In breve:

Fatti

Meningite

Meningite: vaccinarsi? Sì, ma senza panico

di Anna Mulas (pediatra).
Dalla fine di Dicembre 2017 a oggi, in Sardegna sono stati registrati otto casi di malattia invasiva, nota come meningite, attribuibili a meningococco, alcuni con esiti letali. Nello stesso periodo dell’anno scorso i casi registrati erano stati due. Ma vi è epidemia in atto? La risposta è semplice: si tratta solamente di una “epidemia mediatica”, in cui il patogeno, che si sta moltiplicando a dismisura, contagiando giornali e lettori, è la notizia giornalistica.
Cosa dicono i dati? Dal punto di vista scientifico ed epidemiologico, la diffusione delle malattie invasive (meningiti e/o sepsi) dovute al meningococco, in Italia, è di circa 200 casi l’anno, e certi cluster (si tratta di una concentrazione dei casi di tutto un anno magari in pochi mesi) non significano affatto epidemia. La malattia da meningococco non è dovuta a un singolo agente, ma è causata da una molteplicità di microrganismi diversi che appartengono a una stessa specie e sono in grado di causare una malattia dalle caratteristiche simili.
Si può parlare di epidemia solo se un unico ceppo di meningococco è il responsabile di tutti i casi che si verificano a cascata. I meningococchi interessati, pur appartenendo al sierogruppo B, fanno parte di tre ceppi diversi e dunque distinti tra loro. Appena si ha la segnalazione di un caso sospetto, il Servizio di Igiene pubblica del Dipartimento di prevenzione della Assl , entro 12 ore, si allerta e opera seguendo un preciso protocollo che è previsto dal Ministero della Sanità e che prevede l’accertamento diagnostico, l’inchiesta epidemiologica e le conseguenti misure gratuite di chemioprofilassi, entro 24 ore, e di vaccinoprofilassi sui contatti stretti e su alcuni altri contatti ritenuti a rischio, che siano stati vicini al soggetto malato nei dieci giorni precedenti la diagnosi.
Alcuni interventi preventivi possono ridurre i rischi di contagio (evitare stress fisici da stravizi, evitare luoghi sovraffollati, non usare bicchieri, bottiglie, sigarette e altri veicoli in modo promiscuo, ecc.) dato che la malattia si trasmette per via aerea con le goccioline emesse dalla bocca di un portatore del microrganismo e dato che i soggetti portatori sani vanno dal 5 al 30% della popolazione.
Considerato che tra i fattori di rischio della meningite da meningococco B, l’età riveste un ruolo particolare, e dato che la maggiore incidenza e gravità la si osserva nei primi mesi di vita, il Ministero della Sanità, con gli esperti che hanno stilato il calendario della vita, ha previsto di offrire gratuitamente la vaccinazione a tutti i nuovi nati dal primo gennaio 2017. Da questa data in poi tutti i bambini saranno coperti contro il meningococco B. Gli altri vaccini offerti gratuitamente, sempre in ambito di meningiti da meningococco, sono quelli contro il meningococco C previsto al 13° mese e quello contro i quattro meningococchi (C, A, W, Y) previsto per i ragazzi di 11 e 16 anni. Per le età per cui non è prevista la gratuità, è possibile la vaccinazione con la partecipazione alla spesa.
É importante non vivere in maniera angosciosa la mancanza di un vaccino per il meningococco B ora e subito per tutti. Sono necessari tempi tecnici che devono essere attesi con tranquillità. Ma è fondamentale che si capisca quanto i vaccini, tutti i vaccini del calendario della vita, siano ugualmente utili e importanti e che aderire al calendario delle vaccinazioni è la tappa di salute più importante a cui non dobbiamo mancare, il regalo più grande che si possa fare ai nostri figli.

