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Arzana e la festa di San Vincenzo Ferrer
Arzana nella sua storia ha conosciuto il culto di diversi Santi, molti dei quali oramai probabilmente dimenticati dalla maggior parte dei suoi abitanti: Sant’Antonio da Padova, Santa Lucia, San Sebastiano, San Cristoforo, San Pietro da Uèli, san Giovanni di Uèli, la Madonna del Carmine, la Madonna della Neve, la Vergine del Rosario, San Michele Arcangelo, San Martino, San Giovanni Battista e San Vincenzo Ferrer.
Nonostante quest’ultimo non sia il patrono del paese è a San Vincenzo che Arzana sembra particolarmente devota da un tempo immemorabile. I documenti storici danno testimonianza dei festeggiamenti in suo onore già nel 1601, anche se non sappiamo se allora avesse la stessa priorità che gli viene data attualmente. Tra i compaesani, anche più anziani – nonostante ci sia chi parli di miracoli avvenuti tramite l’invocazione di San Vincenzo, o dell’allestimento di una fiera in quel periodo –, è idea più comune che i suoi festeggiamenti vengano sentiti maggiormente perché organizzati tradizionalmente nell’ultima settimana del mese di agosto, quando vi sarebbe maggiore partecipazione da parte dei residenti o di coloro che ad Arzana sono nati e hanno passato parte delle loro vite, quindi gli immigrati, i lavoratori in ferie, e oggi anche gli studenti universitari che tornano ad Arzana per la pausa estiva.
I festeggiamenti in suo onore prevedono un triduo di preghiera a partire dal sabato con la Messa che viene celebrata nella chiesa di San Giovanni Battista con, a seguire, la processione durante la quale viene condotto il simulacro del Santo per le vie del paese fino alla chiesa a lui dedicata, una chiesa campestre con una sola navata circondata dal verde.
Il Santo viene trasportato da un carro trainato dai buoi allestito con tappeti, fiocchi e fiori. Il percorso, che richiede circa un’ora di camminata, ha come partecipanti non solo i fedeli, ma, come da tradizione, i cavalieri, i suonatori di launeddas, i gruppi folk di Arzana e di altri paesi che il comitato in questione è solito invitare, infine i fucilieri, questi ultimi assenti per tanto tempo in questa circostanza. Il lunedì successivo la statua del Santo viene riportata, sempre in processione e con i medesimi partecipanti, alla chiesa patronale di San Giovanni Battista dove è custodita per tutto l’anno.
Per ciò che riguarda invece l’aspetto laico dei festeggiamenti, è previsto da anni ormai che se ne occupi la leva dei trentenni. L’inizio della festa è segnalato dal suono dei petardi, is coetus, una sorta di segnale di avviso per richiamare tutta la comunità alla partecipazione.
Sono previsti solitamente tre, quattro giorni di festa concentrati al fine settimana in cui non mancano i poetas e cantadores della nostra cultura, ma anche interpreti del panorama musicale odierno, comici nostrani e i balli sardi con cui si conclude ogni serata di festa, ma che probabilmente è la parte più coinvolgente per gli arzanesi vista la partecipazione numerosa di grandi e piccoli.
In tempi non troppo remoti venivano organizzati, dopo pranzo, dei giochi per ragazzi, come il tiro alla fune, la corsa con i sacchi, la corsa degli asini e persino la gara a chi mangiava più pastasciutta! Nell’ultimo giorno di festa, esattamente la mattina all’alba, inizia quello che viene chiamato “su giru de sa Corona”, dove il comitato passerà di porta in porta per chiedere un’ultima offerta ai paesani, ma solo dove troveranno la porta già aperta si potrà richiedere un contributo, altrimenti si passa oltre.
