In breve:

Fatti

Facebook

#indueparole

di Giacomo Serreli.
Giusto un anno fa la strage con 49 vittime in due moschee in Nuova Zelanda: filmata e trasmessa in diretta su Facebook dal suo autore. E lì quel filmato era rimasto per 17 minuti prima che venisse rimosso. Un tempo infinito per la velocità di condivisione nei social, al punto che in 24 ore quel filmato era stato caricato un milione e mezzo di volte.
È stato uno degli orribili apici di quella divulgazione di ideologie di odio e violenza che ormai ci circonda.
Parole come pietre, si dice, che viaggiano incontrollate specie su quei mezzi di comunicazione figli delle moderne tecnologie nell’era di Internet e della socialità virtuale. E quotidianamente attraverso i social sono soprattutto i giovani a esserne investiti.
L’ “hate speech”, il linguaggio dell’odio, è sempre più tra noi ma i ragazzi, i maggiori utenti dei social, quasi non lo avvertono come un problema, non percependo la differenza tra quel tipo di linguaggio e i discorsi basati sul rispetto. E il mondo della politica sembra adattarsi irresponsabilmente a quel linguaggio violento, che calpesta i più elementari principi del rispetto dell’altro. Anche il recente convegno promosso a Roma da Civiltà Cattolica e Articolo 21 è tornato su quest’uso pericolosamente improprio delle parole, in una fase in cui ci si avvia quasi a una normalizzazione dell’odio.
È il momento di arginare questo imbarbarimento che incide anche sul fare informazione.
Non vanno dimenticati allora i principi sanciti poco meno di un anno fa dalla Carta d’Assisi, rivolta non solo a giornalisti e operatori della comunicazione, ma a tutti i cittadini perché nello scrivere, nel commentare, nell’informare abbiano un approccio dettato dalla correttezza e dal rispetto.
Li faccio miei anch’io che pure non sto nei social, ignoro cosa sia ritagliarsi un profilo su Facebook o fissare ogni momento della quotidianità personale, anche la più banale, su Instagram. A molti apparirà una posizione anacronisticamente demonizzante perché mi priva anche di un utilizzo virtuoso che i social possono comunque offrire. Ma starne fuori mi sembra sia stato l’unico antidoto a linguaggi violenti e fakenews che da quelle parti paiono sempre più tollerate.

Crisponi

Malattie rare: si deve fare molto di più

di Fabiana Carta.

Il 29 febbraio sarà un giorno particolare: ricorre infatti la Giornata mondiale delle Malattie Rare. Ne abbiamo parlato con Giangiorgio Crisponi, il pediatra che nel 1996 ha dato il nome a una patologia osservata su 17 neonati in Sardegna                                                                                     

Qual è lo stato attuale delle malattie rare in Sardegna?

Abbiamo un problema serio: la Regione non ha mai avuto un Registro Regionale di ricerca e identificazione delle malformazioni congenite, utile per la prevenzione primaria, tenere il numero dei malati e ricostruire lo stato di salute dei sardi, per capire quanti soldi andrebbero stanziati per l’assistenza. Per realizzare questo Registro non servirebbero grandi sforzi economici, si tratterebbe solo di mandare una persona in uno di questi centri, da qualche parte in Italia, affinché possa imparare e vedere come funziona.

In Sardegna ci sono 20 punti nascita, ognuno di loro potrebbe comunicare, direttamente al centro tramite un computer, ogniqualvolta nasce un bambino con malformazioni o anomalie. In linea generale possiamo fare delle proporzioni, si può stimare la frequenza dei difetti congeniti alla nascita intorno al 3,5 – 5%. Poi ci sono quelle tipologie che non vengono identificate immediatamente ma negli anni successivi, quindi questo numero tenderà a salire nel corso degli anni. In Sardegna si prevede la nascita di meno di 10mila bambini all’anno: contando che l’età in cui si decide di avere un bambino si sta spostando sempre più avanti, ci dobbiamo aspettare 350/500 neonati all’anno con difetti congeniti.

Oggi con l’indagine prenatale si può anche scegliere di non portare avanti la gravidanza. Di queste malattie il 72% sono geneticamente identificabili, la restante percentuale sono legate a fattori ambientali, infezioni, ecc. In generale, il numero di malattie rare conosciute e diagnosticate oscilla tra le sette e le ottomila, ma è una cifra che cresce con l’avanzare della scienza e con i progressi della ricerca genetica. Molte altre non sono diagnosticate o se, lo sono, non hanno terapie, non è stato ancora scoperto il gene e non si sa come intervenire. Oggi oltre il 50% dei bambini all’età di 5 anni non dispone di una diagnosi, anche nei migliori centri medici: questo comporta un ritardo dei trattamenti. Un grande passo avanti è stato fatto con lo screening neonatale: gratuitamente, a tutti i nuovi nati, viene prelevata una goccia di sangue per la diagnosi precoce di 50 malattie metaboliche ereditarie.

