In breve:

Fatti

Studenti Classico Tortolì

Classico di Tortolì: viaggi, attività e tanto divertimento

di Sara Loddo ed Emiliano Carta.

Quando si pensa al Liceo Classico viene in mente un luogo serio, in cui l’unica attività svolta è lo studio e in cui lo svago non è neanche contemplato. Ma la realtà è ben diversa

Vogliamo raccontarvi di come noi studenti, durante l’anno, siamo al centro di numerose attività che ci assorbono per diversi mesi, durante i quali possiamo stringere legami di amicizia e divertirci tutti insieme. Tra queste, due sono quelle che ogni anno attendiamo con più ansia: le gite scolastiche e la Notte Nazionale del Liceo Classico.
Le gite organizzate dalla nostra scuola sono varie e si svolgono in diversi momenti dell’anno, ma quella che facciamo solitamente a marzo è la più importante. L’anno scorso ci siamo recati per cinque giorni in Grecia, durante i quali abbiamo visitato i maggiori centri d’interesse, a partire da Atene, per poi spostarci nelle altre località nelle quali una guida apposita ci illustrava la storia di siti e monumenti. Non sono mai mancati, però, i momenti di libertà in altre aree della città. Quest’anno invece trascorreremo cinque giorni a Barcellona, alla scoperta di meraviglie che – ne siamo certi – rimarranno scolpite nella nostra memoria.

Veniamo alla Notte del Classico. Si tratta di un evento su scala nazionale, con una tematica uguale per tutti, ma che permette una certa indipendenza nello sviluppo concettuale dello spettacolo (perlopiù teatrale). Siamo ormai giunti alla quarta edizione per la nostra scuola e ognuna si è rivelata per noi un’occasione di straordinaria crescita individuale e collettiva.
L’impulso per questa ricorrenza parte proprio da noi alunni: nel primo quadrimestre ci si coordina con i professori e si stabiliscono il tema e le modalità di svolgimento dello spettacolo; poi si procede con momenti di incontro in cui, oltre al lavoro di stesura o adattamento dei testi – impegnativo, sì, ma molto costruttivo – si individuano le parti, lasciando spazio anche al divertimento e alle risate, come noi della III A abbiamo felicemente sperimentato a partire dal primo anno. Non si può negare che l’impegno in questo progetto tolga spazio al tempo libero e allo studio, ma in quest’ultimo ambito abbiamo sempre trovato il supporto dei nostri professori, che hanno dimostrato molta elasticità e correttezza.
Le settimane prima dell’evento sono di intensa preparazione: l’ansia cresce, mentre l’orologio avanza; si riprovano le parti, si correggono le imperfezioni; studenti e professori danno il massimo per il comune obiettivo.
E quando il fatidico giorno arriva e si mette piede sul palco, ogni paura svanisce, lasciando posto a una gioia indescrivibile. È un’esperienza che accresce chi la vive dal punto di vista umano, che ha contribuito tantissimo negli anni a cementare il rapporto fra classi e che ci ha reso il liceo unito che siamo ora. Quest’anno l’appuntamento è fissato per il 19 aprile, dalle ore 18 alle 24: vi aspettiamo numerosi!

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I femminili di professione

di Fabiana Carta.

Lo dico subito, a scanso di equivoci. Non si parlerà di questioni femministe, di battaglie a favore delle donne, di neologismi, di abbrutimenti linguistici. Tantomeno si parlerà di linguaggio inclusivo, dell’utilizzo dell’asterisco o del simbolo schwa che servirebbero a opacizzare il genere grammaticale e a rispettare tutti coloro che non si rispecchiano nel maschile e nel femminile (questione che abbiamo già trattato in precedenza). L’asterisco e lo schwa non fanno ancora parte del nostro sistema linguistico ed è molto difficile che possano diventare, un giorno, qualcosa di concreto.
Qui parliamo di semplice grammatica: i femminili di professione, come sindaca, ministra, ingegnera, architetta, avvocata, medica, arbitra, notaia. Qualcuno di voi ha storto il naso, ne sono sicura. Dovremmo usarli con naturalezza, perché fanno parte della nostra lingua; non sono una gentilezza, una concessione, e – ripeto – non c’entra niente l’inclusività. Allora perché siamo così in imbarazzo quando li sentiamo? Perché queste parole ci sembrano sbagliate o cacofoniche?