Viticultori Jerzu

In vigna fra tradizione e innovazione

di Caudia Carta.
Pelau. A pochi chilometri dal mare. Eterna primavera. Un giovanotto jerzese, Massimiliano Loi, classe 1970.
Sterrassai. Quota 750 metri di altitudine. Sui Tacchi d’Ogliastra a dominare le alture, con lo sguardo che si perde lunga la vallata del Rio Sa Canna. Antonio Lai è del 1949 e non provate a dirgli che ha quasi settant’anni. Ad agosto spegnerà 69 candeline. Un anno è importante.
In comune? Per dirla con l’Angius/Casalis: «Vigne. Sono queste la principal sorgente del lucro di questi provinciali. Il sole opera sugli aprichi lor poggi con tutta sua virtù a maturare i succhi de’ grandi grappoli che incurvano i pampini; ed una semplicissima operazione dà i vini più pregevoli al commercio. […] La vigna prospera come ne’ luoghi più favorevoli. […] I vini riescono di ottima qualità e però se ne fa gran commercio co’ genovesi».
Due vite dedicate alla terra. Tempi e modi differenti. Generazioni diverse. Uvaggi diversi. Ma una costante da cui non si può prescindere: la qualità.
Massimiliano, laurea in ingegneria, docente di elettrotecnica. Un’azienda di circa sette ettari che, oltre al vigneto, mette in bella mostra frutteti, agrumeti e uliveti. Fiero di essere un agricoltore “in controtendenza”, come lui stesso si definisce: «Intanto perché – spiega – ho tre ettari di Vermentino e uno e mezzo di Cannonau e a Jerzu questo non è usuale. Ma anche per tutta una serie di motivazioni legate al mio modo di intendere il lavoro in vigna e, conseguentemente, di svolgerlo. A partire dal sistema di allevamento: io porto avanti quello del cordone speronato, quando quello Guyot va per la maggiore. Ho chiaramente l’impianto di irrigazione ovunque e, avendo inizialmente problemi di sovraproduzione, sono rimasto circa 7/8 anni senza concimare, poi ho ripreso».
Uno, in sostanza, a cui piace sperimentare: «Il mio vigneto non è arato, mi limito a trinciare l’erba. Ho notato che, con il tempo, si sta creando un consistente strato di terra nera e che il terreno sta diventando un buon terreno, il cui humus, attraverso questo procedimento, si autoalimenta. Si creano così tutta una serie di microrganismi che lavorano in simbiosi con la radice, garantendo benefici a tutta la pianta».
«Quassù – racconta per contro Antonio Lai – i buoi hanno lavorato fino agli anni Ottanta. Poi ci siamo affidati al trattore. Tutto il resto dei lavori è rigorosamente fatto a mano».
Nei tre ettari e mezzo di Sterrassai, la vigna c’è sempre stata. Giovanna Orrù, sposa di Antonio, anima energica e piglio imprenditoriale, è il cuore pulsante del vigneto più alto del territorio: «Mio padre era del 1918: la vigna l’ha sempre conosciuta lassù e suo padre raccontava la stessa cosa. E nonostante l’avessimo estirpata e reimpiantata, gli innesti, is marsas, sono stati fatti su quella stessa vigna. La pianta-madre, insomma, è quella».
Massimiliano osserva i filari nella tenuta di Antonio e ne rimane come rapito per l’ordine e la precisione. Eppure, in quel di Pelau, a spuntare ci pensa la cimatrice: «La macchina passa e taglia rasente sia di lato che nella parte superiore. Un grosso aiuto e un risparmio di tempo considerevole. Anche la potatura è meccanizzata mentre, a settembre, la vendemmiatrice svolge un lavoro incredibile, almeno per il Cannonau. Le uve da Vermentino le raccolgo a mano».