Nonostante la storia secolare e l’affetto che ha sempre legato Arzana alla venerazione di San Vincenzo, con l’andare dei tempi tale devozione pare stia venendo meno. Le nuove generazioni si stanno adattando a interessi diversi da quelli che riguardano le feste di culto dei propri paesi. E se fino a pochi anni fa almeno la parte laica dei festeggiamenti suscitava l’interesse della maggior parte dei compaesani, oggi anche questo aspetto sta venendo a mancare. La priorità religiosa dei festeggiamenti è ormai messa in discussione da molti, fatta eccezione per coloro che partecipano conoscendo e capendo il senso profondo di tale occasione. (FOTO MIRCO PUSCEDDU)
Tra storia e tradizione
Le poche notizie scritte del suo culto di San Vincenzo risalgono al 1601, ma possiamo desumere molte informazioni da testimonianze orali tramandate di padre in figlio.
Sappiamo che da sempre l’aspetto religioso si univa a quello civile con l’allestimento di un mercato che permetteva di acquistare o scambiare oggetti di uso comune. Pare che l’obriere, ossia colui che organizzava i festeggiamenti, venisse sempre scelto dalla Chiesa, e, nei casi di feste importanti, se ne nominavano due, spesso fratelli. Sembrerebbe inoltre che dal 1860 la Chiesa autorizzasse i comuni a effettuare la scelta che finiva per ricadere sempre su persone di spicco del paese, probabilmente per la responsabilità nel gestire le offerte donate in onore del Santo.
Era tradizione da tempo immemore offrire il pranzo, a base di culurgiones e carne, a coloro che venivano da altri paesi in visita per la circostanza, o perché parenti o perché offrivano il proprio contributo durante la processione o la festa civile.
Alcune curiosità
Era usanza, non in tempi recenti, partecipare alla processione con l’abito del proprio matrimonio, un modo di approcciarsi al culto del Santo come a volersi mostrare con rispetto e serietà.
L’ultimo giorno di festa, in cui alla mattina si svolge il giro della corona, l’accesso alle case degli abitanti per richiedere l’offerta da parte degli obreri è vincolato dal ripetere la frase “Deus in c’intrit Santi Fisente” ossia “che in questa casa possa entrare San Vincenzo”, come augurio di buon auspicio.
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Classico e Linguistico di Lanusei a S’Aspru
di Denise Carta.
Lo scorso 11 gennaio, 32 ragazzi del Liceo “Leonardo da Vinci” di Lanusei visitano la Comunità di S’Aspru, di Padre Salvatore Morittu
È un luogo in cui, da circa quarant’anni, il dolore incontra l’accoglienza e la condivisione degli operatori che accompagnano in un percorso di rinascita tanti ragazzi, giovani e meno giovani, che nel corso della loro esistenza sono stati tremendamente provati a causa di dipendenze di ogni genere, dalla droga all’alcol, al gioco. Un’esperienza forte ed emotivamente non facile, ma certamente formativa nel percorso di crescita di ciascuno.
Non vi racconteremo, però, le tappe di una giornata intensa, in cui ciascuno ha provato emozioni personali diverse e forti; preferiamo fare una sorta di recensione a un libro che testimonia la vicenda del promotore di questa bellissima esperienza di lavoro con i giovani in difficoltà: “Gli ultimi sognano a colori”, di Salvatore Morittu e Giampaolo Cassitta.
Padre Salvatore Morittu, frate francescano di Bonorva, un uomo che sembra avere una storia come tanti, nasce in una società rurale, dove, lo dice lui stesso, «O fai il pastore o diventi un uomo di Chiesa». Il suo è un destino quasi segnato e quando decide di entrare in seminario ha la consapevolezza di voler aiutare gli altri. Ma sarebbe un errore pensare a lui come un uomo risoluto, che non è mai stato assalito dai dubbi. Ha solo undici anni quando entra in convento: un bambino, quasi adolescente, che si deve adeguare alle rigide regole di un monastero francescano. Ciò che contraddistingue il “piccolo” Salvatore è la sua grande curiosità, la sua voglia di imparare e studiare, la sua attenzione verso il mondo e gli eventi che in esso accadono. Caratteristiche che lo portano non solo a diventare frate francescano, ma anche sacerdote, a laurearsi in Teologia Biblica e poi in Psicologia, con una tesi sugli ospedali psichiatrici e sulle correlazioni tra malattie mentali e famiglie delle persone che ne soffrono.