Se ci può essere di conforto, la desinenza femminile per la definizione delle professioni manda in crisi l’umanità da secoli, la resistenza al loro uso affonda le radici nel passato. Queste parole ci suonano male perché non ci sono state insegnate, il nostro orecchio non è abituato a sentirle usare e le percepisce come anomale, inoltre è vero che per secoli tante attività professionali sono state precluse alle donne.
I femminili di cui parliamo hanno una lunga storia, non sono stati creati a tavolino dalla femminista di turno. Ad esempio, avvocata era molto diffuso in passato, troviamo questa forma a partire dal 1221 nella preghiera “Salve, Regina” («Orsù dunque, avvocata nostra»). Il ruolo è una cosa, la persona che lo veste è un’altra: una delle giustificazioni che si usano per opporre resistenza e non utilizzare i femminili di professione è questa. Un pensiero che abbiamo fatto in molti, ne sono certa, però allora riflettiamo sul perché non applichiamo lo stesso ragionamento per infermiera o professoressa, per fare due esempi. È solo una questione culturale e sociale.

Proviamo a schematizzare come si formano tecnicamente i femminili nelle professioni: con i nomi che terminano in -ente e in -ista è necessario cambiare solo l’articolo (il presidente > la presidente, il giornalista > la giornalista); per i nomi che terminano in -tore, nella maggior parte dei casi, il femminili ha il suffisso in -trice (attore > attrice), la regola varia quando -tore viene preceduto da una consonante diversa da t (impostore > impostora, non impostrice); i nomi maschili che terminano in -sore forma il femminile in -itrice, da inserire accanto alla radice dell’infinito del verbo da cui derivano (possed-ere > posseditrice).
Sapete che i lessicografi, oggi, sconsigliano di usare le forme con il suffisso in -essa? Come dottoressa (al suo posto si consiglia dottora, il corrispondente naturale di dottore), oppure avvocatessa, filosofessa, presidentessa (al loro posto avvocata, filosofa, la presidente). Il suffisso -essa ha una connotazione ironica che deriva dalla commedia greca – il linguista Sabatini lo ha definito “sessista” – si usava per sottolineare che quella donna svolgeva una mansione da uomo o che svolgeva lo stesso lavoro del marito declinato al femminile.

A questo punto, non usare i femminili di professione diventa davvero innaturale. Mettiamo da parte l’imbarazzo e le incertezze, fidiamoci della semplice grammatica.

Intelligenza Artificiale

No alla dittatura tecnologica

a cura di Filippo Corrias.

Papa Francesco sollecita un dialogo aperto sul significato delle nuove tecnologie, dotate di potenzialità dirompenti e di effetti ambivalenti

Intelligenza artificiale e pace. È il titolo scelto dal Santo Padre Francesco per la LVII Giornata Mondiale della Pace che si è celebrata il 1° gennaio 2024 nella solennità della divina maternità di Maria.
La tutela della dignità della persona e la cura per una fraternità effettivamente aperta all’intera famiglia umana sono condizioni imprescindibili perché lo sviluppo tecnologico possa contribuire alla promozione della giustizia e della pace nel mondo.
«Il termine abbraccia una varietà di scienze, teorie e tecniche volte a far sì che le macchine riproducano o imitino, nel loro funzionamento, le capacità cognitive degli esseri umani. Parlare al plurale di “forme di intelligenza” può aiutare a sottolineare soprattutto il divario incolmabile che esiste tra questi sistemi, per quanto sorprendenti e potenti, e la persona umana: essi sono, in ultima analisi, frammentari, nel senso che possono solo imitare o riprodurre alcune funzioni dell’intelligenza umana. L’uso del plurale evidenzia inoltre che questi dispositivi vanno sempre considerati come “sistemi socio-tecnici”. Il loro impatto, al di là della tecnologia di base, dipende non solo dalla progettazione, ma anche dagli obiettivi e dagli interessi di chi li possiede e di chi li sviluppa, nonché dalle situazioni in cui vengono impiegati.
È pertanto necessario – sottolinea il Pontefice nel suo messaggio – porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?»

