Fatti
Una fiaba senza lieto fine
di Fabiana Carta.
La Scuola Civica di musica di Tortolì è stata una realtà molto importante per il territorio e gli appassionati. Una parabola finita male a causa – pare – di questioni politiche, beghe e denaro amministrato scorrettamente. Non è stato facile reperire informazioni: alcuni hanno scelto di non raccontare, segno che la chiusura della scuola resta ancora una ferita aperta e certi aspetti continueranno a restare nell’ombra.
C’era una volta e oggi non c’è più. Fingiamo che sia una fiaba, tuttavia il finale non è lieto.
Tutto cominciò con la legge regionale del 15/10/1997 n. 28, che permise di istituire la Scuola Civica di musica a Tortolì. Il testo prevedeva che i comuni che avessero già dei corsi di musica in atto potessero essere inseriti nell’elenco delle Scuole Civiche di musica della Sardegna.
Tortolì, all’epoca, non aveva ancora avviato dei corsi simili, ma la legge prevedeva che si potesse raggiungere un certo numero di abitanti tramite la costituzione di un Consorzio e, in questo modo, fondare la scuola. «Abbiamo creato un Consorzio di comuni – ricorda Pierpaolo Lai, presidente del Consiglio d’amministrazione e primo presidente della nascente Scuola Civica –, il comune di Tortolì era capofila e sede principale, a noi si sono uniti Lotzorai e Tertenia. Siamo partiti coinvolgendo tre comuni in tutto».
Tutti ricordano la gioia di quella partenza, un nuovo prezioso servizio per la comunità: era l’anno 1997/1998. Da subito ci fu grande partecipazione e le famiglie si sentirono coinvolte, il numero degli alunni crebbe in maniera esponenziale. Teoria e solfeggio per tutti gli iscritti, pianoforte, chitarra classica, chitarra moderna, canto moderno e lirico, sax, tromba, organetto: la scuola diventò subito una realtà importante, non solo per la cittadina tortoliese, ma anche per i paesi vicini.
Pian piano al Consorzio si unirono altri comuni, come Girasole, Urzulei e Talana, fino ad arrivare a tredici comuni in tutto. «Era una bella scuola – continua Pierpaolo Lai – e il livello degli insegnanti era altissimo. Alcuni dei ragazzini che frequentavano i nostri corsi poi hanno continuato a coltivare la loro passione fino a trasformala in una vera e propria professione».
Molti degli insegnanti ricordano con nostalgia gli anni trascorsi all’interno della Scuola Civica di Tortolì e il suo clima sereno: «Nei primi anni tutto si svolgeva in una dimensione molto umana e le cose sono andate bene. Si puntava molto al coinvolgimento dei ragazzi, al fine di avvicinarli alla musica attraverso la passione degli stessi docenti», commentano.
La favola per un po’ procede in modo lineare, non ci sono intoppi, ma come lo schema della favola insegna, a un certo punto il percorso viene ostacolato. Ecco che arriva il pericolo, la politica si traveste da lupo cattivo. È un peccato che la colpa (presunta) sia quasi sempre la sua. È un dato di fatto che da un certo momento in avanti le cose abbiano iniziato a precipitare, qualcuno dice che «tutto è stato snaturato». E i bambini, i ragazzi e le famiglie hanno perso l’occasione di usufruire di un servizio, un bene comune. Tutti, con grande dispiacere, hanno dovuto rinunciare alla bellezza, al linguaggio e all’educazione musicale. «È un vero peccato che la scuola non esista più, a causa di questioni economiche e di amministrazione sbagliata, che non c’entrano niente con il senso del progetto. Anche se è finita male, resta sempre la speranza che un giorno possa rinascere, ripartire», commenta una ex alunna. Come è giusto che sia.
