In breve:

Fatti

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Vatileaks. Che succede?

“In nome della Chiesa, vi chiedo perdono per gli scandali accaduti in questi ultimi tempi; è inevitabile che avvengano scandali: ma guai all’uomo a causa del quale avviene lo scandalo”.

psicologo

Infanzia. Educare all’ascolto

Che succede ai nostri bambini? Il tempo li ha migliorati? Ne parliamo con il dott. Amgelo Sette, psicologo con una lunga esperienza ogliastrina in questo campo.

di Fabiana Carta

Partiamo da un presupposto: grazie agli studi che si sono susseguiti nei secoli si può affermare che l’adulto è il risultato di ciò che da bambino ha vissuto. Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese, aveva affermato che all’inizio della vita ogni individuo esiste solo in quanto parte di una relazione, e le sue possibilità di vivere e svilupparsi dipendono dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento alla madre, che si prende cura di lui dandogli quel senso di sicurezza e protezione che sono basilari per la crescita. Proprio durante il periodo prezioso dell’infanzia si creano, nella mente assorbente come una spugna, tutte le condizioni cognitive e affettive che faranno sentire il loro effetto nelle fasi successive della vita.

Cambiamenti non sempre positivi
Insieme al dottor Angelo Sette, psicologo e psicoterapeuta con quasi quarant’anni di esperienza, cercheremo di entrare meglio nel meraviglioso quanto complicato mondo dell’educazione e dell’infanzia, analizzandone i cambiamenti positivi e negativi nel corso del tempo.
“In questi anni, nell’arco del mio lavoro, c’è stata una maggiore diffusione di conoscenze psicologiche sull’infanzia e sull’educazione, ed un più diffuso utilizzo di strumenti psicologici di indagine; questi cambiamenti positivi tuttavia non sempre hanno favorito lo sviluppo di un atteggiamento educativo più attento al mondo interno ed alle emozioni del bambino. Per un adeguato rapporto educativo è necessario recuperare le dimensioni più profonde: l’ascolto, l’attenzione al mondo personale, l’anima”. Insomma, siamo più concentrati sulla esteriorità e la tecnica, perdendo di vista l’aspetto interiore. Oggi possiamo godere di una cultura maggiormente attenta all’infanzia e alla sua tutela, di un gran numero di informazioni a disposizione dei genitori rispetto al passato, di maggiori conoscenze e possibilità. Ma come riuscire a galleggiare in questo mare pieno di studi, e tradurli in processi comunicativi e relazionali adeguati al bambino e alla sua crescita? “Secondo Winnicott la Natura ha dotato il genitore, in particolare la mamma, di quella disposizione naturale che lui chiama “preoccupazione materna primaria” che la rende attenta e in grado di far fronte ai bisogni del bambino. Ci ricorda, inotre, che è solo l’amore per il bambino che le consente di allevarlo nel modo più corretto “, mi spiega il dottor Sette.

L’età dei genitori impauriti
É vero che la Natura ci ha regalato questa dote innata, è vero che un padre e una madre di questi tempi hanno a disposizione un grande bagaglio di conoscenze, però è anche vero che “sono genitori impauriti e soli” perché in un mondo complesso come il nostro poco si fa per sostenere il loro ruolo ed esplicitarne le potenzialità . C’è bisogno di punti di riferimento e sostegno come i servizi sanitari e sociali, la parrocchia, la scuola. Il paradosso della società dell’immagine, del benessere materiale, dei grossi mezzi tecnologici, vuole che si comunichi molto meno e che si comunichi scambiando “più nozioni e oggetti che emozioni e significati”
Questo è un mondo che va veloce, dove i genitori spesso si fanno aiutare dalla tecnologia, tramite mezzi quali l’Ipad per raccontare una storia al bambino, “ ma in termini psicologici la differenza tra il racconto fatto dalla voce della mamma che trasmette presenza, calore, umanità ed un mezzo tecnico che racconta in maniera perfetta, è abissale”. Oggi si cresce immersi nella tecnologia digitale, e questo apre nuovi compiti educativi. In sé sono mezzi meravigliosi, utili e stimolanti, il problema non sta nel dispositivo tecnologico. “ Il problema sta nel loro uso e nella collocazione che diamo loro nella vita e nell’educazione; bisogna governarli, gestirli, conoscerli nel loro significato e bisogna impostare sul loro utilizzo un’educazione etica. Questo è un compito di noi adulti, delle istituzioni, della scuola e dei genitori. Siamo molto in ritardo nella consapevolezza profonda e nella realizzazione di percorsi educativi credibili su questi temi”. Occorrono regole e buon senso. Non lasciamo che la tecnologia si sostituisca al genitore, non lasciamo un bambino solo di fronte ad uno schermo, guardiamo il cartone o usiamo il videogioco insieme a lui. Non lasciamo che la vita immateriale/digitale vinca sull’emozione.