Esiste una malattia rara presente maggiormente in Ogliastra?

La Sindrome di Crisponi. In Sardegna ne abbiamo descritto trenta casi, nel resto d’Italia solo due. Diffusa soprattutto nel bacino del Mediterraneo, in Turchia, Arabia Saudita, Libia, Francia, Spagna, la Sardegna ha un incidenza molto alta. Ogni 20mila bambini, uno di questi ha la sindrome di Crisponi. Tanti anni fa, molti in Ogliastra morivano dopo la nascita perché non si conosceva la malattia e le sue manifestazioni, evidenti fin da subito. Grave difficoltà nell’alimentazione, contrattura della muscolatura facciale e dell’orofaringe, comparsa di febbre continua sui 38°C, con puntate oltre i 42°C. La maggioranza dei bambini decede dopo un periodo di alcune settimane o mesi, i pazienti che sopravvivono, attualmente cinque su venti in tutta la Sardegna, sviluppano una severa scoliosi che richiede chirurgia correttiva o l’impiego del busto e una sudorazione evidente in particolare nella stagione fredda, preceduta da brividi di freddo. Ma perché in Ogliastra, e in generale in Sardegna, c’è un’incidenza così alta? La nostra terra è detta “un isolato genetico”, ha avuto nel corso dei secoli pochissima migrazione esterna. Per millenni è rimasta isolata, in più nei paesi continuavano a sposarsi nell’ambito dei parenti. Ci stiamo trascinando queste malattie da secoli. La scoperta del gene causa della malattia, effettuato da un gruppo di ricercatori guidati dalla dottoressa Laura Crisponi, è stata una grandissima conquista.

In Sardegna quali sono i Centri di riferimento per le malattie rare?

Il centro di riferimento resta l’Ospedale Pediatrico Microcitemico di Cagliari, tra i principali centri europei per il contributo apportato alla diagnosi e cura delle malattie genetiche e di patologie rare. Ultimamente, a causa di carenza di personale, ci sono stati problemi, e alcuni medici ricercatori sono stati costretti a spostarsi, distogliendo l’attenzione dalle malattie rare. Il problema è che non c’è la possibilità di fare in giornata tutte le analisi possibili, perciò una famiglia perde giornate di lavoro e affronta costi molto alti per portare il bambino a fare le varie visite.

La Regione stanzia dei fondi per la ricerca?

No, oggi non abbiamo niente. Né dalla Regione, né dallo Stato, e all’Università hanno tagliato i fondi. Il Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) a malapena riesce a pagare gli stipendi dei ricercatori. Per ottenere dei finanziamenti esterni i ricercatori devono preparare e presentare i loro studi partecipando ai bandi di ricerca, con fondazioni come Telethon, ad esempio. Negli anni sono state create delle Associazioni, come quella dalla Sindrome di Crisponi, la quale è stata capace di reperire i fondi paese per paese, fino a riuscire a organizzare la famosa partita del cuore, ottenendo grandi finanziamenti che hanno reso possibile la scoperta del gene.

Quanto il ruolo dell’informazione può incidere nel creare interesse?

Può fare molto. Dal 2008 celebriamo la Giornata delle Malattie Rare, con la scelta del 29 febbraio come “un giorno raro per i malati rari” e vi partecipano più di cento Paesi. Eventi come questi sono utili per attirare l’attenzione sul problema, sensibilizzare l’opinione pubblica, i politici, i ricercatori di tutto il mondo. Diventa una grande copertina mediatica con la diffusione di materiali informativi e promozionali.

Cosa manca e cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione generale?

A livello europeo si sta cercando di creare dei centri nazionali, finanziati specificatamente per tutte queste malattie, dove verranno curati, seguiti e assistiti per tutto il percorso di vita i bambini nati con determinate patologie. Oggi, dopo che i bambini escono dalla fascia pediatrica e passano al medico di base, si ritrovano a dover ricominciare da capo, i genitori sono più informati del medico stesso, si ritrovano a dover spiegare tutto il decorso e la storia. Bisogna pensare anche al dopo genitori. La soluzione è creare questi Centri specializzati, ognuno concentrato su una malattia specifica, che seguano i bambini in tutte le fasi e in modo approfondito. Non ha alcun senso fare tanti piccoli centri sparsi per il territorio.