Arzana e la festa di San Vincenzo Ferrer
Arzana nella sua storia ha conosciuto il culto di diversi Santi, molti dei quali oramai probabilmente dimenticati dalla maggior parte dei suoi abitanti: Sant’Antonio da Padova, Santa Lucia, San Sebastiano, San Cristoforo, San Pietro da Uèli, san Giovanni di Uèli, la Madonna del Carmine, la Madonna della Neve, la Vergine del Rosario, San Michele Arcangelo, San Martino, San Giovanni Battista e San Vincenzo Ferrer.
Nonostante quest’ultimo non sia il patrono del paese è a San Vincenzo che Arzana sembra particolarmente devota da un tempo immemorabile. I documenti storici danno testimonianza dei festeggiamenti in suo onore già nel 1601, anche se non sappiamo se allora avesse la stessa priorità che gli viene data attualmente. Tra i compaesani, anche più anziani – nonostante ci sia chi parli di miracoli avvenuti tramite l’invocazione di San Vincenzo, o dell’allestimento di una fiera in quel periodo –, è idea più comune che i suoi festeggiamenti vengano sentiti maggiormente perché organizzati tradizionalmente nell’ultima settimana del mese di agosto, quando vi sarebbe maggiore partecipazione da parte dei residenti o di coloro che ad Arzana sono nati e hanno passato parte delle loro vite, quindi gli immigrati, i lavoratori in ferie, e oggi anche gli studenti universitari che tornano ad Arzana per la pausa estiva.
I festeggiamenti in suo onore prevedono un triduo di preghiera a partire dal sabato con la Messa che viene celebrata nella chiesa di San Giovanni Battista con, a seguire, la processione durante la quale viene condotto il simulacro del Santo per le vie del paese fino alla chiesa a lui dedicata, una chiesa campestre con una sola navata circondata dal verde.
Il Santo viene trasportato da un carro trainato dai buoi allestito con tappeti, fiocchi e fiori. Il percorso, che richiede circa un’ora di camminata, ha come partecipanti non solo i fedeli, ma, come da tradizione, i cavalieri, i suonatori di launeddas, i gruppi folk di Arzana e di altri paesi che il comitato in questione è solito invitare, infine i fucilieri, questi ultimi assenti per tanto tempo in questa circostanza. Il lunedì successivo la statua del Santo viene riportata, sempre in processione e con i medesimi partecipanti, alla chiesa patronale di San Giovanni Battista dove è custodita per tutto l’anno.
Per ciò che riguarda invece l’aspetto laico dei festeggiamenti, è previsto da anni ormai che se ne occupi la leva dei trentenni. L’inizio della festa è segnalato dal suono dei petardi, is coetus, una sorta di segnale di avviso per richiamare tutta la comunità alla partecipazione.
Sono previsti solitamente tre, quattro giorni di festa concentrati al fine settimana in cui non mancano i poetas e cantadores della nostra cultura, ma anche interpreti del panorama musicale odierno, comici nostrani e i balli sardi con cui si conclude ogni serata di festa, ma che probabilmente è la parte più coinvolgente per gli arzanesi vista la partecipazione numerosa di grandi e piccoli.
In tempi non troppo remoti venivano organizzati, dopo pranzo, dei giochi per ragazzi, come il tiro alla fune, la corsa con i sacchi, la corsa degli asini e persino la gara a chi mangiava più pastasciutta! Nell’ultimo giorno di festa, esattamente la mattina all’alba, inizia quello che viene chiamato “su giru de sa Corona”, dove il comitato passerà di porta in porta per chiedere un’ultima offerta ai paesani, ma solo dove troveranno la porta già aperta si potrà richiedere un contributo, altrimenti si passa oltre.