«Noi in confronto a te siamo una goccia nel mare!», gli risponde sorridendo Giovanna. Ma la loro è una scelta perfettamente consapevole: «Noi non siamo per la quantità – spiega Antonio –. Abbiamo una produzione che si attesta sugli ottanta quintali per ettaro. Ma parliamo di un prodotto qualitativamente eccellente. Se a luglio/agosto lo riteniamo opportuno, tagliamo l’uva in eccedenza, lasciandola a terra. Sembra assurdo, ma serve a far maturare bene quella che resta. Inoltre, non spuntiamo la pianta, ma ne attorcigliamo i tralci sul fil di ferro. Da qui l’effetto di ordine. Ma è anche un motivo legato alla maturazione stessa. Prus ndi portat de pàampinu, prus maturat beni! Infine le gemme: ne lasciamo massimo cinque, sono sufficienti a ottenere un prodotto ottimale. Siamo contrari anche all’impiego della vendemmiatrice: è vero che fa economizzare il tempo, ma è anche vero che nella pianta si annidano tanti animali; la macchina aspira tutto. Nelle ceste, invece, ci devono essere i grappoli e basta, possibilmente sistemati su un solo strato, senza pestarli. Non puoi conferire in Cantina uva sfasciata o in cattive condizioni».
Intendiamoci, anche per Massimiliano al primo posto viene la qualità: «Al centro c’è sempre la pianta. I risultati ottenuti sono frutto di scelte specifiche tenendo ben presente la salute del vitigno. I mezzi meccanici ti consentono di guadagnare tempo prezioso, ma la qualità è immutata. E, comunque, la scelta dei germogli è fatta a mano ed è giusto che lo faccia l’agricoltore. La scelta che faccio al momento della potatura, viene confermata quando è tempo di diradare i germogli. Così come sono favorevole all’impiego di prodotti naturali per la salvaguardia della pianta».
A Sterrassai solo solfato e zolfo in polvere, tutto a mano e «l’uva è perfetta». È interamente da queste uve che la Cantina sociale Antichi Poderi di Jerzu ricava il suo passito, Àkratos, ideale per accompagnare la degustazione di dolci. E nella vigna di Antonio e Giovanna arrivano gli esperti e gli studiosi di tutto il mondo; i documentaristi ne fanno oggetto dei loro filmati e cantine del calibro di Sella&Mosca vi effettuano le degustazioni ufficiali.
Nella lista dei desideri di Massimiliano, che si chiama Psr (Piano di sviluppo rurale), c’è la macchina per tirar via i tralci, la prepotatrice e quella che consente di eliminare i germogli dalle piantine, la spollonatrice. Burocrazia permettendo: «No ai contributi a pioggia – sottolinea con determinazione –, sì ai soldi dati per migliorare l’azienda: significa che ci tengo al mio progetto e vado avanti. Contributi mirati, denari che girano e che reinvesti».
Ha senso, oggi, investire sulla terra? «Certo, ma solo se hai voglia di farlo, se hai passione e se impari a farlo come si deve. Dipende da serietà e volontà, serve mentalità imprenditoriale e idea di azienda. La terra non va avvelenata: qualità e genuinità dei prodotti vengono al primo posto. Avere un hobby è una cosa. Essere agricoltori è un’altra.
Il parere è unanime, da Sterrassai a Pelau.