Padre Morittu studia e vive a Firenze, Pescia, Gerusalemme, Roma, ma nel suo cuore c’è sempre la Sardegna e il desiderio di poter rendere a quella terra, che lo ha visto crescere, parte dell’amore che da essa ha ricevuto e decide di farlo, sulle orme di San Francesco, aiutando gli ultimi.
Tornato a Cagliari si dedica ai tossicodipendenti, gli eroinomani, coloro che si sono persi nelle strade della vita, abbandonando il sentiero di luce alla ricerca di una felicità che la società non ha saputo dare loro e che li ha portati a cercarla nella droga. È il 26 gennaio 1980 quando nasce, nel convento di San Mauro a Cagliari, nel quartiere di Villanova, la prima comunità per tossicodipendenti in Sardegna. Inizialmente nessuno bussa alla porta: scegliere di entrare in comunità, toccare il fondo, trovare la forza e la volontà di risalire non è facile e Padre Morittu lo sa, sa che ammettere le proprie fragilità è doloroso e lo è ancor di più affrontarle. Ma lui, con proverbiale pazienza francescana aspetta, pronto ad accogliere, e piano piano la sua comunità – basata sullo stare insieme, sul lavoro nei campi e l’amore per il creato e le sue meraviglie – inizia a funzionare. San Mauro è la prima luce di speranza per gli eroinomani e presto si aggiungeranno S’Aspru (Siligo) e Campu’eLuas (Uta).
Alcuni ospiti non ce la fanno, ma altri sì, combattono e alla fine vincono la loro battaglia tornando alla pienezza della vita. Padre Morittu è felice, si prodiga per aiutare sempre più persone, ma un nuovo spettro si presenta ai suoi ragazzi, così come a moltissimi altri tossicodipendenti ed ex tossicodipendenti, qualcosa di terribile, un mostro sconosciuto che nessuno sa come affrontare, l’AIDS o HIV per cui non esiste una cura. Vedere l’angoscia, il terrore, il dolore di chi si trova costretto a dover affrontare questa malattia, e inesorabilmente la morte, porta padre Morittu a maturare la convinzione e la volontà di accompagnare queste persone nel loro cammino, trasmettendo, nonostante tutto, la gioia e la bellezza della vita. Viene così creata a Sassari la “Casa Famiglia” per i malati di AIDS: insieme la malattia fa meno paura e la scienza inizia a studiarla, sviluppando farmaci e donando così speranza a coloro che ne sono affetti.
La storia di padre Morittu, uomo speciale, solidale con gli ultimi, permette di riflettere sulla fragilità di ognuno e sulla possibilità di cadere di fronte alle difficoltà della vita, dalle quali non è facile uscire senza l’aiuto di qualcuno. Nella nostra società le debolezze sono viste come qualcosa da nascondere, sono segno di viltà, ma padre Morittu ci insegna che non dobbiamo vergognarcene, esse fanno parte di noi, ci rendono quello che siamo, belli anche nei nostri difetti. Gli ultimi possono essere ognuno di noi quando il dolore, la paura, la disperazione prendono il sopravvento e ci impediscono di vedere la bellezza della vita, malgrado la sofferenza che essa può causare.
La cosa più brutta a cui una persona può andare incontro è la solitudine, il sentirsi solo, impotente, inutile, come un pulcino bagnato terrorizzato da tutto, senza un appiglio, senza una luce che possa indicare la strada o dare la forza di guardare in faccia tutto il buio e il male che si ha davanti. Nessuno, inoltre, dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare la vita degli altri, i loro errori e le loro fragilità, spesso senza sapere nulla della loro storia, come dice un proverbio dei nativi d’America: “Non giudicare il tuo vicino finché non avrai camminato per due lune nelle sue scarpe”.
