Fatti
La formazione prima di tutto
di Maria Giuseppina Scanu.
Nelle giornate del 15, 16 e 17 marzo si è tenuta a Tortolì la formazione regionale per gli animatori del Progetto Policoro della Sardegna, una formazione che ha potuto godere anche delle bellezze della natura ogliastrina.
Sono stati dodici gli animatori provenienti da varie Diocesi che si sono dati appuntamento a metà marzo per questo importante momento di crescita e condivisione, insieme a diversi attori del progetto e relatori, quali il direttore della Caritas, della Pastorale Giovanile e la Cooperativa Amos.
La formazione riservata agli animatori ha visto l’uso di metodologie differenti, attraverso le quali i giovani animatori si sono misurati e confrontati, riflettendo sul tema della prossimità, che faceva da filo conduttore alle tre giornate.
Nel corso della prima giornata si è ragionato sul proprio ruolo di animatori all’interno del Progetto Policoro nei propri territori: un momento laboratoriale pensato sul confronto con le cosiddette Life skills (le competenze trasversali quali consapevolezza di sé, gestione delle emozioni, gestione dello stress, comunicazione efficace, relazioni efficaci, empatia, pensiero creativo, pensiero critico, prendere decisioni e risolvere problemi) e su come queste devono e possono essere incorporate nella vita quotidiana e nel proprio lavoro. Significativa la serata dedicata all’ascolto e alla lectio divina sulla lavanda dei piedi, tenuta da don Battista Mura che ha riservato una bella considerazione sulla figura di don Tonino Bello.
E con la lectio sul brano del buon samaritano, tenuta dal tutor del progetto, don Giorgio Cabras, ha avuto inizio la seconda giornata, durante la quale si è entrati nel vivo della formazione. Il gruppo, infatti, ha vissuto un’esperienza pratica di prossimità, con la visita dei terreni della fraternità curati dalla Cooperativa Amos, nei pressi de centro Caritas. Qui siamo stati accolti da Andrea Corrias, membro della Cooperativa ed ex animatore di comunità, e dai ragazzi e ragazze del Progetto Insieme, con i quali abbiamo piantato simbolicamente due alberi di ulivo in un bel momento di condivisione.
Il pomeriggio di formazione è proseguito lungo il sentiero che da Pedra Longa, a Baunei, porta alla spiaggia di Forrola: una camminata che si è fatta riflessione sulle parole della Laudato Sii, con un accento particolare e quanto mai attuale sulla fragilità del creato e sul ruolo fondamentale che l’uomo ha nella sua veste di corresponsabile della funzione creatrice e conservatrice dell’ambiente in cui vive. Prima di concludere la serata con la Messa nella parrocchia di San Nicola a Baunei, accolto da don Antonio Fanni, il gruppo ha fatto visita all’altopiano di Golgo e alla chiesetta di San Pietro.
La terza e ultima giornata è stata incentrata su un altro momento laboratoriale che, attraverso il gioco, ha cercato di dare concretezza al tema della prossimità. E se è vero che giocando si impara, è altrettanto vero che giocando si crea; nel nostro caso sono state gettate le basi per un progetto a base regionale, che grazie alla creatività degli animatori, una volta concluso potrà essere pubblicato.
Ora, la domanda è: perché una formazione così variegata?
Perché formazione, come dice la parola stessa, significa “dare forma all’azione”, è il luogo in cui si riflette, si rivisitano le azioni e le esperienze. Le ultime in particolare ci hanno permesso di acquisire nuove competenze, nuovi modi di indagare e incidere la realtà che si vive. La formazione non dev’essere vissuta semplicemente come l’insieme delle conoscenze e delle informazioni in un determinato settore specifico. Per il Progetto Policoro la formazione assume un significato più ampio: tocca la sfera relazionale, quella emotiva, la sfera professionale e spirituale. Il Progetto investe su questo in termini di denaro e professionalità, crede che l’animatore possa essere realtà di supporto al territorio e alle fragilità che incontra e che egli stesso debba essere accudito, accompagnato. Dunque formato.
Musica, liturgia e cori liturgici
di Tonino Loddo.
Che canti la Chiesa! Che canti sempre! Che canti, però, avendo ben in mente la memoria che vive, la Parola che proclama, il mistero che celebra.