Campagna

Quando i conti non tornano

di Fabiana Carta.
O natura, o natura perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?”.
Per dirla con Leopardi, contro la forza distruttrice della natura l’uomo non può nulla. Gelate, alluvioni, grandinate, incendi e interminabili periodi di siccità hanno disegnato un quadro di crisi disperata per l’agricoltura in Sardegna, coinvolgendo proprio tutti: allevatori, cerealicoltori, ortofrutticoltori, nessuno escluso. Danni ingenti, produzioni dimezzate e costi di gestione raddoppiati per aziende e singoli imprenditori.
«Dopo un’annata pessima, caratterizzata dalle bizze del clima che hanno portato gelate in primavera e caldo in autunno, stiamo assistendo a un inizio del 2018 ancora peggiore: le temperature sono ben oltre la media stagionale e i livelli d’acqua presenti nei bacini di tutta l’Isola sono sempre più preoccupanti, anche alla luce della carenza di precipitazioni», come afferma il presidente della Coldiretti Nord Sardegna, Battista Cualbu.
Una visione tragica e scoraggiante, dove non si può dare la colpa solo alla natura. Oggi un agricoltore è senza prospettive, tra burocrazia incomprensibile e una politica quasi assente, le campagne sono in totale abbandono, non ci sono incrementi nelle vigne, né negli erbai e neanche nei frutteti. Per quale motivo dovrebbero spendere dei soldi per acquistare il seme, il concime, il gasolio a prezzo pieno, se non si ottiene un guadagno nel raccolto? Per continuare su questa linea, è inutile che un agricoltore decida di coltivare il grano se poi arrivano le navi cariche di farina dal Manitoba, così come è inutile che si coltivino i pomodori sardi se poi quelli cinesi invadono il mercato, o se poi arrivano le arance dalla Spagna a costi irrisori.
Queste politiche scorrette hanno portato ad una situazione di impoverimento generale, come mi confida un imprenditore agricolo ogliastrino: «È veramente scoraggiante per chi fa questo mestiere. Non ci sono abbastanza controlli e non si rispettano le regole, qualunque cosa si decida di fare ci stai perdendo perché la maggior parte dei prodotti arriva dall’estero: Turchia, Israele, Siria, Spagna, ecc. È impossibile fare concorrenza! Sono amareggiato, le piccole realtà stanno anche peggio delle grandi aziende, siamo carichi di vincoli».
Per esempio basta ricordarci che nell’oristanese è stato riscontrato un calo del 40 % nella produzione degli agrumi, settore fortemente in crisi più di altri. Per gli agrumicoltori, oltre al calo di produzione, è in caduta libera il prezzo pagato dai grossisti, un chilo di agrumi viene venduto a circa 40 centesimi. Poniamo il caso che un agricoltore decida di vendere il foraggio: chi lo acquista dovrebbe rifarsi delle spese vendendo la carne o il latte, ma sappiamo che i prezzi sono al ribasso dal 2016 col crollo fino al 50 %; nel frattempo però sono aumentate le spese del gasolio, dei concimi e dei medicinali. È il cane che si morde la coda.
Proviamo a pensare anche a quanti imprenditori hanno investito nell’acquisto di mezzi che poi hanno dovuto lasciare dentro un garage, come mi raccontano: «Era il 1984, quando decisi di comprarmi la mietitrebbia nuova: 100 milioni tondi tondi. Quei soldi avrei potuto investirli in un appartamento in paese, invece della mietitrebbia non mi è rimasto niente. Ho fatto in tempo a pagare l’ultima cambiale. Dall’89 non ho più seminato un chicco di grano».
Ricapitolando, tra calamità naturali, prezzo del latte basso, assenza di foraggio, ritardo nei vaccini, premi comunitari bloccati o forse no, proteste, riunioni e assemblee, nel settore agricolo regna il caos più totale e un malessere diffuso.