L’intelligenza artificiale deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali.

«Occorre rafforzare – continua il Papa – se necessario, istituire organismi incaricati di esaminare le questioni etiche emergenti e di tutelare i diritti di quanti utilizzano forme di intelligenza artificiale o ne sono influenzati. La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità non potranno mai essere considerati vero progresso.
L’essere umano, mortale per definizione, rischia – nell’ossessione di voler controllare tutto – di perdere il controllo su sé stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica».

Famiglia Ligas

Il diritto del bambino ad avere una famiglia

di Fabiana Carta.

Paola Murino e Maurizio Ligas raccontano la gioia di aver dato a tre bambini la possibilità di avere una famiglia

Possiamo parlare di vocazione, quando si sceglie di adottare dei bambini, a patto che non si facciano differenze con la vocazione di voler diventare genitori di un figlio partorito naturalmente. Ne sono convinti Paola Murino e Maurizio Ligas, che vivono a Lanusei con Luz, Marlon e Brayan, tre fratelli colombiani adottati quasi undici anni fa. «Ci siamo sposati non proprio giovanissimi. I figli non sono arrivati – raccontano – e allo scadere dei tre anni abbiamo pensato che le soluzioni potessero essere due: la fecondazione assistita o l’adozione. Non abbiamo avuto dubbi sulla scelta. Unire due famiglie, la nostra con quella di altri bambini che cercavano dei genitori, per dare loro un’opportunità».

È il 2013 quando intraprendono il percorso, aprendo la strada sia a un’adozione nazionale che internazionale, passando per vari colloqui con lo psicologo, l’assistente sociale e il giudice. «L’adozione nazionale è completamente gratuita, mentre per l’internazionale bisogna affidarsi a un ente. Il rimborso, abbastanza limitato, è previsto, ma arriva dopo anni. Questo per dire che chi sceglie questa strada deve anche far i conti con la disponibilità economica. L’intero iter è durato due anni, il tempo minimo per legge», spiegano.

Prima dell’incontro di persona, la famiglia che adotta si impegna a preparare delle foto e dei video da mostrare ai bambini; allo stesso modo i bambini preparano del materiale da mostrare ai futuri genitori. Come un assaggio degli abbracci e dei sorrisi che arriveranno. «Quando siamo arrivati a Bogotà, in Colombia, abbiamo avuto un incontro preliminare con gli assistenti sociali, sempre accompagnati da una persona dell’ente che ha seguito la nostra pratica, e il giorno dopo c’è stato l’incontro con i bambini. Da quel momento siamo diventati un’unica famiglia».

Il primo incontro – atteso, immaginato, sognato – avviene sempre in maniera standard: una piccola festicciola, con dolci, bibite e qualche regalo per i bambini. Tra l’emozione e l’imbarazzo, per essere sempre sotto lo sguardo degli assistenti sociali, avviene il piccolo miracolo. In questo caso, l’incastro perfetto.

La fusione delle due famiglie è un processo naturale, per due lunghi mesi nella capitale colombiana, senza particolari difficoltà. «Eravamo preparati a tutto – ricorda Paola –: la prima sera ci siamo messi a guardare la televisione tutti insieme nel lettone e i bambini hanno dormito tutta la notte con noi, senza nessun problema. Dopo due giorni abbiamo iniziato a girare per la città. Ho studiato un po’ di spagnolo, cercavamo di comunicare così. È stato molto strano come abbiamo legato praticamente subito».