L’importanza dell’ascolto
Un bambino per crescere in modo sano ha bisogno di condizioni ambientali favorevoli: è di fondamentale importanza la presenza del genitore, l’ascolto, l’essere capito, accudito, incoraggiato, apprezzato, rispettato. L’esempio, il modello, è necessario nell’educazione, ancora più delle regole che possono restare parole al vento. “Conta la presenza, l’atteggiamento, e l’autenticità del genitore che vuole provvedere al bambino quelle condizioni che permettono a cose come la fiducia e i valori di svilupparsi, a partire dai suoi processi interiori. Importante la relazione, il saper spiegare il mondo al bambino mediandogli anche gli aspetti più difficili”.
Se un bambino non si sente apprezzato e stimato, se viene continuamente criticato, rimproverato e insultato crescerà fragile e infelice e potrà diventare un adulto incapace, insicuro, dipendente. Purtroppo nella nostra società “civilizzata” e “tanto informata “ si verificano gravi situazioni di abbandono, maltrattamenti e abusi sull’infanzia. E si sono moltiplicate le situazioni che il dottor Sette chiama di “grave inadeguatezza educativa”, anche se in Ogliastra forse non sono molto diffuse. Questi disagi sono materia di intervento del Tribunale dei Minori e vanno da casi molto gravi di abbandono o di violenza, dove si usa la sculacciata o lo schiaffo non in maniera episodica ma frequente, in cui l’intervento del Tribunale può determinare la decadenza della potestà e l’affidamento del minore ad altra famiglia, a quelli meno gravi dove la procedura si conclude con un invio dei genitori a un servizio per un percorso alla genitorialità. “Quando ci sono queste carenze affettive, situazioni di violenza fisica o verbale sui minori, è chiaro che si crea una sofferenza nel bambino che può portare, nella crescita, a problemi vari di ansia, depressione, danni allo sviluppo cognitivo, disturbi di personalità, danni all’autostima”. Alla luce di queste esigenze e problemi sarebbe augurabile, per il futuro, investire di più sulle Istituzioni e sui Servizi per l’infanzia: dalla Scuola, ai Consultori, alla Neuropsichiatria Infantile per la prevenzione e l’intervento precoce.

Il bullismo
Il fenomeno del bullismo può nascere da questo tipo di disagi. Il bullo è sempre esistito, non è un fenomeno frutto di questi anni, anche se oggi si avvale delle nuove tecnologie (cyber-bullismo). Il dottor Sette, per spiegarlo meglio, colloca il fenomeno nel tema più vasto dell’aggressività e delle sue manifestazioni, che tutti gli esseri umani per natura possiedono. “Tutto il percorso della civiltà e della crescita, alla fine, è consistito nel governare e gestire l’aggressività e la sessualità. Le condizioni educative ambientali favorevoli consentono un graduale controllo di essa e una sana gestione del conflitto. Tuttavia ci sono situazioni in cui si determina una difficoltà e carenza nel processo di sviluppo della personalità, in particolare lo sviluppo della socialità, da attribuire a un modello di attaccamento insicuro e a uno stile educativo inadeguato (troppo severo o troppo permissivo). Il contesto in cui si esprime il bullismo è la scuola, e – sottolinea Sette – “paradossalmente è una fortuna che episodi di questo tipo avvengano soprattutto tra le sue mura, perché c’è la possibilità di conoscerli meglio e tradurli in una opportunità educativa per il bullo e per tutti gli altri”. Perciò dove non arriva il servizio deve poter arrivare la scuola, che nel mondo di oggi è un’articolazione fondamentale, perché tutti i bambini passano per essa. Citando ancora Winnicott, la scuola, per tante situazioni difficili, è una “casa fuori di casa”, dove si ricerca una situazione emotiva stabile ed un gruppo capace di tollerare idee aggressive.