Cornelia

La mia “Cornelia”

di Ilaria Melis.

Mia figlia Maria ha una sindrome genetica rara, la Cornelia de Lange, che determina scarso accrescimento, ritardo mentale, problemi agli organi interni, disturbo del linguaggio e di comprensione linguistica

È la secondogenita di 4 figli, quando è nata era solo molto piccola. Mai avrei pensato che la mia famiglia sarebbe entrata con lei nel mondo della disabilità. Cresceva molto lentamente. Le domande sul “perché non crescesse” sono subito comparse. Intorno ai sei mesi è iniziato il percorso diagnostico: il primo ricovero, l’incontro con professor Antonio Cao, gli appuntamenti periodici al Microcitemico… Francamente non pensavamo alla disabilità, non ce n’era il tempo.
Ci eravamo da poco trasferiti in Ogliastra a causa del mio nuovo lavoro e avevo un altro bimbo piccolo. Già dai primi mesi ci siamo accorti che i problemi non si limitavano solo alla crescita, ma a tutta la sua persona, tutto era in ritardo. Era complicato capire cosa fare, eravamo concentrati sulla “non crescita” e un po’ per caso, intorno ai 14 mesi, abbiamo attivato gli interventi riabilitativi necessari. La prima diagnosi clinica, fatta a Milano, è avvenuta ai 2 anni, confermata poi geneticamente nel 2008.
Da subito abbiamo cercato informazioni su Internet e ci siamo messi in contatto con l’associazione nazionale Cornelia de Lange, che riunisce le famiglie con la “Cornelia”. Un incontro fondamentale! Nel 2007 andai al convegno mondiale sulla Sindrome: conobbi le prime famiglie e vidi con i miei occhi e sentii profondamente, come non mai, che non ero la sola in quella condizione! Tramite l’associazione abbiamo conosciuto il genetista Angelo Selicorni e la neuropsichiatra infantile Antonella Costantino, esperta di Comunicazione aumentativa (C.A.A.): con loro abbiamo sperimentato un approccio completamente nuovo tra medico e paziente, un modo di vedere la persona, non la Cornelia, che ci ha permesso di mettere in piedi tutti gli interventi fondamentali per Maria.
Non è stato per niente facile e non lo è tuttora. Ci si misura quotidianamente con il “cosa fare e dove andare”, con la paura dell’oggi e del futuro, il pregiudizio e la commiserazione delle persone, a volte anche con la mancanza di tutela da parte delle istituzioni. Perché la disabilità fa paura ed è scomoda, questa è la verità. Tante persone mi dicono: «Tu sei coraggiosa». Rispondo: «Non lo sono, scelgo solo di non avere paura!». Mi chiedo sempre come posso vivere questa condizione e cosa è utile per Maria. Posso vivere la sua disabilità a testa bassa, subirla, ma scelgo di viverla attivamente, a testa alta, mostrando quello che per paura, forse vergogna, si tende a nascondere, parlando liberamente della sua condizione e facendo tutto ciò che ritengo utile per lei. La mia fortuna è aver intorno a Maria una equipe di professionisti con cui ci si confronta e progetta continuamente.
Occorre mettersi in gioco. La vera sfida è considerare la disabilità “normale”, cioè includerla nel nostro modo di pensare e vivere, riguarda le persone e l’ambiente in cui si vive.
Le relazioni con le persone sono quelle che fanno la differenza nella vita di ciascuno: è così anche per Maria che da adolescente tenta con fatica di costruire relazioni coi suoi pari.
Occorre apertura e accoglienza, così l’ambiente può includere e favorire il cambiamento di ciascuno.
Il mio sogno? Pensare Maria “autonoma”, accolta, inclusa nella comunità di Jerzu che la protegge e cammina con lei. La realtà è una costruzione…

Libreria del Corso

Libreria del Corso: rifugiarsi nei libri

di Federica Melis.
Tra le tante librerie costrette alla serrata, ci sono quelle che fortunatamente resistono. Una di queste è la storica Libreria del Corso di Tortolì