Nonostante la storia secolare e l’affetto che ha sempre legato Arzana alla venerazione di San Vincenzo, con l’andare dei tempi tale devozione pare stia venendo meno. Le nuove generazioni si stanno adattando a interessi diversi da quelli che riguardano le feste di culto dei propri paesi. E se fino a pochi anni fa almeno la parte laica dei festeggiamenti suscitava l’interesse della maggior parte dei compaesani, oggi anche questo aspetto sta venendo a mancare. La priorità religiosa dei festeggiamenti è ormai messa in discussione da molti, fatta eccezione per coloro che partecipano conoscendo e capendo il senso profondo di tale occasione. (FOTO MIRCO PUSCEDDU)
Tra storia e tradizione
Le poche notizie scritte del suo culto di San Vincenzo risalgono al 1601, ma possiamo desumere molte informazioni da testimonianze orali tramandate di padre in figlio.
Sappiamo che da sempre l’aspetto religioso si univa a quello civile con l’allestimento di un mercato che permetteva di acquistare o scambiare oggetti di uso comune. Pare che l’obriere, ossia colui che organizzava i festeggiamenti, venisse sempre scelto dalla Chiesa, e, nei casi di feste importanti, se ne nominavano due, spesso fratelli. Sembrerebbe inoltre che dal 1860 la Chiesa autorizzasse i comuni a effettuare la scelta che finiva per ricadere sempre su persone di spicco del paese, probabilmente per la responsabilità nel gestire le offerte donate in onore del Santo.
Era tradizione da tempo immemore offrire il pranzo, a base di culurgiones e carne, a coloro che venivano da altri paesi in visita per la circostanza, o perché parenti o perché offrivano il proprio contributo durante la processione o la festa civile.
Alcune curiosità
Era usanza, non in tempi recenti, partecipare alla processione con l’abito del proprio matrimonio, un modo di approcciarsi al culto del Santo come a volersi mostrare con rispetto e serietà.
L’ultimo giorno di festa, in cui alla mattina si svolge il giro della corona, l’accesso alle case degli abitanti per richiedere l’offerta da parte degli obreri è vincolato dal ripetere la frase “Deus in c’intrit Santi Fisente” ossia “che in questa casa possa entrare San Vincenzo”, come augurio di buon auspicio.
Classico e Linguistico di Lanusei a S’Aspru
di Denise Carta.
Lo scorso 11 gennaio, 32 ragazzi del Liceo “Leonardo da Vinci” di Lanusei visitano la Comunità di S’Aspru, di Padre Salvatore Morittu
È un luogo in cui, da circa quarant’anni, il dolore incontra l’accoglienza e la condivisione degli operatori che accompagnano in un percorso di rinascita tanti ragazzi, giovani e meno giovani, che nel corso della loro esistenza sono stati tremendamente provati a causa di dipendenze di ogni genere, dalla droga all’alcol, al gioco. Un’esperienza forte ed emotivamente non facile, ma certamente formativa nel percorso di crescita di ciascuno.
Non vi racconteremo, però, le tappe di una giornata intensa, in cui ciascuno ha provato emozioni personali diverse e forti; preferiamo fare una sorta di recensione a un libro che testimonia la vicenda del promotore di questa bellissima esperienza di lavoro con i giovani in difficoltà: “Gli ultimi sognano a colori”, di Salvatore Morittu e Giampaolo Cassitta.
Padre Salvatore Morittu, frate francescano di Bonorva, un uomo che sembra avere una storia come tanti, nasce in una società rurale, dove, lo dice lui stesso, «O fai il pastore o diventi un uomo di Chiesa». Il suo è un destino quasi segnato e quando decide di entrare in seminario ha la consapevolezza di voler aiutare gli altri. Ma sarebbe un errore pensare a lui come un uomo risoluto, che non è mai stato assalito dai dubbi. Ha solo undici anni quando entra in convento: un bambino, quasi adolescente, che si deve adeguare alle rigide regole di un monastero francescano. Ciò che contraddistingue il “piccolo” Salvatore è la sua grande curiosità, la sua voglia di imparare e studiare, la sua attenzione verso il mondo e gli eventi che in esso accadono. Caratteristiche che lo portano non solo a diventare frate francescano, ma anche sacerdote, a laurearsi in Teologia Biblica e poi in Psicologia, con una tesi sugli ospedali psichiatrici e sulle correlazioni tra malattie mentali e famiglie delle persone che ne soffrono.