Educare alle emozioni
Dovremmo ricordare tutti l’importanza di educare alle emozioni. La parola stessa “emozione” significa “trasportare fuori”, non tanto indottrinare, ma consentire alla persona di esprimersi. Alla base dei rapporti con gli altri, in tutte le azioni, nel rapporto con gli oggetti, viviamo delle emozioni. “L’educazione emotiva coincide con l’educazione nella sua globalità, ne sottolinea l’aspetto di relazione e di attenzione al mondo interno del bambino ed ai suoi fondamentali bisogni, in primis quello di essere accettato, amato e rassicurato.”
Oggi stiamo rischiando che la tecnica mortifichi l’umano, relegando l’aspetto più emotivo. La nostra mente ha bisogno di nutrimento, ha bisogno di stimoli: l’arte, la musica, la letteratura, la comunicazione più dialogante, più calda. La conoscenza ci aiuta a fare civiltà, la civiltà è formata dagli uomini: uomini che sono stati bambini.

Chi è?
Mario Angelo Sette
, laurea in Psicologia (indirizzo Applicativo), con percorso di formazione in psicoterapia psicodinamica, psicopatologia, supervisione di casi clinici, presso l’ A.S.N.E. (Associazione per lo Sviluppo delle Scienze Neuropsichiatriche dell’Età Evolutiva), attualmente in quiescenza, ha lavorato presso il Centro di Salute Mentale di Lanusei e come Giudice Onorario presso il Tribunale per i minori di Cagliari.

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L’orrore delle donne produttrici di bambini

di Gemma Demuro

La pratica dell’utero in affitto rischia di essere realmente sdoganata anche nel nostro Paese. Ma è contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini.

Non esiste l’infertilità assoluta! Questo è solo uno dei tanti slogan utilizzati da chi promette un figlio a coloro che un figlio non possono avere. E già, perché accanto ai viaggi di affari e alle crociere di svago, la nuova frontiera del turismo è rappresentato dalle cliniche della fertilità. A Kiev, come in molte altre città dell’Est Europa, si può trovare una donna che porta avanti una gravidanza altrui “ospitando” seme ed ovulo non suoi. Il prezzo, perché di commercio si tratta, varia tra i 20mila e i 40mila euro. Tanto vale un figlio. La pratica della maternità surrogata, comunemente nota come utero in affitto, è vietata in Italia ma non in altri paesi come Ucraina, Russia, Stati Uniti. Cosa può fare, quindi, una coppia che desidera un figlio ma non riesce ad averlo con le tecniche di aiuto alla maternità consentite nel nostro Paese? Semplice, attraversa la frontiera per recarsi laddove un figlio può essere comprato. È sufficiente essere sposati, contribuire con almeno metà del patrimonio genetico e dimostrare di non riuscire a portare avanti la gravidanza (così da evitare che questo metodo sia scelto da coloro che vogliono un figlio ma non la linea appesantita della maternità).
La madre surrogata, invece, deve avere già un suo figlio, essere giovane e sana, impegnarsi a disconoscere il figlio appena questo viene al mondo. Il tutto è sacramentato da un contratto e da un certificato di nascita dove appaiono come genitori quelli genetici o, come definiti da taluno con un linguaggio più da cantiere che da famiglia, appaltanti. Cosa succede quando questa coppia ritorna in Italia con il bimbo? La legislazione italiana vieta questa pratica. Nei pochi – rispetto al numero di bambini nati da maternità surrogata – casi arrivati all’esame di un tribunale si è assistito ad una sorta di legalizzazione tacita. Ormai diverse sentenze hanno reso lecito ciò che lecito non è. I ragionamenti giuridici possono essere condivisi o meno, ma ciò che preoccupa sono le giustificazioni di ordine etico portate a conforto di alcune decisioni.
Secondo una recente sentenza del Tribunale di Milano vi sono dei “concetti” ormai “patrimonio acquisito del nostro ordinamento” che “escludono che la genitorialità sia solo quella di derivazione biologica”. Ed ancora, “la tutela del diritto allo status e all’identità personale del figlio può comportare il riconoscimento di rapporti diversi da quelli genetici”. Coloro che, animati più dal buonismo che dal buon senso, plaudono a decisioni come queste e vedono nella gestazione d’appoggio la soluzione per rendere felice chi non lo è a causa della mancanza di un figlio sembrano quasi dimenticare che la scelta di diventare madre e padre è una scelta di altruità. Nella maternità surrogata ciò che fa da padrone è, invece, la logica industriale di domanda/offerta. Ci si trova davanti ad un imperialismo istologico dove la donna viene sfruttata per la soddisfazione del desiderio individuale ed egoistico con buona pace della sua dignità. Peraltro appaiono evidenti le ripercussioni etiche di una tecnica applicata senza remore morali e limiti giuridici, dove tutti e ciascuno dei soggetti coinvolti vede uscire sconfitta primieramente la propria dignità. Ma la ricerca spasmodica di un figlio, di un figlio voluto a tutti i costi contro le leggi umane ed etiche, non nasconde forse per i credenti la mancata accettazione del proprio limite?