Padre Morittu ascolta senza pregiudizi, ascolta con le orecchie e soprattutto con il cuore, come ognuno di noi dovrebbe fare, sostiene che, malgrado le debolezze, gli ultimi sognino a colori ed è doveroso e gratificante aiutarli a trasformare questi sogni in una realtà ugualmente variopinta.
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La chiesa di Sant’Andrea in Tortolì nel libro di Gian Michele Ladu
di Marco Ladu.
Lo scorso 25 febbraio, nella parrocchiale di Sant’Andrea a Tortolì, Gian Michele Ladu ha presentato il suo libro: “La Chiesa di S. Andrea Apostolo in Tortolì. La sua storia attraverso i secoli e le opere d’arte”.
Alla presenza del pubblico delle grandi occasioni, in un silenzio proprio del luogo, il parroco Mons. Piero Crobeddu, dopo aver presentato i saluti del vescovo, ha introdotto i lavori, sottolineando con tono paterno i tanti sacrifici dell’autore che, grazie alla sua imponente opera, ha fornito alla nostra comunità, ma anche a tutto il territorio ogliastrino, un testo che ne ripercorre la storia nei secoli. Un Michele visibilmente emozionato, ma sicuro e deciso, ha presentato al pubblico, con tratti amichevoli, il suo lavoro, percorrendo in maniera chiara i vari capitoli.
Dopo l’attenta presentazione dell’opera, mentre l’evento volgeva al termine, due momenti hanno ulteriormente caricato la serata di emozione. Il primo è stato quando l’autore ha ringraziato la sua famiglia, ricordando in seguito Mons. Mario Mereu, compianto parroco della comunità di Sant’Andrea in Tortolì. A lui sono state rivolte parole di filiale riconoscenza, ringraziandolo per aver alimentato e sostenuto la sua passione e dedizione, percependo con commossa gratitudine la presenza e la vicinanza in tutto il suo lavoro.
Altro momento commovente è stato il dono prezioso che Rosina Muggianu di Lotzorai ha lasciato alla comunità di Sant’Andrea. Si tratta di un crocefisso del XIX secolo, appartenuto al Canonico Raimondo Pinna, segretario di Mons. Emanuele Virgilio.
A Gian Michele Ladu va il profondo ringraziamento a nome di tutta la parrocchia di Tortolì, per aver dato dignità e profondità storica alla chiesa della cittadina che forse sarebbe giusto valorizzare maggiormente; per aver fatto conoscere nomi, curiosità, fatti lieti e tristi che fanno parte della sua storia; per aver così svelato ciò non si conosceva, per aver riportato all’attenzione di tutti memoria e identità e per aver suscitato in ciascuno una sana curiosità nello scoprire.
Un’opera magistrale che consta di oltre 400 pagine, arricchita da numerose fotografie e da un Catalogo in cui sono rappresentati i beni artistici di maggior valore della chiesa parrocchiale di Sant’Andrea. Con questo lavoro, Gian Michele ha colmato alcune lacune riguardanti le vicissitudini storiche relative sia alla chiesa che alla stessa città di Tortolì. Ha ridato lustro a un edificio, ricordandoci che la chiesa è fatta sì, di pietre, arredi e statue, ma anche di uomini. Di pietre vive che con la loro esistenza, le loro debolezze e fragilità realizzano quel meraviglioso tessuto che è la nostra identità cristiana. L’invito è quello di leggere con passione quest’opera sicuri che ne troveremo giovamento per il nostro spirito e parimenti per la nostra curiosità.
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Medicina, giurisprudenza, ingegneria ed economia: le facoltà più richieste dai maturandi
Studenti Liceo Classico e Scientifico Tortolì.