Sui cori liturgici se ne sentono ormai di ogni genere, e nonostante sia il Concilio Vaticano II sia l’Ordinamento Generale del Messale Romano ne definiscano chiaramente ambiti e funzioni, tuttavia si fatica ancora a cogliere il senso vero della loro presenza nella liturgia. Ancora oggi, infatti, è possibile scorgere intorno ad essi e alla loro opera una serie di atteggiamenti preoccupanti, del tutto lontani dallo spirito liturgico della riforma conciliare. Tra essi ne citiamo alcuni. Il primo e peggiore è l’atteggiamento dei cori liturgici solo di nome, che cantano brani del tutto a casaccio, incuranti del momento e della circostanza liturgica. Il secondo atteggiamento è quello di chi proclama con la massima saccenteria che bisogna far cantare l’assemblea e che il coro deve solo sostenerne il canto. C’è poi, e all’incontrario, chi tende a esaltare il ruolo del coro impadronendosi di ogni parte cantata e lasciando completamente muta l’assemblea. Proviamo a fare chiarezza.
Partiamo da un primo e fondamentale principio: la musica, nella liturgia, non è un semplice accompagnamento o un ornamento; la liturgia, infatti, non si limita a offrire spazi per il canto e per la musica, ma si esprime e si costituisce essa stessa anche mediante il canto e la musica. Perché la vera musica liturgica è preghiera di lode per eccellenza ed è, perciò, essa stessa liturgia: non distrae, non si limita a dare un piacere estetico, ma aiuta l’assemblea nel raccoglimento, meglio introducendola nel mistero di Dio e conducendola quasi per mano alla riflessione, alla preghiera, all’adorazione.
La musica liturgica si pone, infatti, a servizio della Parola e del Pane spezzato e – insieme alle parole, ai simboli e ai gesti – aiuta i fedeli a gioire della Pasqua che si rinnova sull’altare. Come Mosè e gli israeliti, la Chiesa canta «in onore del Signore, perché ha mirabilmente trionfato» (Es. 15,1), e insieme ai quattro viventi e ai ventiquattro vegliardi, «canta un canto nuovo» quando all’Agnello viene consegnato il Libro dei sette sigilli (Ap 5, 8-9). Il canto della Chiesa è canto di risurrezione ed espressione dell’attesa di nuove terre e cieli nuovi. La Chiesa ha bisogno di cantare perché il solo parlare non sarebbe sufficiente alla sua preghiera; di più, essa non può fare proprio a meno di cantare: sarebbe come inibire la propria esultanza della salvezza, di cui la preziosa tradizione musicale che ha accumulato nei secoli è originale e orgogliosa manifestazione.
Nei secoli, questo cantare si è stabilizzato intorno a tre pilastri: il canto gregoriano, la polifonia e la musica d´organo. Quanto tutto questo in molte (molte, purtroppo!) assemblee liturgiche si sia dimenticato e continui a trascurarsi è cosa nota. Tenere saldi quei tre pilastri costa fatica, esige competenza, richiede tempo. Più facile zappare su qualche chitarra o percuotere tamburi occasionali, cantando musichette dozzinali e testi talora non alieni da veri e propri errori dottrinali. L’importante è cantare, perché altrimenti la Messa è brutta! Ancora più facile chiamare un coretto a tutto avvezzo fuorché alla liturgia che canta quel che capita, come capita (non sarebbe male, per evitare qualche scempio di troppo, istituire – come s’è fatto per i fotografi e come si dovrebbe magari fare per i fioristi – un albo diocesano che ne certifichi la competenza a cantare nelle liturgie…). Ma non è raro neppure incontrare taluno che, pressato dalle troppe incombenze quotidiane, chiede di limitare il canto, …per non allungare troppo!