Arrivati a Lanusei c’è voluto del tempo per adattarsi, come è normale che sia. I bambini avevano sei, sette e undici anni all’epoca, hanno dovuto abituarsi a una lingua e a una cultura completamente diverse dalla loro. «Sicuramente è stata la scelta migliore che potessimo fare. Certe volte c’è il problema che alcune coppie vogliono dei bambini in maniera quasi ossessiva e provano tutte le vie possibili che la scienza offre. Sembra quasi che esista il diritto della coppia ad avere un bambino, ma no, c’è il diritto del bambino ad avere una famiglia. Noi l’abbiamo fatto per dare l’opportunità a dei bambini che hanno avuto qualche problema e per cominciare un progetto di vita insieme. Tante persone, ancora oggi, giudicano la nostra scelta come straordinaria, ma a noi non sembra, perché è stato come accogliere un proprio figlio, non c’è stata nessuna differenza», concludono.

25 Novembre

Cuore e volto di donna

di Francesco Manca.

Per eliminare l’odiosa piaga della violenza di genere c’è bisogno dell’impegno sinergico di tutte le componenti della società, in primo luogo le agenzie educative.

Per questo l’associazione Voltalacarta ha scelto di celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne con un evento che avesse come focus questo aspetto, e ha coinvolto il Comune di Jerzu e l’istituto Businco che nella Valle del Pardu gestisce le scuole primarie e quelle secondarie di I e II grado.
Ne è nato un incontro intitolato “La parola alla scuola: percorsi didattici contro la discriminazione di genere” che il 25 novembre ha riempito l’aula consiliare di persone di ogni età, in una serata dal forte contenuto emotivo.
«Jerzu è un comune con cui abbiamo collaborato proficuamente in passato – spiega la presidente di Voltalacarta, Loredana Rosa – e per questo abbiamo proposto alla consigliera Belinda Locci di onorare insieme la giornata del 25 novembre, ottenendo una risposta entusiastica».

Il Businco è stato l’istituto che, grazie all’impegno della coordinatrice Maria Lina Cerina, più di tutti ha contribuito alla riuscita del progetto Educazione al rispetto attraverso la parità di genere, voluto dalla Consigliera di Parità della Provincia di Nuoro e Ogliastra, Lorena Urrai, e realizzato da Voltalacarta.
È stata proprio Lorena Urrai ad aprire i lavori, coordinati da Loredana Rosa. Al suo intervento sono seguiti quelli della vicesindaca Simona Demurtas, della consigliera Belinda Locci e del dirigente scolastico Alessandro Bianco. Ma i veri protagonisti sono stati gli studenti e le studentesse che si sono cimentati in performance teatrali e letture, sotto la guida del regista Fabrizio Passerotti, mettendo in luce una grande sensibilità e capacità interpretativa.
La classe 4° Itc del Businco, guidata dalla docente Marianna Contu, ha proposto una ironica videopresentazione che illustrava alcune situazioni simbolo della discriminazione di genere, in famiglia e sul lavoro.
Veronica Ligas, studentessa del Liceo Da Vinci di Lanusei, ha interpretato un monologo da lei stessa scritto, un accorato j’accuse contro il patriarcato e le Stato che poco o nulla fa per contrastare davvero la piaga del femminicidio. Un altro studente del Da Vinci, Stefano Deidda, ha contributo con il video-monologo “Not all men: False!” in cui afferma che ogni uomo è coinvolto, anche se non ha mai agito con violenza. Matteo Scudu, studente universitario di Villagrande Strisaili, ha evidenziato come persista una cultura maschilista in molte pieghe della vita quotidiana, a cominciare dai media. Scudu nel 2016 era stato tra gli studenti coinvolti nella video inchiesta “Voci di un verbo plurale”, realizzata da Voltalacarta in cinque scuole ogliastrine, di cui è stato proiettato un estratto.

«L’incontro di Jerzu conferma che solo mettendo in rete tutti gli attori del territorio si può produrre un cambiamento concreto. Come diciamo sempre: Insieme si fa la differenza!».

Gruppo Solidale

Gruppo Solidale: la forza è nel nome

di Claudia Carta.