Gli studenti delle classi IV e V del Liceo Classico e Scientifico di Tortolì iniziano a fare i conti con la scelta dell’Università fra indecisione, sogni e desiderio di un buon lavoro
La scelta della facoltà universitaria è un momento difficile, in cui, forse per la prima volta, ci sentiamo artefici del nostro destino. Dubbi, ansie, sogni e attese ci accompagnano in questo percorso, lungo il quale a momenti sembriamo procedere spediti, ma per lo più ci arrestiamo, ci guardiamo intorno, sostiamo, incerti se proseguire nella stessa direzione o prendere un’altra strada tra le tante che si offrono dinanzi a noi.
Sentimenti che emergono con chiarezza dal breve sondaggio che ha coinvolto la nostra insieme ad alcune fra le classi quinte del Liceo Classico e Scientifico di Tortolì. Se la metà degli intervistati sembra avere già preso la sua decisione, l’altra si dice ancora indecisa. «Al momento non ho le idee chiare su cosa fare una volta terminato il liceo», è la frase più frequente e che delinea chiaramente la situazione attuale. Le ragioni sono diverse: dai tanti interessi apparentemente inconciliabili, al timore che seguire le proprie passioni precluda sbocchi lavorativi soddisfacenti.
Le facoltà al momento più quotate sono medicina, giurisprudenza, ingegneria ed economia, ma non mancano scelte inusuali come accademia di canto, criminologia e design. E in proposito sembra avere le idee molto chiare Serena: «Dopo il diploma, ciò a cui aspiro è entrare in un’accademia di canto: sono sicura della mia scelta, perché la musica mi motiva a impegnarmi continuamente e le cose belle che mi regala non mi fanno pesare i sacrifici che pure devo fare».
Tra i pochi che hanno fornito indicazioni sulla sede universitaria, spicca la preferenza per le facoltà del Nord Italia, seguite da quelle sarde di Cagliari e Sassari. «Da grande vorrei fare il medico. L’idea è di fare domanda in varie università, dopo il liceo. Le prime scelte saranno Padova (mi è stata molto consigliata), Trieste, Perugia, preferirei studiare fuori dalla Sardegna», afferma Irene.
Anche l’anno sabbatico è un’opzione considerata da chi vorrebbe affrontare l’università con una minima indipendenza economica. Solo qualcuno preferisce non continuare gli studi.
Dal sondaggio emerge che frequentare un liceo di indirizzo classico non limiti nella scelta, garantendo opportunità lavorative varie anche a chi, per cinque anni, si dedica prevalentemente allo studio di materie umanistiche. Infatti, dati alla mano, la maturità classica è spesso seguita dalla frequenza delle facoltà di medicina, ingegneria, chimica ed economia.
In linea con questa tendenza le probabili scelte di Massimiliano: «Sono indeciso tra le facoltà di economia aziendale (Università di Trento) e di ingegneria energetica o robotica (Politecnico di Torino o Università di Pisa e, per il master, Università di Trieste)».
È comunque opinione diffusa e comprovata che le facoltà scientifiche offrano più opportunità lavorative nell’immediato rispetto a quelle umanistiche, per cui l’insegnamento è l’opzione più semplice e probabile. Sempre Massimiliano aggiunge: «Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, sono deciso a lasciare il mio Paese per sfruttare opportunità più vantaggiose all’estero».
Se dunque i ragazzi del Liceo Classico includono tra le proprie scelte anche facoltà che si allontanano dalla formazione umanistica che hanno conseguito, lo stesso non si può dire dei ragazzi dello Scientifico: ingegneria biomedica e meccanica, economia aziendale ed infermieristica sono alcune delle loro scelte, in linea con il panorama italiano. Risulta, infatti, in vetta alle classifiche nazionali per numero di iscritti, la facoltà di economia, seguita da ingegneria e giurisprudenza; al quarto posto la facoltà di Lettere, come a delineare una situazione prevalentemente “scientifica”.
Risulta ricorrente la questione economica: «Dovrei cercare di prendere una borsa di studio – dicono alcuni – per poter accedere al corso che desidero», oppure: «La mia è una scelta che richiede tanti sacrifici da parte della mia famiglia», affermano altri.