Padre Morittu studia e vive a Firenze, Pescia, Gerusalemme, Roma, ma nel suo cuore c’è sempre la Sardegna e il desiderio di poter rendere a quella terra, che lo ha visto crescere, parte dell’amore che da essa ha ricevuto e decide di farlo, sulle orme di San Francesco, aiutando gli ultimi.
Tornato a Cagliari si dedica ai tossicodipendenti, gli eroinomani, coloro che si sono persi nelle strade della vita, abbandonando il sentiero di luce alla ricerca di una felicità che la società non ha saputo dare loro e che li ha portati a cercarla nella droga. È il 26 gennaio 1980 quando nasce, nel convento di San Mauro a Cagliari, nel quartiere di Villanova, la prima comunità per tossicodipendenti in Sardegna. Inizialmente nessuno bussa alla porta: scegliere di entrare in comunità, toccare il fondo, trovare la forza e la volontà di risalire non è facile e Padre Morittu lo sa, sa che ammettere le proprie fragilità è doloroso e lo è ancor di più affrontarle. Ma lui, con proverbiale pazienza francescana aspetta, pronto ad accogliere, e piano piano la sua comunità – basata sullo stare insieme, sul lavoro nei campi e l’amore per il creato e le sue meraviglie – inizia a funzionare. San Mauro è la prima luce di speranza per gli eroinomani e presto si aggiungeranno S’Aspru (Siligo) e Campu’eLuas (Uta).
Alcuni ospiti non ce la fanno, ma altri sì, combattono e alla fine vincono la loro battaglia tornando alla pienezza della vita. Padre Morittu è felice, si prodiga per aiutare sempre più persone, ma un nuovo spettro si presenta ai suoi ragazzi, così come a moltissimi altri tossicodipendenti ed ex tossicodipendenti, qualcosa di terribile, un mostro sconosciuto che nessuno sa come affrontare, l’AIDS o HIV per cui non esiste una cura. Vedere l’angoscia, il terrore, il dolore di chi si trova costretto a dover affrontare questa malattia, e inesorabilmente la morte, porta padre Morittu a maturare la convinzione e la volontà di accompagnare queste persone nel loro cammino, trasmettendo, nonostante tutto, la gioia e la bellezza della vita. Viene così creata a Sassari la “Casa Famiglia” per i malati di AIDS: insieme la malattia fa meno paura e la scienza inizia a studiarla, sviluppando farmaci e donando così speranza a coloro che ne sono affetti.
La storia di padre Morittu, uomo speciale, solidale con gli ultimi, permette di riflettere sulla fragilità di ognuno e sulla possibilità di cadere di fronte alle difficoltà della vita, dalle quali non è facile uscire senza l’aiuto di qualcuno. Nella nostra società le debolezze sono viste come qualcosa da nascondere, sono segno di viltà, ma padre Morittu ci insegna che non dobbiamo vergognarcene, esse fanno parte di noi, ci rendono quello che siamo, belli anche nei nostri difetti. Gli ultimi possono essere ognuno di noi quando il dolore, la paura, la disperazione prendono il sopravvento e ci impediscono di vedere la bellezza della vita, malgrado la sofferenza che essa può causare.
La cosa più brutta a cui una persona può andare incontro è la solitudine, il sentirsi solo, impotente, inutile, come un pulcino bagnato terrorizzato da tutto, senza un appiglio, senza una luce che possa indicare la strada o dare la forza di guardare in faccia tutto il buio e il male che si ha davanti. Nessuno, inoltre, dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare la vita degli altri, i loro errori e le loro fragilità, spesso senza sapere nulla della loro storia, come dice un proverbio dei nativi d’America: “Non giudicare il tuo vicino finché non avrai camminato per due lune nelle sue scarpe”.