Che, dunque, canti la Chiesa! Che canti sempre! Che canti, però, avendo ben in mente la memoria che vive, la Parola che proclama, il mistero che celebra. In questa visione, la Schola può essere validamente di aiuto all’Assemblea, essendo suo «il compito di eseguire le parti che le sono proprie, secondo i vari generi di canto, e [di] promuovere la partecipazione attiva dei fedeli nel canto» (Ordinamento, 103). Infatti, la Schola talvolta canta con l’Assemblea, talvolta in dialogo con l’Assemblea e talvolta per l’Assemblea, come esplicitamente è detto nella parte III del cap. secondo dello stesso Ordinamento (§§ 46-90), che indica analiticamente quando e come il canto vada eseguito: alternativamente dalla Schola e dall’Assemblea, o dal cantore e dall’Assemblea, oppure tutto quanto dal popolo o dalla sola Schola; paragrafi che bisognerebbe almeno rileggere (se non proprio leggere). Spesso si ignora che il canto della Schola è frutto di un lungo lavoro; e sarebbe assai bello se i responsabili della pastorale si rendessero conto del grande servizio che rende a tutta la comunità parrocchiale.
Il canto liturgico
“Un ruolo significativo nella liturgia è rivestito dal canto. A cosa esso sia finalizzato ce lo dice chiaramente il Concilio Vaticano II: «Il fine della Musica Sacra è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli» (Sacrosanctum Concilium, 112). E che essa serva a lodare Dio ci è molto naturale e istintivo capirlo, forse più difficile ci riesce di capire in che misura essa possa servire alla «santificazione dei fedeli». Ma anche questo ci risulterà più facile, se appena pensiamo che la musica che usiamo nella Liturgia non deve e non può essere casuale, ma deve partire dalla particolare Liturgia in cui è inserita. Essa, esattamente come la Parola e i Segni, deve essere coerente con quello che la Liturgia sta esprimendo in quel momento.
E questo concetto vale per ogni celebrazione, sia che si tratti di una Liturgia della Parola, di una Liturgia Penitenziale o di un momento di preghiera. E soprattutto vale per la Liturgia Eucaristica, in cui Dio si fa uomo in Cristo non per umanizzare se stesso, ma per divinizzare l’uomo. E la musica liturgica, di conseguenza, deve riuscire a far presente e vivo questo concetto. In definitiva, ora, è facile capire cosa sia la musica nella Liturgia: non è colonna sonora, non è riempimento, non è esibizione del singolo o del coro. È Parola fatta musica. Perciò, si abbia grande attenzione nella scelta dei canti che si eseguono, che devono sempre essere adatti al tempo e al momento liturgico che si sta vivendo. Sia sobria l’esecuzione e sia dato – ove le circostanze lo permettano – uno spazio significativo all’utilizzo dell’organo, strumento musicale per eccellenza della Chiesa, «il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti» (Sacrosanctum Concilium, 120)”.
(dalla Lettera Pastorale Sul carro con Filippo del vescovo Antonello)
Tecnologie digitali tra opportunità e rischi
di Augusta Cabras.
Un incontro di teologia, quello di fine gennaio nel seminario vescovile di Lanusei, più che mai attuale ha visto come relatore Marco Deriu, docente dell’Università Cattolica. Significativo il tema della serata: “Gli educatori e nuovi media. Opportunità e rischi delle tecnologie digitali”.
Lo ha sentito, per la redazione, Augusta Cabras.
Prof. Deriu, in ambito educativo la tecnologia ha più opportunità o più rischi?
Opportunità. Senza dubbio. Come in tutte le cose, il rischio è collegato all’abuso o al cattivo uso. La tecnologia, che è pur sempre un insieme di strumenti creati dall’uomo per l’uomo, di per sé ha potenzialità positive. In ambito educativo ancora di più. Io sono padre di due figli di 18 e 16 anni che sono spesso attaccati ai nuovi mezzi tecnologici. Educarli a non usarli è impossibile. Bisogna educare a usarli bene, in maniera intelligente.
Tra le varie opportunità a cui fa riferimento, quale riconosce tra le più importanti?
La più importante, secondo me, è quella legata alla possibilità di costruire e mantenere delle relazioni. I mezzi di comunicazione, finché sono dei mezzi appunto e non dei fini, ci aiutano in questo. Il rischio, in questi casi, è che si entri in contatto solo attraverso il telefonino. Ma se questo aiuta a mantenere le relazioni che la distanza sfavorisce o non facilita è positivo. Facebook stesso nasce come una sorta di annuario scolastico che aiuta i vecchi compagni che si sono persi di vista a ritrovarsi. Un altro elemento è sicuramente l’immediatezza della disponibilità di contenuti, che soprattutto per i ragazzi è una ricchezza. Uno dei rischi, rispetto a queste opportunità può essere il fatto che, poiché la rete è un mare in cui si trova di tutto, bisogna imparare a discernere i contenuti. Se prima eravamo abituati al libro come fonte primaria di conoscenza o al giornale, che ha un ordine, ora nella rete non c’è un ordine, c’è l’ipertesto. La difficoltà, l’impegno e la sfida è quello di imparare a orientarsi dentro questo mare magnum.