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Se la corruzione uccide il futuro

di Giusy Mameli

Dobbiamo ammettere a malincuore che l’onestà viene spesso ritenuta lo status dei perdenti e degli ingenui. Ma il futuro lo si costruisce creando un sistema dei diritti e abbattendo quello dei favori.

Fin dalla Genesi dell’umanità abbiamo dovuto fare i conti con la corruzione che oggi, alla luce dei molti scandali eclatanti, appare assai arduo estirpare. Si tende ad associare il termine con questioni economiche, ma possiamo valutarne un’accezione più ampia quale forma mentis di cattive abitudini nella quale manca la rettitudine morale (individuale e/o collettiva). Non si è più capaci di distinguere condotte illecite e si tende a giustificare ogni metodo (ancorché spregevole) pur di fare carriera ed affari. Sono stati scritti trattati sul tema, fino alle riforme legislative (attualissime ed in itinere in Italia).
Abbiamo vissuto gli anni ‘90 nella stagione di Mani Pulite, convinti di superare il malcostume della Prima Repubblica (ove il fine avrebbe dovuto giustificare i mezzi), stagioni di referendum, mobilitazioni popolari, scelte civiche …, nell’illusione che l’Italia si stesse risanando. Ma gli addetti ai lavori temevano che una rivoluzione morale/sociale di tale portata avrebbe necessitato di tempo per realizzarsi e di un progetto etico che divenisse sistema nazionale. L’entusiasmo, lo spontaneismo, lo slancio emotivo non sarebbero stati sufficienti: corrotti e corruttori avrebbero trovato modi più sofisticati per delinquere indisturbati e coalizzarsi in una sorta di apparato criminale di connivenze e prevaricazioni. Dobbiamo ammettere a malincuore che l’onestà viene spesso ritenuta lo status dei perdenti e degli ingenui e non si riconosce l’incorruttibilità come valore, come corresponsabilità verso il bene comune, ma anzi la si considera un’utopia. La dice lunga in proposito il fatto che l’Italia abbia dovuto istituire un’Autority anticorruzione! Le risorse umane ed economiche dirette a realizzare progetti illeciti sottraggono sviluppo alle forze sane della società, ai giovani che si vedono preclusi spazi di lavoro, di programmazione, di investimento. La civiltà di un popolo si riconosce anche dalla capacità di isolare i corrotti, dal prendere la distanza dai corruttori, dal non giustificare (in nessun caso e per nessun motivo) tali metodi.
Papa Francesco sta promuovendo una nuova stagione di riscatto morale, una rinnovata trasparenza che dovrà impedire sotterfugi o manipolazioni a chi volesse utilizzare metodi che con il cristianesimo niente hanno a che vedere. Sappiamo bene che tale rivoluzione deve partire dalle nostre coscienze: è necessario promuovere l’etica personale e professionale, uno studio più assiduo dell’educazione civica, i progetti di legalità spesso enunciati ma non sempre concretizzati in azioni positive. La corruzione è come un cancro: contamina anche il tessuto sano della società, occorre estirparla una volta per tutte, comprendendo che non si tratta di essere più scaltri o del così fan tutti. Se non vi sarà una riprovazione sociale diffusa, prima o poi ci si abituerà alla corruzione o, peggio, la si tollererà come un processo ineluttabile. Sappiamo di non dover perdere la speranza, ma senza fatti concreti e atteggiamenti personali coraggiosi e intransigenti la rivoluzione morale non potrà compiersi. Il fingere che il problema riguardi sempre qualcuno lontano da noi non ci aiuterà a risolvere questa vera e propria emergenza: ribadiamo con forza il sistema dei diritti e non quello dei favori!