Altieri

L’Ogliastra nel cuore e nelle mani

di Anna Maria Piga.
L’Ogliastra nel cuore la terra nelle mani: sono i nuovi contadini, giovani laureati, diplomati e comunque con un profilo culturale di alto livello, che hanno deciso di dedicarsi all’agricoltura.
Hanno investito competenze, energie, capitali, sogni e speranze in una attività che ritengono fondamentale per uno sviluppo sostenibile, in un territorio che adeguatamente curato e valorizzato può garantire benessere e lavoro a molte persone.
Giorgio Altieri classe 1982, laurea magistrale in Sviluppo e Gestione Sostenibile del territorio, ossia Economia territoriale, sposato con la dottoressa Maria Pisano e padre di Gaia una bimba di quattro anni, è convinto che una agricoltura innovativa possa dare lavoro e un senso proprio all’esistenza, perché la terra restituisce i suoi frutti a chi si prende cura di lei.
Matteo Cuboni del 1980, un diploma di geometra e un’esperienza di autotrasportatore, con antenati proprietari terrieri e con una consuetudine estiva di lavoro in campagna e negli orti di famiglia.
Daniele Deplano nato nel 1986, il più giovane, laurea magistrale in Ingegneria civile, desideroso di mettere a frutto i suoi studi, confrontandosi con le tecniche avanzate per rendere più efficace e meno faticoso il lavoro manuale.
Tre giovani che hanno deciso di diventare imprenditori agricoli e per questo hanno costituito la “Società Agricola Radici d’Ogliastra”.
Radici d’Ogliastra – dice con orgoglio Giorgio Altieri – è una società agricola che nasce nel 2017 dal profondo amore di tre ragazzi per la propria terra, con l’intento di valorizzare le eccellenze agroalimentari.- Parla a nome di tutti- La nostra azienda opera nel cuore più verde della Sardegna, l’Ogliastra, dove la salubrità dell’ambiente e le sapienti tradizioni alimentari hanno creato un luogo unico, connotato dai più alti tassi di longevità e certificati dalla presenza della più importante Blue Zone del mondo.
Lavorare la terra, lavorare con la terra mette in gioco tutte le energie: le mani, il cuore la mente e attraverso la fatica si scopre il lavoro delle generazioni precedenti, si entra in contato con il mondo così come è senza mediazioni e il raccolto ha il valore delle nuove scoperte della fatica e del tempo impiegato per ottenere il prodotto finale.
È passione quella che anima i tre giovani; c’è la fatica ma anche il coraggio di aver osato. «Ci occupiamo di orticultura e di produzione di olio di oliva extravergine – prosegue Giorgio -, avendo la massima attenzione alla qualità dei nostri prodotti. Seguiamo rigidi disciplinari di produzione per offrire frutti della terra rispettosi dell’ambiente e della salute. Nelle nostre produzioni ci facciamo aiutare dalle api che instancabilmente impollinano le nostre colture migliorando i prodotti in maniera naturale».
L’offerta della società è diversificata: sono ottocento le piante di un uliveto sperimentale abbastanza giovane, in località Sèssula nelle campagne di Lanusei, che ha prodotto un olio di prima qualità, che ora viene venduto a prezzo di mercato, ma l’obiettivo, dopo aver ottenuto tutte le certificazioni di rito, è quello di riuscire ad imporsi nel mondo della ristorazione anche fuori dalla Sardegna per dare ragione all’alta qualità del prodotto. Ma l’idea sottesa alle attività della scorsa stagione estiva è stata la tutela e il rilancio dei culurgiones il piatto più famoso della cucina ogliastrina che ha ottenuto il marchio Igp (indicazione geograficamente protetta).
«Il nostro intento – è ancora Giorgio a parlare – è quello di realizzare una filiera a Km 0 per i culurgionis d’Ogliastra offrendo ai pastifici le patate e tutti gli altri prodotti della terra direttamente all’interno dell’areale di trasformazione. Questo proposito nasce per valorizzare e migliorare la qualità del prodotto identitario per eccellenza, che rappresenta L’Ogliastra in tutto il mondo».
Inoltre l’obiettivo, inconfessato, è anche quello di vanificare l’uso diffuso della fecola di patate per la produzione del culurgione, in maniera che tutta la produzione sia conforme al marchio IGP.
Per questo motivo si sono spesi in un’intensa ed estesa coltivazione di patate fra le specie più rinomate riscuotendo notevole gradimento nei consumatori.
Si dirà: ma allora dedicarsi all’agricoltura è un gioco, è tutto molto semplice coltivo-vendo- guadagno. Si può fare. No non è così semplice. I tre giovani nel progettare la loro impresa sono stati incoraggiati e convinti dalla bontà di un bando regionale del 2015 denominato Pacchetto giovani, il cui obiettivo era il ricambio generazionale in agricoltura. Erano disponibili 70 milioni per il primo anno destinati agli under 40 che fossero interessati. L’obiettivo era quello di valorizzare e sostenere un settore primario come l’agricoltura necessaria per vivere. Cosa semplice partecipare al bando, in fondo hanno studiato, tutto come richiesto, per la domanda e i documenti non ci sono problemi.
Nell’attesa di essere selezionati e usufruire dei fondi promessi si attivano per iniziare l’attività. Sostenuti dalle rispettive famiglie spendono, comprano gli strumenti basilari: un trattore, un furgone, il necessario per l’irrigazione dei campi e le sementi. E così arano, seminano, innaffiano, raccolgono e si attivano per le vendite, vendono tutto attraverso consegne a domicilio, nei banchetti agli incroci per il mare tutto in prima persona. Dei fondi regionali nessuna notizia, anzi si sa che sono bloccati a causa di un intoppo burocratico: manca una soluzione informatica che consenta di analizzare le domande di contributo. Nel mese di ottobre dell’anno appena trascorso, risolto l’ostacolo tecnologico si sa che delle 2.900 domande, due su tre sono state escluse. I finanziamenti arriveranno per i fortunati in primavera.
Matteo, Daniele e Giorgio forti delle loro professionalità e attrezzati dell’esperienza maturata anche se nel breve periodo di esercizio non intendono arrendersi, sono convinti della bontà della loro iniziativa imprenditoriale che si fonda anche su una scelta etica: preservare la natura da incursioni devastanti e far si che la terra l’aria e l’acqua e le altre risorse siano considerati un bene comune da tramandare alle generazioni future.