A Lotzorai l’iniziativa di alcune donne che hanno fatto della solidarietà la loro missione.

Se una donna da sola è capace di grandi cose, immaginate cosa possono fare dieci donne insieme.
Tempo. Lavoro. Amore. L’essenza del Gruppo Solidale di Lotzorai è in definitiva racchiusa in queste tre parole. «Non facciamo niente di straordinario», spiega Aurelia Loi, anima e cuore di un gruppo che ha visto nascere sei anni fa e che ancora oggi trova in lei il suo punto di riferimento.
Il segreto sta proprio qui. Nell’umiltà e nella piccolezza. E quando tutto questo si fa dono per chi è solo, per chi è ammalato, per chi vive ai margini, per chi ha bisogno, ecco che improvvisamente diventa tesoro prezioso.
«Inizialmente – racconta Aurelia – l’idea era quella di riunirsi, a turno, a casa di una di noi per preparare i piatti della tradizione, dai culurgionis ai malloreddus oppure le lasagne, e poi portarli alle famiglie che ne avevano necessità. Il parroco di allora, don Pietro Sabatini, ci diede una indicazione migliore: utilizzare quella che era stata la casa delle suore, di pertinenza parrocchiale, perché diventasse il punto di incontro, quasi a suggellare il senso di comunità e rafforzare quindi l’idea di gruppo. Iniziò così la nostra storia».

Una storia, quella del Gruppo Solidale lotzoraese, fatta di nomi, ma soprattutto di cuori capaci di leggere le fragilità della comunità e saperle accarezzare con discrezione e delicatezza: «Non è tanto la povertà o l’indigenza che cerchiamo di alleviare – sottolinea Aurelia –, piuttosto ci adoperiamo per essere vicini in situazioni che richiedono un’attenzione non frettolosa: ci sono malati di tumore costretti a fare continui viaggi in Sardegna o nel resto della Penisola; madri in difficoltà; anziani soli, e l’elenco potrebbe continuare. Un pasto pronto e caldo è un segno, così come un biglietto d’aereo o un piccolo contributo economico per far fronte a tante spese. Piccoli gesti che vogliono portare speranza».

Seminatrici di speranza. Ecco il vero compito delle donne solidali nel paese dell’Isolotto d’Ogliastra. A esserne coinvolte sono state, fin dal principio, alcune signore che, a dispetto dei loro 85 anni, avevano, e hanno tuttora, energia da vendere: «Coinvolgere le persone più anziane, valorizzare la loro esperienza, farle aderire a un progetto che richiedeva il loro aiuto e la loro maestria – fa notare ancora Aurelia – è stato il nostro primo obiettivo. Leggere la felicità nei loro volti, ammirarne l’impegno, raccoglierne la soddisfazione per il solo fatto di essere state invitate è davvero qualcosa che fa bene». E quando qualcuna viene mancare, come nel caso di Assunta Concas, 92 primavere, il vuoto che resta si avverte tutto.
Il bene in realtà non ha mai fine. E l’esempio è più vivo che mai. Così, al fine settimana, nella casa delle suore, il Gruppo Solidale continua a impastare e sfornare prelibatezze – le lumache sono una autentica delizia –, a venderle a chi ha il buon cuore di acquistarle e sostenere la causa, o a donarle a chi non ha né tempo né denaro. La creatività, poi, non manca: dai mercatini di Natale alle pesche di beneficienza, dalle lotterie alle sagre. Chi non sa cucinare, aiuta come può, lavorando da casa, acquistando le materie prime, consegnando i pasti, facendo visita a vecchi e ammalati. «Nessuna è andata via del gruppo originario, segno evidente che si sta bene, e nel frattempo sono arrivate le nuove. La speranza è sempre quella di crescere. Qui non ci sono scadenze per le iscrizioni e se arrivassero anche i più giovani saremmo felici di accogliere tutti».

Il sorriso di Aurelia sa di amore speso e gioia ricevuta.

[Foto Pietro Basoccu]