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L’ordinazione di don Marco Congiu

di Federico Murtas

Per la gioia della nostra chiesa locale, per la gioia del Vescovo, del presbiterio diocesano, del parroco, della comunità parrocchiale di Arbatax, il 27 settembre, don Marco Congiu è divenuto presbitero. Durante l’omelia il vescovo, riferendosi alle Letture della XXVI domenica, ha detto – tra l’altro – a don Marco: «Anche tu entri oggi tra coloro che Dio ha designato per servire il suo popolo; anche tu sarai costituito maestro nella fede e annunziatore del Vangelo; anche tu, mediante l’imposizione delle mie mani e la preghiera consacratoria, riceverei la grazia dello Spirito santo che ti conformerà a Cristo buon pastore; ma – ti prego – non considerarlo un monopolio: non avere per questo pretese di dominio e di potere; non chiuderti in una concezione elitaria e di identità chiusa; non stabilire chi può accedere al bene che è Gesù e chi no; non avere una mentalità settaria, che è un peccato contro lo Spirito; non cadere in un moralismo senza Vangelo; non pensare di avere l’esclusiva su tutti i valori e su tutta la salvezza. Sappi piuttosto meravigliarti di tutto ciò che di bello il Signore manifesta dentro e attorno a te, dei germi di bene, bontà, verità e giustizia che sono seminati anche fuori dal nostro campo».
Il vescovo ha anche augurato a don Marco che possa imparare a stare con i giovani, perché sono loro la speranza della Chiesa, aggiungendo che la missione sacerdotale non è una facile missione in questo tempo ed invitandolo a non scoraggiarsi, ma a confidare sempre e solo in Cristo sommo ed eterno sacerdote, e a conclusione dell’ omelia il vescovo ha letto le bellissime parole del Santo Curato d’Ars che esortano l’anima di ognuno di noi a lavorare e a legarsi fedelmente nel Signore. Durante il rito di consacrazione l’emozione e la gioia di don Marco erano molto simili all’emozione del vescovo che per la prima volta ordinava un presbitero. I presenti nonostante la pioggia non hanno ceduto un momento all’attenzione rivolta a quello che succedeva in quel presbiterio allestito nella piazza antistante la chiesa per questa importante celebrazione che tutti aspettavano da tempo per il figlio di questa comunità che ha scelto una strada cosi bella ma altrettanto impegnativa.