Gorilla

Is Carristas, tutti pazzi per il carnevale

di Marco Pisanu.
Le origini del Carnevale in Sardegna e non solo, sono strettamente legate alla cultura religiosa, in quanto collegate alla Pasqua, che cade sempre la prima domenica di Primavera, che è quella dopo la prima luna piena primaverile. Dalla domenica di Pasqua si contano a ritroso 6 settimane di cui 5 di Quaresima e da lì una settimana prima si ottiene la data di inizio del Carnevale. Anche se il legame alle antiche usanze cristiane è molto forte, tanto che lo troviamo anche nel nome Carnevale, dal latino carnem levare, che stava ad indicare il termine ultimo in cui era possibile mangiare carne prima dell’astinenza dovuta al periodo di Quaresima, in alcuni aspetti del cerimoniale tipico del Carnevale, ritroviamo anche echi delle feste pagane degli antichi romani, che ancora oggi si intrecciano nei diversi modi di festeggiare questa festa che, come da tradizione, rappresenta il rito liberatorio per eccellenza.
Nell’ex provincia più piccola d’Italia, tra i tanti comuni che hanno portato in piazza in un turbinio di musica e colori i cortei di carri allegorici e gruppi in maschera, c’è un paese, Bari Sardo, che da anni sta diventando sempre più punto di riferimento dei festeggiamenti del Carnevale. Anche quest’anno le sfilate di maschere e carri, uniti alla consueta pioggia di coriandoli e stelle filanti, hanno accompagnato le sfilate della 28’ edizione del “Carnevale Bariese”. L’evento, organizzato dall’associazione Is Carristasa in collaborazione con i commercianti e il patrocinio dell’amministrazione comunale, ha richiamato nel centro costiero migliaia di visitatori. Più di 2 mila i figuranti che nelle giornate di sabato 10, domenica 11 e martedì 13 febbraio hanno colorato le vie del centro, a partire dalla via Mare e via Cagliari, passando per la Piazza Repubblica e Corso Vittorio Emanuele. Ricchi come da tradizione gli ingredienti creativi che, uniti al rinomato estro artistico, gli ideatori dei carri hanno portato in piazza. Ironia e sarcasmo con qualche accenno anche agli ultimi fatti di attualità e della vita politica, regionale e nazionale. Ma a trionfare, nella personale gara delle rappresentazioni sceniche dei carristi, sono state come da consuetudine le proiezioni in carta pesta dei cartoni animati e delle saghe cinematografiche.
Una festa di colori e di emozioni. A Bari Sardo il Carnevale è questo, ma anche tanto altro. Tra tradizioni e trasgressioni, la festa più divertente dell’anno è per gli abitanti del centro costiero soprattutto un momento di visibilità e un motivo di aggregazione per l’intera comunità che, proprio con il Carnevale e la sua innata anima festaiola, ritrova la sua unità e manifesta la voglia di riemergere di un paese alle prese con tante problematiche economiche e sociali. Lo si scorge dagli occhi delle persone anziane che subito dopo aver preparato chili di zeppole e fatti fritti, affacciate al davanzale della propria finestra guardano compiaciuti i propri figli e nipoti fare festa. Lo si avverte dallo sguardo fiero e compiaciuto di chi, dal mese di dicembre, mette anima e corpo per organizzare l’evento. Lo si avverte dallo sguardo confuso dei bambini che si trovano a sfilare mascherati con altri “bambini” quarant’anni più grandi di loro. Perché, si sa, a Bari Sardo il Carnevale è come la vita, che a volte può non essere quella festa che tutti noi speriamo, ma una volta dentro bisogna pur sempre festeggiare.