Altrettanto frequente è il richiamo ai desideri e ai sogni dell’infanzia: avvocati, poliziotti e medici sono i mestieri più ricorrenti, che tuttavia adesso hanno lasciato spazio a dubbi e indecisioni: «Non ho ancora deciso con certezza che cosa fare dopo il diploma – ammette Sara –. Fin da quando sono bambina però ho sempre voluto fare giurisprudenza per poi intraprendere il percorso in magistratura».
Forse, alla base di questa incertezza diffusa, vi è la crescente paura di deludere i propri cari con scelte sbagliate e poco sicure, oltre al timore di non riuscire a raggiungere obiettivi di vita che si conciliano con una buona situazione economica. Le passioni devono dunque lasciar spazio al lavoro sicuro e immediato, traguardo ambito da tutti gli intervistati.
Si dice spesso che il tempo voli e agli sgoccioli dell’esperienza liceale non possiamo fare altro che confermare. Tuttavia tanti di noi aspettano ancora di trovare le ali giuste per partire al prossimo decollo, magari con qualche indecisione di meno e un pizzico di coraggio in più.
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Un lago di opportunità
di Augusta Cabras.
Gli scheletri di vecchie abitazioni, la vegetazione che si fa strada tra i muri di case a metà, le finestre chiuse, (negli stabili che le possiedono ancora), capre e pecore a sorvegliare lente, luoghi e tempi. Lo scenario pare quello delle città bombardate. Grigiore, abbandono, segni di un tempo passato e di una memoria mal custodita, di un gioiello impolverato, ignorato, quasi dimenticato. E questo nell’insostenibile stridore dello sguardo che incontra una natura lussureggiante fatta d’acqua, di montagne, di vegetazione unica. La vista può perdersi godendo di questa bellezza, ma viene interrotta, come uno schiaffo in piena faccia, dall’incuria, dallo scempio, dalle possibilità inespresse, dalle decisioni non prese, dal tempo che passa inesorabile e lascia un segno nelle cose che raggiungono l’oblio.
Eppure questa porzione del territorio di Villagrande Strisaili, Bau Muggeris, ha in sé qualcosa di straordinario che è difficile non vedere. Bau Muggeris era in origine il nome di una gola, dove, dice la tradizione, le muggeris, le donne del paese di Villagrande Strisaili – nel cui territorio ricade l’invaso – si recavano a lavare i panni. Oggi è il nome della diga costruita, e del bacino artificiale nato in seguito alla sua realizzazione, avvenuta tra il 1928 e il 1949.
“I tre salti”, comunemente chiamati, descrivono il corso serpeggiante del fiume Flumendosa, che dà energia a questa parte dell’Ogliastra. Lungo le sue anse si presentano le tre centrali idroelettriche costruite dall’Enel, insieme ai villaggi, in cui vivevano gli operai e le loro famiglie. Piccoli borghi dotati di negozi, scuola, campi da calcio e cinema. Un micro mondo, con i confort che offriva lo sviluppo del tempo, che in quegli anni era specchio del boom economico, destinato nel corso dei decenni a sgretolarsi, sulla scia della crisi e del cambiamento.
Oggi passando per quelle strade, nel silenzio interrotto solo dal fruscio delle fronde mosse dal vento, sembra di sentire il vociare dei bambini, lo scorrere della vita delle donne, il lavoro e il tempo dello svago degli uomini. Sembrano passati secoli e forse tutta questa desolazione e distruzione si poteva evitare. Ci sono, evidentemente, delle responsabilità precise. Ci sono, evidentemente, passaggi che dovevano essere fatti, delle decisioni che dovevano essere prese, ma che si è preferito rimandare. È sempre e solo una questione economica? Rimane il fatto che, di chiunque siano le responsabilità, serve ora una nuova presa di coscienza che chiama in causa tutti: Enel, amministratori locali, regionali, nazionali e anche la società civile.