Le librerie chiudono all’ordine del giorno. Schiacciate dalla concorrenza spietata dei grandi colossi dell’Internet e da un mercato sempre più concorrenziale che cannibalizza le piccole attività. Dal 2016 ad oggi si stima che in Italia abbiano chiuso circa 2300 librerie. Diversi i motivi: le grandi catene, i formati digitali, l’e-commerce e anche la mancanza di politiche serie da parte dello Stato. I libri poi al giorno d’oggi si vendono dappertutto: dal tabaccaio, all’edicola e persino al supermercato. E poi, diciamoci la verità: si legge sempre meno, non che fossimo grandissimi lettori in Italia: ci troviamo infatti in coda nella classifica europea.
Tra le tante serrande abbassate, ci sono quelle che fortunatamente resistono alla crisi. Una di queste è la storica Libreria del Corso di Tortolì. L’unica presente nella cittadina costiera che ha aperto i battenti nel 1986.
Ma come resiste una piccola libreria? Come si reagisce alla concorrenza spietata dei colossi come Amazon? «Un libro, è vero, al giorno d’oggi lo trovi dappertutto, ma un libraio no. Quel rapporto speciale non lo trovi in rete» dice Stefano Soro, titolare della libreria che gestisce insieme alla moglie Cia. «Molti vengono qui, chiedono un consiglio di lettura, vogliono essere seguiti, devi essere preparatissimo e leggere tanto. Cosa fai, chiedi a Internet? La figura del libraio è centrale». Capace dunque di scegliere un libro su misura come un abito di sartoria, di capire chi ha davanti e consigliare la lettura giusta. Insomma, una delle chiavi per resistere è sicuramente la complicità e fedeltà che si instaura, il sentirsi parte di una comunità.
È un venerdì sera quando arrivo in libreria. Trovo Stefano che mostra diversi libri a una mamma col suo bambino, avrà dieci anni. «Quale vuoi? – chiede – Non puoi prenderli tutti». Il piccolo lettore ne sceglie tre. «Ho dedicato una stanza intera alla lettura per i ragazzi e per i bambini. Loro sono il futuro», mi dice Stefano quando vanno via. Mi guardo intorno e leggo tantissimi titoli dei più vari generi: fantasy, fantascienza, avventura, fumetti, favole e fiabe nelle tre pareti all’entrata.
Insieme a Stefano a gestire la libreria ormai da tanti anni è la moglie di origini svedesi, Cia Berg. Negli anni Ottanta e Novanta è stata una famosissima frontwoman di un noto gruppo musicale e una presentatrice televisiva. Accanita lettrice, appassionata di storia, in particolare della Seconda Guerra Mondiale, è specializzata in autori americani e del nord Europa. «Vendere libri non è come vendere un oggetto qualsiasi – dice –. Qui in una giornata puoi parlare di tutto: storia, scienze, filosofia, ogni giorno è diverso. Non puoi annoiarti mai. Le persone vengono qui anche solo per parlare, per scambiare due chiacchiere, è anche un luogo per ritrovarsi».
Un luogo, quindi, dove si scambiano opinioni, suggerimenti, informazioni. E perché no, si sta in compagnia. Un luogo dove rifugiarsi. Un piccolo grande gioiello incastonato davanti a una suggestiva piazzetta con un giardino curato, teatro di numerose e partecipate presentazioni di libri.
«Purtroppo la nostra categoria non è tutelata, non esistono leggi che proteggano le piccole librerie. Anche per questo ogni giorno ne chiude una. Ma se togliamo una libreria cosa rimane nelle piccola realtà come le nostre?», mi dice Stefano alla fine di questa chiacchierata.
Andando via penso al sorriso di quel bambino che teneva stretto tra le mani i suoi libri appena comprati. C’è speranza.

Mensa Caritas

Sempre più poveri

di Maria Chiara Cugusi.

Presentato il Report su povertà ed esclusione sociale in Sardegna da parte della Delegazione regionale Caritas

IL CONTESTO SOCIO-ECONOMICO. Come mostrano i dati ISTAT, mentre a livello nazionale tra il 2017 e il 2018 si è registrata una diminuzione della povertà relativa, passata dal 12,3% all’11,8%, in Sardegna essa aumenta di due punti percentuali, passando dal 17,3% del 2017 al 19,3% del 2018. Emerge un’economia regionale ancora in affanno, con una crisi che permane, nonostante qualche timido segnale positivo relativo all’occupazione giovanile. Inoltre, emerge una povertà, quella demografica, che preoccupa fortemente il mondo ecclesiale: tra il 2007 e il 2018 c’è stato un deficit di oltre 26.000 unità, generato in particolare da un saldo naturale, dal 2010, costantemente negativo. Anche in Sardegna, peraltro, è da porre l’accento su un’accresciuta disuguaglianza in questi anni di crisi sia tra categorie sociali (più ricche da un lato e molto povere dall’altro) sia tra generazioni.