Padre Morittu ascolta senza pregiudizi, ascolta con le orecchie e soprattutto con il cuore, come ognuno di noi dovrebbe fare, sostiene che, malgrado le debolezze, gli ultimi sognino a colori ed è doveroso e gratificante aiutarli a trasformare questi sogni in una realtà ugualmente variopinta.
La chiesa di Sant’Andrea in Tortolì nel libro di Gian Michele Ladu
di Marco Ladu.
Lo scorso 25 febbraio, nella parrocchiale di Sant’Andrea a Tortolì, Gian Michele Ladu ha presentato il suo libro: “La Chiesa di S. Andrea Apostolo in Tortolì. La sua storia attraverso i secoli e le opere d’arte”.
Alla presenza del pubblico delle grandi occasioni, in un silenzio proprio del luogo, il parroco Mons. Piero Crobeddu, dopo aver presentato i saluti del vescovo, ha introdotto i lavori, sottolineando con tono paterno i tanti sacrifici dell’autore che, grazie alla sua imponente opera, ha fornito alla nostra comunità, ma anche a tutto il territorio ogliastrino, un testo che ne ripercorre la storia nei secoli. Un Michele visibilmente emozionato, ma sicuro e deciso, ha presentato al pubblico, con tratti amichevoli, il suo lavoro, percorrendo in maniera chiara i vari capitoli.
Dopo l’attenta presentazione dell’opera, mentre l’evento volgeva al termine, due momenti hanno ulteriormente caricato la serata di emozione. Il primo è stato quando l’autore ha ringraziato la sua famiglia, ricordando in seguito Mons. Mario Mereu, compianto parroco della comunità di Sant’Andrea in Tortolì. A lui sono state rivolte parole di filiale riconoscenza, ringraziandolo per aver alimentato e sostenuto la sua passione e dedizione, percependo con commossa gratitudine la presenza e la vicinanza in tutto il suo lavoro.
Altro momento commovente è stato il dono prezioso che Rosina Muggianu di Lotzorai ha lasciato alla comunità di Sant’Andrea. Si tratta di un crocefisso del XIX secolo, appartenuto al Canonico Raimondo Pinna, segretario di Mons. Emanuele Virgilio.
A Gian Michele Ladu va il profondo ringraziamento a nome di tutta la parrocchia di Tortolì, per aver dato dignità e profondità storica alla chiesa della cittadina che forse sarebbe giusto valorizzare maggiormente; per aver fatto conoscere nomi, curiosità, fatti lieti e tristi che fanno parte della sua storia; per aver così svelato ciò non si conosceva, per aver riportato all’attenzione di tutti memoria e identità e per aver suscitato in ciascuno una sana curiosità nello scoprire.
Un’opera magistrale che consta di oltre 400 pagine, arricchita da numerose fotografie e da un Catalogo in cui sono rappresentati i beni artistici di maggior valore della chiesa parrocchiale di Sant’Andrea. Con questo lavoro, Gian Michele ha colmato alcune lacune riguardanti le vicissitudini storiche relative sia alla chiesa che alla stessa città di Tortolì. Ha ridato lustro a un edificio, ricordandoci che la chiesa è fatta sì, di pietre, arredi e statue, ma anche di uomini. Di pietre vive che con la loro esistenza, le loro debolezze e fragilità realizzano quel meraviglioso tessuto che è la nostra identità cristiana. L’invito è quello di leggere con passione quest’opera sicuri che ne troveremo giovamento per il nostro spirito e parimenti per la nostra curiosità.
Medicina, giurisprudenza, ingegneria ed economia: le facoltà più richieste dai maturandi
Studenti Liceo Classico e Scientifico Tortolì.
Gli studenti delle classi IV e V del Liceo Classico e Scientifico di Tortolì iniziano a fare i conti con la scelta dell’Università fra indecisione, sogni e desiderio di un buon lavoro
La scelta della facoltà universitaria è un momento difficile, in cui, forse per la prima volta, ci sentiamo artefici del nostro destino. Dubbi, ansie, sogni e attese ci accompagnano in questo percorso, lungo il quale a momenti sembriamo procedere spediti, ma per lo più ci arrestiamo, ci guardiamo intorno, sostiamo, incerti se proseguire nella stessa direzione o prendere un’altra strada tra le tante che si offrono dinanzi a noi.