Ne abbiamo parlato con Alessio Seoni, sindaco di Villagrande…
[L’intervista integrale è sul numero di Febbraio de L’Ogliastra]
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La Santa Barbara dei villagrandesi
di Federica Cabras.
Profondo e sincero: questo è il sentimento di devozione e amore che lega ogni villagrandese – e non solo visto che molti sono i pellegrini che giungono per l’occasione dai paesi vicini – alla festa in onore di Santa Barbara, che ha luogo nella seconda domenica di luglio.
Nonostante il patrono del borgo ogliastrino ai piedi del Gennargentu, ancorato alle montagne come una pietra preziosa, sia San Gabriele (che si festeggia il primo di agosto), la festa che celebra la Martire è, se vogliamo, più sentita come solenne. Come emozionante. Come viva, densa di sentimento. Momento di unione comunitaria e di ospitalità, certo, ma anche occasione per espiare, per pregare e per riflettere (perlomeno per i più devoti), ma anche – che sia benedetto anche il sano divertimento – per trascorrere delle serate all’insegna della musica, della compagnia e delle risate.
Sì, perché se i quarantacinquenni – i cosiddetti obrieri – si occupano della parte religiosa, i venticinquenni hanno a cuore la buona riuscita di quella legata all’intrattenimento. Un’unione di forze da sempre ben riuscita, che dà origine a eventi a tutto tondo, che lasciano il segno. Toccanti e coinvolgenti. Raro è che non si senta, a evento finito, il sapore agrodolce dell’arrivederci.
Il momento più suggestivo è senza ombra di dubbio “Su Esperu” – dopo la Santa Messa, la prima di tante –, ovvero la processione che, maestosa e sentita, accompagna la Santa dal paese fino alla chiesetta campestre del bosco di Santa Barbara.
Avviene il primo giorno, il sabato. In centinaia affrontano i chilometri che separano Villagrande dalla cappella che si prepara ad accogliere la Martire, adagiata su un carro trainato da buoi e adornato di fiori odorosi. Non solo fedeli villagrandesi, ma anche ogliastrini e sardi d’ogni provincia: la fila infinita di persone per ben due ore cammina, ordinata, pregando e cantando is coccios, i versi in prosa che raccontano la vita della Santa. Davanti a tutti, i cavalieri in abito tradizionale villagrandese e i gruppi folk del paese e ospiti. Durante tutto il tragitto, i cacciatori sparano per annunciare il lieto evento.
All’ingresso del parco di Santa Barbara, si unisce al capannello di fedeli anche chi ha atteso, paziente, l’arrivo, e tutti insieme accompagnano la Santa lungo l’ultimo tratto, quello che porta alla chiesetta campestre, nel cuore di un posto magico e fiabesco. A chiudere il cerchio di questo commovente momento, il tradizionale invito degli obrieri.
Quale modo migliore di dare inizio a quella che sarà una tre giorni di stupore, religione e divertimento se non quello di gustare i dolci tipici della tradizione villagrandese, con un bel bicchiere di vino? L’atmosfera conviviale è resa ancor più fascinosa dallo scenario da cartone animato: le querce, che si stagliano verso il cielo azzurro, sembrano fare da cornice alla brigata e nell’aria la brezza calda che si respira ha il gusto di un pomeriggio di mezza estate.
Anche la domenica sono previste processioni d’andata e rientro da e per Villagrande, con Santa Messa a seguire.
Altro momento particolare è il cosiddetto giro della corona. La mattina della domenica e del lunedì, i figli degli obrieri – divisi in più gruppi –, accompagnati dal suono delle launeddas e dell’armonica, portano per le vie del paese e al parco di Santa Barbara la corona della Santa, lasciando a chi lo desidera un’immaginetta con la preghiera. Usanza vuole che si possa prendere, come segno di benedizione, anche un petalo di fiore che adorna la corona. Sentire quel suono caratteristico è impagabile, le persone attendono questo momento con ansia e trepidazione.