MAESTRA SPERANZA

Maestra Speranza. Cent’anni di giovinezza

di Paolo Pillonca

Lieve come una brezza di primavera, Speranza Aresu spalanca affettuosamente la porta della sua casa cagliaritana al numero 3 della via Pietro Leo, a Monte Urpinu, dove abita con la più giovane dei suoi cinque figli, Loredana, classe 1951, docente di lettere in pensione Come sua mamma, una stirpe di longevi fiorita a Seui in chissà quali lontane stagioni, come i lecci secolari della montagna (ce n’è uno enorme nel bosco di “Canali”, proclamato monumento vegetale, che nel 1265 – anno di nascita di Dante Alighieri – era già un albero adulto e ancora offre ghiande bellissime a beneficio dei branchi di cinghiali di cui abbonda l’intero territorio). A Seui Speranza Aresu, del resto, non ha mai smesso di pensare in cinquanta e più anni di lontananza. Un volo nostalgico tanto intenso e ricorrente da averla convinta a restaurare la casa paterna del rione Funtaniossu, un panorama mozzafiato. “Mio padre, ricordo benissimo, aveva rinunciato a vivere in un palazzo della via principale proprio perché non voleva perdersi la gioia quotidiana della bellezza del panorama, un regalo irrinunciabile”, rievoca la maestra Speranza. “Ma per il restauro della casa paesana dall’ampio cortile interno il merito maggiore non è mio ma di mia figlia Loredana. A ciascuno il suo”.
Nessuno le darebbe l’età veneranda conquistata senza intoppi di salute: l’anno scorso la signora ha superato con un sorriso il traguardo del secolo. Ora di anni ne ha cento e uno, portati alla grande. Oggi le consentono di uscire ogni giorno per la passeggiata verso la chiesa, consueta ormai da diversi decenni. Non solo, ma le garantiscono tuttora alla perfezione un’autonomia integrale nei movimenti domestici. Al telefono risponde sempre lei, come padrona di casa abituata a governare tutto con l’armonica sapienza tipica di ogni regista impeccabile.
E ricorda con un velo di tristezza temperata dalla lontananza del tempo un fratellino morto, Armando. “Non posso dimenticare le sue manine bianche e fredde. Mia madre ha avuto dodici figli, alcuni dei quali volati via prima che io nascessi, tranne uno morto di tifo a ventidue anni, Orazio”. Agli inizi del secolo scorso la mortalità infantile toccava percentuali alte anche nei paesi montani, come dicono le statistiche e racconta nelle sue memorie un altro grande personaggio di Seui: Demetrio Ballicu, il medico “storico” del centro minerario della Barbagia meridionale affidato alle sue cure per oltre quarant’anni. Una rimembranza diversa scolpita per sempre nel cuore della maestra supercentenaria di Seui riguarda la sorella maggiore, Elvira. “Mi rimproverava spesso per un nonnulla”, sorride nella narrazione, come avviene non di rado quando si evocano i ricordi poco piacevoli dei tempi lontani. “Fortunatamente, però, un’altra sorella, Peppina, aveva un carattere diverso e mi proteggeva”.
Le scuole elementari di Seui erano ospitate allora nel grande palazzo costruito alla fine dell’Ottocento con lastroni granitici estratti dalla cava di Fundu ’e corongiu, nelle vicinanze della miniera di antracite chiusa nei primi anni Sessanta. “La prima cosa che mi si ritorna alla memoria quando penso alla scuola di Seui è la campana annunciatrice dell’inizio delle lezioni: ci metteva in cuore una grande paura perché non era consentito il minimo ritardo e da casa mia al palazzone la strada era quasi tutta in salita ripida”. Per lei la scuola era una passione già da allora, in famiglia pensavano di farle proseguire gli studi a Cagliari. Una volta in città, però, le cose le apparvero subito molto differenti. “Il regime fascista si era impossessato del potere politico e lo esercitava brutalmente. Quello è stato anche per me un periodo nero, bruttissimo e doloroso. La scuola? Un ambiente classista. Con me c’era la figlia di un generale famoso. Non faccio nomi però quella mia compagna di scuola veniva trattata in modo del tutto diverso da noi comuni mortali. Ma io studiavo molto, facevo puntualmente i compiti e non mi presentavo mai impreparata alle interrogazioni. Dei miei insegnanti di quegli anni remoti ricordo con piacere soprattutto il professor Biddau, insegnante