore si diffonda …”
“Pregate
perché la parola del Signore si diffonda …”
di Roberto Corongiu
“Fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati dagli uomini perversi e malvagi. Non di tutti infatti è la fede. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno” (2Tess 3,1-3).
‹‹Pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi›› 2Ts 3, 1. Con queste parole san Paolo, apostolo delle genti, inizia a concludere la sua seconda lettera ai fratelli di Tessalonica, invitandoli ad unirsi a lui quali strumenti della diffusione del Verbo. Un invito che vogliamo vedere rivolto a noi oggi, specialmente in questo mese di ottobre, tradizionalmente tempo di preghiera per le missioni. Missioni che spesso vediamo lontane, disperse in chissà quale paese straniero. Per esse magari preghiamo, raccogliamo contributi: ma restano comunque realtà lontane, e l’idea di missione stessa si riduce in quell’accezione di “lavoro di frontiera”. La missione invece, ed è proprio di questo che ci parla l’apostolo Paolo, è una dimensione fondamentale dell’essere Chiesa da vivere anzitutto qui ed ora. Perché essa non è appannaggio dei missionari o di coloro che operano in luoghi di non lunga tradizione cristiana: è invece compito primario di ogni cristiano, ovunque si viva ed operi. Nel tentativo di comprendere il come vivere tale dimensione nella nostra realtà, non è difficile, dandole anche solo un rapido sguardo, comprendere quanto l’annuncio oggi sia un’esigenza sempre più pressante. Le nostre realtà, antiche chiese, tra le prime a ricevere l’annuncio del Vangelo, sono spesso sopite, tiepide, e la forza vivificante della Buona Novella sopravvive a malapena, anziché vivere e illuminare. Lo comprese bene Benedetto XVI, che appena cinque anni fa volle erigere il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, proprio per ‹‹promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo››. In tale realtà secolarizzata, intaccata dall’indifferenza, riscoprire l’esperienza di fede per poi testimoniarla diventa via attraverso la quale dare risposta all’invito di san Paolo: una riscoperta che vorremmo caratterizzata dal suo stesso ardore, dalla sua stessa sete di Dio. Nell’annuncio della Parola del Signore infatti, la testimonianza dell’apostolo ci è fondamentale, perché quando si sperimenta qualcosa di bello e vero, e l’incontro con Cristo lo è ogni oltre misura, lo si vuole gridare al mondo: allora, come lui, potremmo sentire la testimonianza della fede, l’annuncio della Parola, “la missione”, come un qualcosa che ci appartiene, come desiderio di condivisione. Desiderio di sperimentare in prima persona l’amore di Dio e la pazienza di Cristo (prosegue poi san Paolo), volendo poi che ogni uomo Lo possa incontrare, sperimentandone la vicinanza, la compassione, la misericordia. In questo modo il carattere missionario della vocazione di ciascuno traspare, irrompendo e facendosi testimonianza nella vita quotidiana.
E’ bello stare qui …
di Celeste Damien Randrianandrianina
“Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!». Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!». E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” (Mc 9,2-9)