Chi ci aiuta in questo?
Intanto la nostra coscienza con i punti saldi valoriali: giusto/sbagliato, utile/inutile, necessario/superfluo e, se parliamo di educazione, sicuramente l’esempio.
La sfida è educativa. Quali sono i modi per poter educare all’uso corretto e consapevole della tecnologia?
Il punto di partenza è quello di ricordare a noi adulti, prima ancora che ai ragazzi, che gli strumenti della tecnologia sono strumenti e non fini o obiettivi. Posto questo, io penso che si debba avere il coraggio di disciplinare questo uso. Ad esempio dare ai ragazzi dei tempi per il loro utilizzo. Faccio un paragone con il cibo. Il cibo buono fa bene, il cibo cattivo fa male, ma se abuso del cibo buono non mi fa bene, quindi bisogna educarci ed educare a utilizzare questi strumenti in maniera consapevole e responsabile. Io penso che se in famiglia, nel gruppo degli amici, in parrocchia, ecc., c’è una tenuta sociale, una relazionalità già buona, la comunicazione attraverso i media digitali non va a intaccarla ma la arricchisce. L’educazione è sul versante della integrazione di questi mezzi in relazioni già esistenti. Questi strumenti vanno usati non per isolarci, ma per connetterci.
I genitori e gli educatori sono pronti ad affrontare questa sfida?
Sì e no. A volte si tende a polarizzare per estremi: genitori che pensano che non ci sia bisogno di porsi questo problema e genitori che invece hanno molta paura di quanto male questi strumenti possano fare ai ragazzi. Secondo me, per noi adulti serve un po’ più di competenza; prima di dire a mio figlio: «Sei tante ore su Facebook, ora basta!», vediamo cosa è Facebook, conosciamo, cerchiamo di capire. La conoscenza maggiore ci rassicura e ci aiuta a interagire con i ragazzi.
C’è un limite di età sotto il quale è meglio non affidare la tecnologia?
Da genitore e da persona che si interessa a questo mondo dico ciò che io ho fatto con i miei figli. Loro hanno avuto il telefonino per la prima volta al primo anno del liceo. Ma non è raro che ce lo abbiamo anche i ragazzini delle medie o addirittura alle elementari, ma è decisamente troppo presto. Il telefonino può diventare un guinzaglio elettronico che serve a genitori ansiosi per tenere buoni i figli o per poterli meglio controllare o proteggere («qualsiasi cosa succeda chiamami!»). Questo è un grande rischio.
Quali sono le opportunità nell’ambito della scuola?
Ora tutte le scuole hanno la lavagna interattiva, multimediale, hanno una serie di contenuti digitali interessanti e importanti, così come pure la possibilità di visualizzare immagini, che possono arricchire la conoscenza. La conoscenza è certamente più immediata e i ragazzi possono attingere da una quantità enorme di contenuti.
C’è il rischio che questa immediatezza, unita alla mancata fatica della ricerca e dell’apprendimento renda la nostra memoria troppo breve?
Quello di cui noi fruiamo con la tecnologia passa molto velocemente. Per esempio, noi a scuola studiavamo tantissime poesie a memoria, ora non più. Si studiavano le tabelline mentre ora è consentito l’uso della calcolatrice; per muoverci in città usavamo le mappe ma poi ci ricordavamo il tragitto, mentre ora senza il navigatore ci perdiamo. Tanto più facilmente io trovo il contenuto che mi serve e posso tenerlo in memoria su un dispositivo tanto meno faccio la fatica di ricordarmelo. Però questo vale per la nostra generazione, meno per i nativi digitali, che penso riescano meglio a mettere insieme le due cose. È però chiaro che la memoria vada esercitata.
È reale il rischio che tra qualche secolo di noi non si sappia nulla, se usiamo solo la tecnologia?