Sentimenti che emergono con chiarezza dal breve sondaggio che ha coinvolto la nostra insieme ad alcune fra le classi quinte del Liceo Classico e Scientifico di Tortolì. Se la metà degli intervistati sembra avere già preso la sua decisione, l’altra si dice ancora indecisa. «Al momento non ho le idee chiare su cosa fare una volta terminato il liceo», è la frase più frequente e che delinea chiaramente la situazione attuale. Le ragioni sono diverse: dai tanti interessi apparentemente inconciliabili, al timore che seguire le proprie passioni precluda sbocchi lavorativi soddisfacenti.
Le facoltà al momento più quotate sono medicina, giurisprudenza, ingegneria ed economia, ma non mancano scelte inusuali come accademia di canto, criminologia e design. E in proposito sembra avere le idee molto chiare Serena: «Dopo il diploma, ciò a cui aspiro è entrare in un’accademia di canto: sono sicura della mia scelta, perché la musica mi motiva a impegnarmi continuamente e le cose belle che mi regala non mi fanno pesare i sacrifici che pure devo fare».
Tra i pochi che hanno fornito indicazioni sulla sede universitaria, spicca la preferenza per le facoltà del Nord Italia, seguite da quelle sarde di Cagliari e Sassari. «Da grande vorrei fare il medico. L’idea è di fare domanda in varie università, dopo il liceo. Le prime scelte saranno Padova (mi è stata molto consigliata), Trieste, Perugia, preferirei studiare fuori dalla Sardegna», afferma Irene.
Anche l’anno sabbatico è un’opzione considerata da chi vorrebbe affrontare l’università con una minima indipendenza economica. Solo qualcuno preferisce non continuare gli studi.
Dal sondaggio emerge che frequentare un liceo di indirizzo classico non limiti nella scelta, garantendo opportunità lavorative varie anche a chi, per cinque anni, si dedica prevalentemente allo studio di materie umanistiche. Infatti, dati alla mano, la maturità classica è spesso seguita dalla frequenza delle facoltà di medicina, ingegneria, chimica ed economia.
In linea con questa tendenza le probabili scelte di Massimiliano: «Sono indeciso tra le facoltà di economia aziendale (Università di Trento) e di ingegneria energetica o robotica (Politecnico di Torino o Università di Pisa e, per il master, Università di Trieste)».
È comunque opinione diffusa e comprovata che le facoltà scientifiche offrano più opportunità lavorative nell’immediato rispetto a quelle umanistiche, per cui l’insegnamento è l’opzione più semplice e probabile. Sempre Massimiliano aggiunge: «Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, sono deciso a lasciare il mio Paese per sfruttare opportunità più vantaggiose all’estero».
Se dunque i ragazzi del Liceo Classico includono tra le proprie scelte anche facoltà che si allontanano dalla formazione umanistica che hanno conseguito, lo stesso non si può dire dei ragazzi dello Scientifico: ingegneria biomedica e meccanica, economia aziendale ed infermieristica sono alcune delle loro scelte, in linea con il panorama italiano. Risulta, infatti, in vetta alle classifiche nazionali per numero di iscritti, la facoltà di economia, seguita da ingegneria e giurisprudenza; al quarto posto la facoltà di Lettere, come a delineare una situazione prevalentemente “scientifica”.
Risulta ricorrente la questione economica: «Dovrei cercare di prendere una borsa di studio – dicono alcuni – per poter accedere al corso che desidero», oppure: «La mia è una scelta che richiede tanti sacrifici da parte della mia famiglia», affermano altri.