di matematica, la mia materia preferita. Era piuttosto trasandato nel vestiario ma come docente si distingueva su tutti. Lui era forse l’unico a non fare mai parzialità, si comportava sempre da uomo giusto. Proprio per questo lo ricordo ancora con grande affetto”. Dopo il diploma brillante, Speranza Aresu trova subito il posto di lavoro, una cattedra nella scuola elementare di Villagrande Strisàili. “Il paese era bellissimo e ospitale come la maggior parte dei centri ogliastrini”, premette. “Ma soffriva di un grave disagio, la mancanza di servizi igienici adeguati. Ho insegnato a Villagrande per due anni, poi ho studiato per il concorso magistrale”.
Uno scoglio assai difficile da superare, quello del concorso per un incarico a tempo indeterminato nella scuola, ma la maestra Speranza lo affronta con coraggio, sicura di essersi preparata a dovere. “Avevo studiato con due colleghi di Seui, Augusto Murgia e Totoni Piga. Il secondo sarebbe poi diventato mio marito, ma allora non eravamo nemmeno fidanzati”. Vinto il concorso, la maestrina ottiene il trasferimento a Seui. Qui la musica cambia e inevitabilmente i ricordi si affollano. “Conoscevo tutte le famiglie dei miei alunni e il mio lavoro era facilitato di molto, rispetto a Villagrande. Ma prima ancora, alla base di tutto, stava la mia grande passione per quel lavoro, componente primaria dell’attività di ogni insegnante. Se rinascessi rifarei la maestra, senza dubbio alcuno”.
Pian piano l’amicizia e la colleganza con Totoni Piga si trasformano in amore. Un sentimento contrastato, però. “Quando dissi a mio babbo che avrei sposato Totoni lui mi rispose: fai come vuoi ma se lo farai io smetterò di essere tuo padre. Il rifiuto aveva origine in una vecchia lite di babbo con il mio futuro suocero”. Il proclama paterno apparentemente ferreo, però, svanì prestissimo. “Il giorno dopo le nozze mio babbo ci invitò a casa sua a prendere il caffè”. A scuola le cose andavano benissimo. “Le mamme dei miei alunni si erano molto affezionate a me”. E anche nel paese le simpatie crescevano senza sosta: “Mi cercavano spesso come madrina di battesimo o cresima. Nel tempo lungo, tutte le mie figliocce quando mi annunciavano il loro fidanzamento ricevevano da me un asciugamani come buon auspicio per il corredo e per una felice vita di coppia. Il mio augurio era uguale per tutte: cantu tramas portat custu trabbagliu, tanti puntus de bona sorti tengias tui in sa vida (quante trame ha questo lavoro tanti momenti di buona fortuna possa avere tu nella vita)”. Il cucito e il ricamo sono altri due saperi della maestra Speranza Aresu Piga. “Mio padre sapeva fare due mestieri, il falegname e il muratore”, racconta. “Li esercitava entrambi con la stessa perizia. La casa di Seui oggi restaurata in modo eccellente da due muratori seuesi, Salvatore Meloni e Antonio Mura, era stata costruita da lui. Forse la buona manualità mi deriva dal ramo paterno”.
Speranza Aresu ha cinque figli, quattro femmine e un maschio: Paola, Laura, Ornella, Loredana e Sandro. Dice per tutti Loredana: “Con noi mamma è stata ed è sempre disponibile. La sua virtù di base mi sembra questa: in lei la capacità di dare è molto più forte di quella del ricevere. Inoltre mamma è un’ottima consigliera, propensa alla pace e all’armonia del vivere, nemica della guerra in tutte le sue manifestazioni, con armi e senz’armi. Altra dote di mamma: è molto caritatevole, la sua porta è stata sempre aperta a tutti i bisognosi di aiuto”. Lei ringrazia con un sorriso e il suo pensiero va al marito morto anzitempo, quel maestro Totoni inizialmente rifiutato dal suocero: “Mio marito era nato nel 1910 e quando è morto aveva soltanto 54 anni. La sua assenza ha pesato e pesa ancora molto in me”.
Fuori la giornata cagliaritana si avvia verso il tramonto del sole, i primi giorni del mese di ottobre non è stato prodigo di luce e forse non sarebbe piaciuto a Francesco Alziator, né ad Antonio Romagnino. A chi ha appena finito di ascoltare la maestra Speranza viene in mente una domanda non fatta alla signora: “Quante lunghe nevicate ha affrontato lei negli anni di insegnamento a Seui quando sotto la neve non sempre c’era il pane dell’antico detto proverbiale”?