Io sono convinto che la scrittura tradizionale sia ancora la forma migliore di conservazione e trasmissione della parola e del testo. Le memorie elettroniche e digitali dopo un po’ cambiano; pensiamo alle musicassette che ormai non si leggono più. Il digitale cambia continuamente; tra un po’ anche i Cd non si leggeranno più, mentre un libro si leggerà sempre.
Dove ci porterà la tecnologia?
C’è chi dice che a un certo punto il sistema collasserà e si tornerà indietro, ma io non credo che avverrà questo. Secondo me saremo sempre più interconnessi.
Scheda biografica.
Marco Deriu, originario della Sardegna, è sposato e padre di due figli.
Laureato in Lettere con indirizzo specialistico in Comunicazioni di massa, giornalista, si occupa professionalmente di informazione, comunicazione, relazioni istituzionali e Media Education.
Docente di Teoria e tecnica delle comunicazioni di massa e di Etica e deontologia dell’informazione all’Università Cattolica, collabora con varie testate e tiene incontri e seminari sul proficuo utilizzo dei media, vecchi e nuovi, a cui ha dedicato numerosi saggi e pubblicazioni.
“Mai più violate”. L’Ogliastra al fianco delle vittime di violenza
di Augusta Cabras.
Per meglio comprendere l’incidenza del fenomeno relativo alla violenza di genere in Ogliastra e le sue specificità, abbiamo sentito Anna Lisa Lai, assistente sociale, presidente del Centro antiviolenza “Mai più Violate” di Tortolì e commissaria regionale per le Pari Opportunità.
Come nasce l’Associazione e il Centro Antiviolenza “Mai più Violate”?
L’associazione FiguraSfondo-Onlus è stata istituita il 06 Giugno del 2012 per volontà di tre amiche impegnate a diverso titolo nel sociale. L’esperienza professionale aveva portato ognuna di noi a contatto con le donne vittime di violenza. Più volte, confrontandoci su questa problematica, avevamo condiviso la necessità di una collaborazione delle figure professionali che, a diverso titolo, sostengono la donna nel processo di affrancamento dalla violenza. Consapevoli di ciò, unendo le nostre professionalità in ambito sociale, psicologico e legale, il 14 agosto 2012 abbiamo aperto a Tortolì il Centro Antiviolenza Mai più Violate. Nel Centro, da più di sei anni, operano un’assistente sociale, una psicologa-psicoterapeuta e una avvocata offrendo gratuitamente, a tutte le donne vittime di violenza, supporto psicologico, consulenza sociale e legale, in un ambiente che garantisce anonimato e riservatezza, nonché la segretezza sul contenuto delle conversazioni.
Quando si parla di violenza sulle donne, forse il primo pensiero va alla violenza fisica. È davvero questa l’emergenza o la violenza si manifesta sempre in una forma che è più psicologica che fisica?
La violenza psicologica è sempre presente nella violenza di genere. Nel tempo, intacca le risorse della donna; agisce in modo da eroderle. Il risultato è un cambiamento nella rappresentazione e percezione di sé: la capacità di riconoscere i propri bisogni, di definire se stessa, di avere fiducia in sé e nell’ambiente, viene meno. Si attua attraverso un’opera costante di denigrazione, dileggio, insulto, umiliazione, minaccia. La squalifica, il disprezzo, possono essere espressi anche in modo più sottile, non esplicito, senza ricorrere a toni o parole che restituiscono in modo diretto l’offesa. Il maltrattante comunica anche attraverso il silenzio; ignorando la partner; non offrendo ascolto e attenzione a quanto lei dice, piuttosto che negando quanto affermato e ponendone costantemente in dubbio i ricordi; rimandandole l’immagine di un Ambiente indifferente ai suoi bisogni.
Rispetto al passato c’è maggiore consapevolezza nelle donne? Prima di chiedere aiuto passa molto tempo?
Il fatto che della violenza di genere se ne parli, si pongano in atto azioni di prevenzione, rappresenta un aiuto alla presa di coscienza, da parte delle donne e, quindi, si possano avere maggiori strumenti per riconoscerla. Nell’esperienza del Centro Antiviolenza Mai più Violate si è osservato che la consapevolezza non sempre è sufficiente a formulare una richiesta d’aiuto. Nella maggior parte dei casi trascorrono anni prima che la donna vittima di violenza decida di chiedere un sostegno e affrancarsi da un contesto maltrattante.