CHI SI RIVOLGE ALLA CARITAS. L’aumento della povertà relativa nell’Isola va di pari passo con l’aumento del numero delle persone che si sono rivolte alle Caritas della Sardegna: nel 2018, in base ai dati dei Centri d’ascolto delle 10 Caritas sarde, questa cifra è aumentata dell’11, 7% rispetto al 2017 (7.903 le persone ascoltate una o più volte nei Centri Caritas nel 2018). Si tratta soprattutto di italiani (66,0%); gli immigrati sono oltre 2.500, di nazionalità soprattutto senegalese, nigeriana, marocchina e romena. Complessivamente, le persone che si sono rivolte alla Caritas sono per lo più di sesso maschile e hanno un’età media di 45,6 anni; la classe dei cinquantenni copre quasi un quarto del totale. Si tratta di persone che vivono per lo più in famiglia. Da sottolineare che, per la prima volta, la quota proporzionale delle persone celibi o nubili risulta maggiore rispetto a quella dei coniugati (cresce anche in Sardegna il fenomeno delle coppie di fatto, spesso con figli). Un altro dato rilevante è che chi possiede un titolo di studio superiore riesce a difendersi meglio dalla povertà. Coloro che rivolgono richieste di aiuto alla Caritas sono per lo più senza lavoro: non l’hanno mai avuto o l’hanno perso (nel 67,0% dei casi). Allo stesso tempo, il sussistere dell’11,0% e del 7,3%, rispettivamente di occupati e pensionati, dimostra che, anche nei casi in cui c’è qualche forma di reddito, si fatica a far fronte alle spese della vita quotidiana.

I BISOGNI DI CHI SI RIVOLGE ALLA CARITAS. I bisogni rilevati dagli operatori sono legati soprattutto a problemi economici, nei casi in cui non si ha alcun ingresso o si possiede un reddito che non consente di far fronte alle esigenze quotidiane. Al secondo posto, si rilevano i problemi legati all’occupazione (disoccupazione o lavoro precario); seguono i problemi familiari, causati per lo più da separazioni e divorzi, anche se, in questi ultimi anni, è cresciuta la difficoltà di alcune famiglie a fronteggiare le spese dovute a problemi di salute. Al quarto posto si registrano i problemi abitativi, correlati con la mancanza della casa o con condizioni abitative precarie. A seguire le problematiche registrate dai cittadini stranieri e i problemi di istruzione.

LE RICHIESTE DI CHI SI RIVOLGE ALLA CARITAS. Le richieste riguardano soprattutto beni e servizi materiali, in lieve flessione rispetto al 2017 (in particolare viveri: sia alimenti confezionati che accesso ai servizi di mensa); sussidi economici in lieve aumento rispetto all’anno precedente (per lo più aiuti per il pagamento di bollette, tasse, etc.); seguono le richieste di tipo sanitario, anch’esse in aumento (caratterizzate per lo più dalle richieste di risorse economiche finalizzate al pagamento di farmaci e cure mediche); inoltre, sono da segnalare le richieste legate alle problematiche abitative (per lo più legate agli sfratti) e quelle relative all’occupazione/lavoro.

GLI INTERVENTI DELLA CARITAS A PARTIRE DALL’ASCOLTO. In modo speculare alle richieste, gli interventi riguardano soprattutto beni e servizi materiali (in lieve flessione rispetto all’anno precedente). A seguire, i sussidi economici (in lieve aumento rispetto all’anno prima): oltre alle piccole somme di denaro che servono a fronteggiare tasse, utenze e affitti, in questi anni di crisi economica sono aumentati gli interventi di micro-credito. Al terzo posto degli interventi vanno segnalati quelli volti a sostenere le spese legate a problemi di salute (farmaci, visite specialistiche, ecc.), seguiti dagli interventi di orientamento, quelli volti a favorire la soluzione di problematiche abitative, il coinvolgimento (di enti e parrocchie) e consulenza professionale, a conferma di come la Caritas, al di là dell’aiuto materiale, offra un accompagnamento personalizzato, mirante al superamento di situazioni di disagio.