“L’ottava” – l’ottava serata, ndr –, il sabato successivo, chiude il tutto con un particolare dettaglio molto bello e sentito: un’estrazione particolare decreta il Capo Cavaliere – colui che reggerà lo stendardo – e i due che lo affiancheranno.
Per quanto riguarda la parte dell’intrattenimento, per mesi e mesi i venticinquenni si occupano, con impegno e determinazione, di creare un perfetto incastro di serate: ce n’è, infatti, per tutti i gusti.
Non mancano i Dj e i gruppi musicali per i più giovani, ma nemmeno le commedie o le gare di poesia in lingua sarda per chi ama le tradizioni. Durante i tre giorni, poi, i ragazzi preparano cene e pranzi per chiunque voglia unirsi al comitato, tutti hanno un posto e un piatto caldo. Prerogativa dei 25enni è anche la vendita dei biglietti della lotteria, che verrà fatta il sabato dell’ottava.
Insomma, l’intera comunità partecipa attivamente e con energia alla buona riuscita di quest’occasione che si festeggia da centinaia di anni. Addirittura, nemmeno il Covid-19, con la sua violenta esplosione, ha fermato completamente gli ingranaggi. Sì, si son rispettate le regole sanitarie e sì, nessuno ha messo a repentaglio la salute dei compaesani, ma – tassativamente in sicurezza – la festa di Santa Barbara, sebbene senza intrattenimenti, si è svolta. Mancavano i cavalli e la lunga processione di anime fedeli, ahimè, e anche i gruppi folk, ma, come si suol dire, poiché “Santa Barbara è Santa Barbara”, a regime ridotto l’aria di festa c’era: sono state rispettate le Sante Messe e la Santa ha fatto il giro delle vie del paese, salutata con grande entusiasmo dalle persone sui balconi o nelle porte di casa, in auto.
Una ripartenza spettacolare dopo il Covid-19
«Nessuno fermi Santa Barbara», si potrebbe dire, ed è quello che è accaduto l’estate dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19 che ha messo in ginocchio l’intero mondo.
Sì, perché nonostante non si sia potuta svolgere la parte dell’intrattenimento, almeno la parte religiosa è stata – seppur parzialmente – rispettata, con le Messe e il giro in auto della Santa per le vie del paese. Vero è che le persone avevano bisogno di convivialità, di vedersi, di chiacchierare. Gli anni dell’emergenza sanitaria hanno lasciato nel cuore delle persone un taglio profondo, una ferita dolorosa che si può rimarginare solo con l’aiuto gli uni degli altri. Vien da sé che la scorsa versione della festa, la prima quasi completamente scevra dalle regole restrittive del Coronavirus, ha fatto il boom: in migliaia si sono riversati nell’incredibile location del bosco di Santa Barbara, richiamati dai gruppi musicali che ben tre leve – ‘95, ‘96 e ‘97 – hanno condotto nel paese ogliastrino. Addirittura, Ivana Spagna – presente con le sue canzoni più famose – ha postato sul suo profilo Instagram un suo scatto con la didascalia «Ai miei piccoli fan di Villagrande Strisaili».
Una ripartenza con i fiocchi, quindi, che odora di normalità, certo, ma anche di eccezionale bellezza.
Il Capo Cavaliere di Santa Barbara, l’estrazione
È durante l’ottava – ottava serata, ultima della festa, il sabato successivo – che viene estratto il Capo Cavaliere e i due Cavalieri che lo affiancheranno. È un momento bello, sentito come importante, solenne.
I nomi di tutti i cavalieri vengono messi in un contenitore insieme a un foglietto con su scritto “Santa Barbara”. Il nome estratto – rigorosamente da un bambino – dopo “Santa Barbara” è quello di colui che farà da Capo Cavaliere, un grande onore, e lui sceglierà i due che saranno le sue spalle destre. Mentre il secondo nome, estratto dopo il suo, sarà quello del Cavaliere che gli subentrerà in caso di imprevisti.