Chi si rivolge a voi cosa chiede concretamente?
Le donne che si rivolgono al Centro Antiviolenza hanno bisogno anzitutto di essere accolte in un contesto non giudicante, anonimo e riservato in cui essere ascoltate. Necessitano di un percorso psicologico, spesso di una consulenza sociale e legale. Colei che subisce violenza vive in una condizione di paura e isolamento. Spesso è costretta ad affrontare la sua condizione vessatoria in solitudine, non avendo il supporto dell’ambiente familiare e sociale o avendo il timore di esprimere la propria richiesta di aiuto. Alle operatrici fa una richiesta implicita e fondamentale: potersi fidare e affidare. Nel Centro trovano accoglienza le loro emozioni, il loro vissuto, la possibilità di intraprendere un cambiamento, sicure che le operatrici saranno al loro fianco durante questo lungo percorso per ritrovare una condizione di benessere.
Il percorso di liberazione dalla violenza è lungo e pieno di difficoltà. Puoi dirci qualcosa? Ci sono elementi che accomunano le storie?
Affrancarsi da un contesto maltrattante significa intraprendere un percorso di cambiamento. Non vivere più la quotidianità con il maltrattante non genera una condizione di benessere. L’esperienza a contatto con le donne vittime di violenza ci ha insegnato quanto sia delicata la fase di separazione dal partner violento (la maggior delle violenze avviene in ambito domestico). Il maltrattante, infatti, continua a porre in essere condotte vessatori: minacce, atteggiamenti persecutori, minimizzazione fino alla negazione delle violenze agite. Viceversa può cercare di offrire di sé l’immagine di una persona che si è ravveduta, che promette di cambiare. In realtà, quest’ultima è solo una strategia per riprendere il contatto con la partner e tentare di convincerla a ritornare sulla sua decisione e continuare la relazione. Le donne vittime di violenza, quindi, si devono confrontare con un uomo che continua a generare paura, che le tormenta, oltre a dover fare i conti con un vissuto che le ha poste in una condizione di rassegnazione, tristezza, dolore, un’alterata percezione di sé. Devono intraprendere un’esperienza di riscoperta e riconoscimento della loro persona e del loro valore.
Vuoi dirci qualcosa sulla violenza assistita?
La violenza assistita compromette il benessere psico-fisico del minore. Ha dei riflessi sulla possibilità di una crescita serena ed equilibrata. È importante che le donne prendano consapevolezza che vivere in un contesto dove il padre maltratta la madre genera nel proprio figlio uno stato di profondo malessere. I figli sono attenti osservatori delle dinamiche familiari; sono molto ricettivi e hanno un loro modo di esprimere il disagio. Il dolore sentito potrebbe non apparire, agli occhi del genitore, così manifesto. Osservare e ascoltare i propri figli, offrire accoglienza e attenzione al modo con il quale comunicano; stare in contatto con le loro emozioni e con i loro silenzi, è una competenza genitoriale importante. L’ascolto partecipe e attento non deve essere mai trascurato. I bambini che vivono la quotidianità di un ambiente maltrattante non sono sereni; possono fingere, simulare una tranquillità che in realtà non gli appartiene.
Le operatrici rispondono al numero 345 0724180 e all’indirizzo mail: centroantiviolenza2012@gmail.com
Nel 2015 il “Centro Antiviolenza Mai più Violate” è entrato a far parte della mappatura del numero di pubblica utilità 1522.
Il 22 settembre 2018 è stato sottoscritto un importante “Protocollo d’Intesa per la promozione di strategie condivise finalizzate alla prevenzione e al contrasto del fenomeno della violenza di Genere” tra il Centro Antiviolenza “Mai Più Violate”, la Procura di Lanusei, la Caritas, le Forze dell’Ordine e l’Unione dei comuni del Nord Ogliastra.
Con gli occhi dei ragazzi
Gli studenti del Liceo Artistico di Lanusei.
Il tema della violenza di genere è spesso ricordato solo per i fatti di cronaca, ma è giusto che i giovani affrontino il problema della quotidianità del fenomeno. Per questo a scuola si tende ad affrontare spesso l’argomento. Proprio in occasione di un tema, due giovani alunni della classe terza di un istituto superiore di Lanusei si sono confrontati e hanno espresso il loro pensiero al riguardo.