Altrettanto frequente è il richiamo ai desideri e ai sogni dell’infanzia: avvocati, poliziotti e medici sono i mestieri più ricorrenti, che tuttavia adesso hanno lasciato spazio a dubbi e indecisioni: «Non ho ancora deciso con certezza che cosa fare dopo il diploma – ammette Sara –. Fin da quando sono bambina però ho sempre voluto fare giurisprudenza per poi intraprendere il percorso in magistratura».
Forse, alla base di questa incertezza diffusa, vi è la crescente paura di deludere i propri cari con scelte sbagliate e poco sicure, oltre al timore di non riuscire a raggiungere obiettivi di vita che si conciliano con una buona situazione economica. Le passioni devono dunque lasciar spazio al lavoro sicuro e immediato, traguardo ambito da tutti gli intervistati.
Si dice spesso che il tempo voli e agli sgoccioli dell’esperienza liceale non possiamo fare altro che confermare. Tuttavia tanti di noi aspettano ancora di trovare le ali giuste per partire al prossimo decollo, magari con qualche indecisione di meno e un pizzico di coraggio in più.
Un lago di opportunità
di Augusta Cabras.
Gli scheletri di vecchie abitazioni, la vegetazione che si fa strada tra i muri di case a metà, le finestre chiuse, (negli stabili che le possiedono ancora), capre e pecore a sorvegliare lente, luoghi e tempi. Lo scenario pare quello delle città bombardate. Grigiore, abbandono, segni di un tempo passato e di una memoria mal custodita, di un gioiello impolverato, ignorato, quasi dimenticato. E questo nell’insostenibile stridore dello sguardo che incontra una natura lussureggiante fatta d’acqua, di montagne, di vegetazione unica. La vista può perdersi godendo di questa bellezza, ma viene interrotta, come uno schiaffo in piena faccia, dall’incuria, dallo scempio, dalle possibilità inespresse, dalle decisioni non prese, dal tempo che passa inesorabile e lascia un segno nelle cose che raggiungono l’oblio.
Eppure questa porzione del territorio di Villagrande Strisaili, Bau Muggeris, ha in sé qualcosa di straordinario che è difficile non vedere. Bau Muggeris era in origine il nome di una gola, dove, dice la tradizione, le muggeris, le donne del paese di Villagrande Strisaili – nel cui territorio ricade l’invaso – si recavano a lavare i panni. Oggi è il nome della diga costruita, e del bacino artificiale nato in seguito alla sua realizzazione, avvenuta tra il 1928 e il 1949.
“I tre salti”, comunemente chiamati, descrivono il corso serpeggiante del fiume Flumendosa, che dà energia a questa parte dell’Ogliastra. Lungo le sue anse si presentano le tre centrali idroelettriche costruite dall’Enel, insieme ai villaggi, in cui vivevano gli operai e le loro famiglie. Piccoli borghi dotati di negozi, scuola, campi da calcio e cinema. Un micro mondo, con i confort che offriva lo sviluppo del tempo, che in quegli anni era specchio del boom economico, destinato nel corso dei decenni a sgretolarsi, sulla scia della crisi e del cambiamento.
Oggi passando per quelle strade, nel silenzio interrotto solo dal fruscio delle fronde mosse dal vento, sembra di sentire il vociare dei bambini, lo scorrere della vita delle donne, il lavoro e il tempo dello svago degli uomini. Sembrano passati secoli e forse tutta questa desolazione e distruzione si poteva evitare. Ci sono, evidentemente, delle responsabilità precise. Ci sono, evidentemente, passaggi che dovevano essere fatti, delle decisioni che dovevano essere prese, ma che si è preferito rimandare. È sempre e solo una questione economica? Rimane il fatto che, di chiunque siano le responsabilità, serve ora una nuova presa di coscienza che chiama in causa tutti: Enel, amministratori locali, regionali, nazionali e anche la società civile.
Ne abbiamo parlato con Alessio Seoni, sindaco di Villagrande…
[L’intervista integrale è sul numero di Febbraio de L’Ogliastra]