Abito

Se anche l’abito fa il monaco

di Augusta Cabras.
Habitus/abito, habere/avere, abitudine, abitare. Nell’origine etimologica della parola abito il riferimento è al soggetto che possiede una determinata cosa, all’essere del soggetto in un determinato modo, all’abitare una situazione. E se il proverbio dice che l’abito non fa il monaco è anche vero che l’abito da sempre racconta qualcosa della persona e delle persone che lo indossano. Come segno di appartenenza o come espressione del proprio ruolo, pensiamo ad esempio alla toga del giudice o al paramento del sacerdote. Anche la storia delle nostre comunità è una prova di come l’abito non sia solo mezzo per nascondere la nudità del corpo o per proteggere, ma sia segno, espressione, linguaggio. Grazie agli abiti tradizionali indossati soprattutto dalle donne, ancora oggi, possiamo riconoscerne, ad esempio, la provenienza. La differenza del ricamo sul fazzoletto che copre il capo, la diversa lunghezza de sa fardetta, la plissettatura delle camicie, per un occhio mediamente esperto sono segni che distinguono un abito, tipico di un luogo, dall’altro. E se ancora resiste l’uso de sa fardetta, de sa camisa o blusa per le donne, per gli uomini si è uniformato tutto in modo più veloce. In alcune zone dell’Ogliastra, ad esempio, gli uomini portano ancora un bottone nero sulla giacca elegante, quale segno di vedovanza, o indossano sa berritta sulla testa, ma quasi tutti gli elementi dell’abito maschile nel corso del tempo hanno perso le connotazioni più antiche conservandosi esclusivamente per uso folkloristico.
L’abito quindi che racconta, vela o disvela. L’abito oltre la funzione fondamentale di coprire e proteggere; l’abito che rappresenta il segno di appartenenza a un gruppo e a una comunità, declinato nelle diverse forme, funzioni e colori. Se guardiamo alla realtà ogliastrina di quasi un secolo fa, magistralmente fotografata dal filologo friulano Ugo Pellis – trasferito in Sardegna negli anni compresi dal 1932 al 1935 per la stesura del celebre Atlante Linguistico Italiano – vediamo qualcosa che si è conservato nel tempo, almeno tra le persone più anziane, e qualcosa che invece si è perso per sempre.
In quelli scatti in bianco e nero, le donne appaiono con gonne lunghe che lasciano scoperta solo la caviglia, gonne sporche e impolverate dal lavoro quotidiano nei campi, dall’impegno con i tanti figli nel focolare domestico. L’abito per i giorni normali trascorsi in casa o nella campagna era generalmente composto oltre che dalla gonna, da una maglia raccolta dentro la gonna e da un fazzoletto che incorniciava il viso. Da questo si differenziava ovviamente quello delle feste, in particolare quello utilizzato per l’evento del fidanzamento e del matrimonio, confezionato su misura scegliendo tessuti di valore e colori speciali. Per un evento importante infatti, anche l’abito doveva acquistare importanza e doveva raccontare la stra-ordinarietà del momento, legato non solo a vicende personali ma comunitarie. È evidente come l’abito, nella sua forma e nel colore, così come i monili o altri segni, diventano importante veicolo d’espressione personale su cui la psicologia potrebbe veramente aver molto da spiegare.
Da bambina ricordo che negli armadi c’era sempre il vestito della domenica. L’abito che, forse per fattura, si differenziava dall’abito di tutti i giorni. Era anche quello un segno che distingueva l’ordinario dal festivo, segnava la differenza tra l’attività scolastica e di gioco all’aperto dalla partecipazione comunitaria alla messa dove davvero tutti indossavano il vestito della domenica. Mettersi addosso quell’abito diventava vestire un segno di festa, segnare la pausa dalla routine, predisporsi a un tempo breve ma gioioso. Ora anche questo aspetto si è quasi perso. Oggi la quantità di abiti prodotti e indossati, acquistati e buttati è enorme. Dal possedere il solo vestito per tutti i giorni e un vestito della domenica si è passati ad avere cataste di pantaloni, maglie, scarpe che raccontano di un consumismo senza regole, di omologazione, di un sistema che detta la moda del momento, impone il colore dell’anno, determinando in molti l’esigenza di abbandonare tutto l’abbigliamento dell’anno precedente perché dominato da un colore che sta all’opposto rispetto al colore del momento. La trasformazione del modo di vestire, di consumare gli oggetti, di acquistare anche in modo compulsivo cose obiettivamente inutili e inutilizzate è segno della trasformazione sociale e dello scorrere del tempo che tutto muta. Ma si sa, quello che chiamiamo progresso non porta con sé solo il buono.