Eric Ramos disamina dati allarmanti: «Secondo l’Istat, il 31,5 % delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale (6 milioni e 788mila donne) e purtroppo sono dati recenti». Roberta Sioni commenta così: «Le donne vittime di violenza spesso preferiscono subire piuttosto che denunciare, forse perché si ha paura che chi usa violenza nei loro confronti possa poi fare di peggio, o forse per tenere unita la famiglia o semplicemente perché non si riesce a lasciare il proprio partner neanche dopo tutto il male che provoca. A volte non arrivano alla denuncia anche perché pensano e sperano che il partner possa cambiare, ma raramente questo accade e spesso, andando avanti col tempo, la violenza si tramuta in omicidio o suicidio, dal momento che molte donne, non avendo il coraggio di mettere fine a una situazione così drammatica, preferiscono togliersi la vita. Nei telegiornali non sentiamo tanto parlare di questo tema se non quando si verifica un femminicidio o se ne sente parlare solo il 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne. In questa occasione tutti sottolineano quanto sia importante la sensibilizzazione, ma già dal giorno dopo quasi ci si dimentica della gravità della situazione e cade il silenzio su un problema di grande portata. È ridicolo anche solo pensare di compiere una violenza, fisica o psicologica, su una donna perché la si ritiene qualcosa di proprietà o la si usa come un oggetto che vale poco e niente; ancora più ridicolo è chi giustifica tale violenza dicendo, per esempio, che la vittima “poteva evitarlo vestendosi meno scollata o con una gonna più lunga”, come se fosse normale che una donna si meriti tutto ciò solo per come si veste o perché fa ciò che le piace».
Eric invece affronta il problema da un’altra prospettiva e continua: «Penso che il punto fondamentale sia l’educazione, un processo che potrebbe diminuire drasticamente questa piaga. Per far ciò avremmo bisogno di una politica che funzionasse adeguatamente. Ad esempio, se dalle nostre istituzioni si proponesse una campagna di sensibilizzazione su temi analoghi a partire dalle scuole elementari e medie le cose forse andrebbero meglio. Penso che l’istruzione sia effettivamente l’unica soluzione contro il problema dell’ignoranza, poiché solo attraverso la scuola e grazie a una società che informa e riesce ad avere persone che capiscono, i dati sopra riportati calerebbero drasticamente. Troppo spesso sentiamo dell’ennesimo caso di femminicidio, stupro o violenza da parte di un ex che non accetta la fine della relazione, provando un senso di rabbia nel non poter più possedere la propria donna, come una marionetta di cui muovere i fili. Un qualsiasi uomo nato in un contesto con valori distorti – in cui la donna ha un ruolo prettamente relegato a quello della casalinga che non può avere una vita oltre alle quattro mura domestiche – spesso è portato a pensare che la donna dovrebbe essere punita per avergli mancato di rispetto. Ognuno di noi è il risultato della società in cui è nasce, se vogliamo che le persone cambino la mentalità retrograda dobbiamo partire dall’educazione. Che si tratti di razzismo, omofobia, o appunto di femminicidio, è necessario battersi affinché noi così come le generazioni future siano libere di scegliere di vivere la propria vita al meglio, secondo i propri desideri, poiché la libertà è uno dei doni più preziosi che possediamo e non possiamo permetterci di svenderla».
Il coraggio di restare
di Francesca Melis.
Esterzili, come tutta la Sardegna, ha delle enormi potenzialità, è un paese che potrebbe avere grandi opportunità per quello che è in grado di offrire.
Ma c’è qualcosa che manca a questa gente, umile e riservata. Uomini e donne capaci di darti cuore e anima, ospitali fino al midollo, ma ai quali mancano lo spirito giusto e l’intraprendenza per mettersi in gioco nel proprio paese per farlo crescere e fargli fare quel salto di qualità.
Da diversi anni a questa parte sono più le morti che le nascite. Sono più i giovani che vanno di quelli che restano. Sono più quelli che si sono arresi di quelli che invece hanno veramente voglia di fare.
Ma le mosche bianche esistono dappertutto. E, anche in questo piccolo paese ai piedi del monte Santa Vittoria, c’è chi ha voglia di fare e si mette continuamente in gioco per mantenere vive le tradizioni. Come i ragazzi della Pro Loco e del gruppo Folk, i quali non perdono occasione per animare Esterzili con manifestazioni ed eventi che richiamano gli usi e i costumi locali.