CARITÀ E CULTURA. FOCUS SULLA PERSISTENZA DELLA POVERTÀ EDUCATIVA IN SARDEGNA.
La scelta di insistere sulle fragilità culturali (ed educative) dei giovani sardi anche nel Report di quest’anno mostra la preoccupazione che la Chiesa ha di fronte all’urlo nero e silenzioso di tanti giovani che rischia di rimanere inascoltato e forse non percepito per la sua effettiva portata e gravità. Delle 7.903 persone transitate nei Centri di ascolto delle Caritas sarde, i NEET 15-29enni ascoltati nel 2018 sono 1.343 (pari al 16,9%). Il loro livello di istruzione è basso, tenuto conto che il 56,0% possiede unicamente la licenza media inferiore, mentre solo tre persone sono laureate. Nel 2018, in Sardegna, si è registrata l’incidenza più alta (23,0%) di 18-24enni che non hanno titoli scolastici superiori alla licenza media inferiore, non sono in possesso di qualifiche professionali, non frequentano corsi scolastici e neppure attività formative. È evidente che la povertà educativa costituisce una vera e propria emergenza per l’Isola.

COSA INDUCONO A FARE I DATI CARITAS SU POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE
La Delegazione regionale Caritas ribadisce la necessità di proseguire il cammino faticosamente avviato; un cammino che non dimentichi l’aspetto multidimensionale della povertà (non relegandola alla sola fragilità economica e lavorativa), sappia valorizzare il buono che è emerso fino a oggi, migliorando l’infrastrutturazione (in particolare potenziando e coinvolgendo maggiormente la rete dei servizi territoriali). La stessa Caritas, infine, continua ad insistere affinché la Regione renda pienamente esecutivo l’impianto della legge regionale 23 dicembre 2005, n. 23. A tutt’oggi (a distanza di 14 anni) resta ancora da implementare «presso la Presidenza della Regione, l’Osservatorio regionale sulle povertà», la cui nascita è stata più volte annunciata senza alcun esito conseguente.

Cagliari Calcio

#indueparole. Cagliari, quel sogno che ci piace

di Riccardo Cucchi.*
Fa bene al calcio rivedere il Cagliari così in alto in classifica.
Fa bene soprattutto a chi vuole bene al calcio, oltre che – naturalmente – ai tifosi del Cagliari. Perché il calcio non può smettere di inventare storie ed essere capace di raccontarle. Storie di imprese impossibili, di sogni che si realizzano dopo averli attesi per anni.
Chi è nato nell’anno dello scudetto di Riva e Scopigno sta per compiere i 50. Se è un tifoso rossoblù, è cresciuto nel ricordo e nella leggenda di quella impresa che altri gli hanno raccontato. E ha passato una gioventù tra Serie A e Serie B. Tanto tempo è trascorso prima di rivedere un Cagliari così e assaporare quelle sensazioni che aveva solo immaginato.
Ma il Cagliari così in alto non fa bene solo a lui. Fa bene a tutti coloro che si sono un po’ stancati di sentirsi ripetere che i fatturati poi si vedono sul campo. Perché noi sul campo continuiamo a vedere solo calciatori. E un pallone. E vorremmo continuare a vedere solo quello. Lo sappiamo che saranno i ricchi a vincere alla fine. Ma se non coltivassimo l’illusione che, almeno nel calcio, non è solo la ricchezza economica a portare vittorie, forse non avremmo più lo stessa voglia di entrare in uno stadio. È l’illusione che alimenta i sogni, la convinzione che il risultato non sia scritto prima di cominciare. E la certezza che tutti partiamo dallo 0-0, quelli ricchi e forti e quelli poveri e meno forti. Perché poi c’è il pallone. E il pallone non sa se il piede che lo calcerà sarà quello di un ricco o quello di un povero. Il pallone va dove il piede lo indirizza. E se il piede è più abile, e magari anche più fortunato, il pallone può andare contro le previsioni, le certezze, le ovvietà, la ricchezza. E può scrivere una storia nuova, andare incontro a un altro destino.
Per questo abbiamo esultato per il Leicester di Ranieri capace di giganteggiare, da piccolo, in mezzo ai giganti della Premier League. E quella storia ci è piaciuta. Come ci sta piacendo quella del Cagliari. E speriamo che possa replicare quella già scritta dall’Atalanta. E chissà, in un futuro non troppo lontano per non far aspettare troppo i bambini di oggi, anche tornare a lottare per lo scudetto come fu capace di fare Gigi Riva.
Perche in campo vogliamo continuare a vedere calciatori. I fatturati vorremmo lasciarli agli esperti di finanza. A noi piacciono i sogni. Più dei conti.

*giornalista Rai
ex radiocronista di “Tutto il calcio minuto per minuto”