Ragazzi che studiano o lavorano fuori, ma che ogni fine settimana tornano a casa e che dedicano al paese e ai suoi abitanti, con entusiasmo e passione, il loro tempo libero. Sono giovani che non hanno perso la speranza. La speranza di migliorarsi e di migliorare.
Ragazzi e ragazze che hanno voglia di mettersi in gioco, senza secondi fini, ma solo per l’incondizionato amore che provano verso la terra che li ha allevati e visti crescere.
Poi ci sono quei giovani un po’ più cresciuti, che vivono a Esterzili e che, spinti dalla passione per il canto, hanno dato vita ad un coro locale. Elegante e raffinato, il coro Fra Antonio Maria da Esterzili è un vero e proprio fiore all’occhiello per la comunità.
Al contrario però, mette tristezza l’assenza di una squadra di calcio, la paura di fare sacrifici per mantenerla viva e attiva. Sono ormai lontani quei ricordi da bambina, quando alle 15 la domenica l’appuntamento era a Taccu per vedere giocare l’Esterzilese, che aveva la fortuna di avere un grande seguito. Indescrivibili i “derby” con il Sadali, per il pathos e l’euforia con cui si assisteva al match.
Le associazioni nascono con l’intento di creare aggregazione e divertimento, attimi di svago e spensieratezza, ma da sole non bastano, non possono.
Occorrerebbe un maggiore investimento sulle peculiarità di Esterzili, bisognerebbe lavorare sui giovani, su quelli che hanno avuto il coraggio di restare o che, perché no, vorrebbero tornare. È necessario investire sui servizi e focalizzare l’attenzione su quello che può offrire Esterzili.
Rispetto a questo l’impegno maggiore spetterebbe alle istituzioni. L’amministrazione guidata dalla compianta Gianna Melis ci aveva visto lungo: ha, infatti, nel cassetto diversi progetti inerenti lo sviluppo turistico del territorio. E speriamo che, chi a maggio aprirà quel cassetto, sappia far tesoro del contenuto.
Abbiamo un patrimonio inestimabile con i numerosi siti archeologici, i murales, le tradizioni orali, le chiese. Sì, perché questo piccolo paesello della Barbagia di Seulo potrebbe alimentarsi di turismo e cultura. Bisogna solo crederci e avere il coraggio di mettersi in gioco. Lo stesso coraggio che hanno avuto coloro, giovani e meno giovani, di tornare a Esterzili per investirvi la propria professionalità.
È il caso di Anna Melis, esterzilese trapiantata a Cagliari, che attraverso la cooperativa sociale Vela Blu, ha aperto, diversi anni fa, una comunità per minori, grazie alla quale oltretutto le scuole resistono ancora oggi. O ancora è il caso di Tore Loi, ragazzo di 34 anni che due anni fa, ha deciso di lasciare il caos della città per aprire una macelleria a Esterzili. Oppure c’è chi ha voluto, dopo gli studi, dedicarsi all’allevamento e all’agricoltura facendo sì che i terreni di famiglia non restassero incolti e abbandonati.
Lo stesso coraggio che hanno avuto quei genitori che, oggi, hanno deciso di far crescere i propri figli nella genuinità e tranquillità di un piccolo paese, facendo loro sacrifici per portarli a fare sport e attività altrove, con la consapevolezza che le strade non sono loro alleate.
Ma d’altronde si sa, ci vuole più coraggio a restare e lottare, invece di andar via.
Occorre far di più. Far di più affinché il paese viva e non muoia precocemente. Bisogna lavorare tutti insieme per far sentire la propria voce ai piani alti. È necessario creare una rete di comunicazione e sinergia con i paesi limitrofi, operare insieme per arginare le problematiche e per valorizzare il territorio. Occorre dialogare e tendersi la mano, ideare e mettere in pratica progetti di sviluppo. Occorre non essere invidiosi, ma orgogliosi se il giardino del nostro vicino fiorisce come il nostro. Ma, soprattutto, bisogna amare senza riserve il proprio paese, tenervi le radici ben salde. È necessario crederci e non arrendersi, incoraggiare i più giovani, e imparare a fidarci di loro, perché sono loro il nostro futuro.