Fatti
Poesie unite dal filo della speranza
di Lucia Becchere.
Coronaversus. Poeti sardi al tempo della pandemia, edizioni L’Ortobene, è la silloge curata da Luciano Piras che raccoglie 62 poesie di 54 autori della nostra Isola. Il ricavato della vendita di 400 copie numerate a mano, stampate con il contributo delle Acli di Nuoro, sarà interamente devoluto a favore della Caritas diocesana di Nuoro.
Per Luciano Piras, giornalista sensibile e attento alle tematiche sociali, autore di diversi libri e caposervizio della Nuova Sardegna – Nuoro e Oristano, questo impegno vuole essere un atto d’amore e di generosità verso i bisognosi e gli ultimi.
La raccolta da lui curata comprende per la maggior parte componimenti in lingua sarda, ma anche in lingua italiana. Poesia che parla al cuore di tutti come una mano tesa e nel silenzio si carica di invocazioni, di messaggi di fede e di fratellanza, per noi lettori percorsi di speranza e di rinascita. Poesia che si fa storia, ricordando il momento terribile del dilagare del Covid 19, quando l’umanità ha dovuto cambiare le sue regole di vita e nulla sarebbe stato più come prima.
Luciano, come è nata questa idea?
Durante il primo lockdown che ha avuto inizio il 7 marzo 2020, nel mio blog@ddurudduru ho ricevuto numerose poesie di gente che, chiusa in casa, ha dato vita a questa forma d’arte e dietro suggerimento di alcuni amici ho pensato di raccoglierle in una antologia.
È nata così in me l’idea di una iniziativa solidale pienamente condivisa dai poeti interessati, entusiasti di parteciparvi e di destinare l’eventuale guadagno a un’opera di bene.
La raccolta comprende tutte le poesie pervenute?
Quasi tutte. La scelta è stata dettata dal tema strettamente legato alla pandemia. Alcune sono opere di vera poesia mentre altre sono sperimentali, comunque ho ritenuto giusto non escluderne alcuna perché tutte dettate dalla speranza di riprendere in mano la propria vita.
Quale messaggio hai voluto veicolare?
Il messaggio principale è quello solidale. Chi è più fortunato deve correre in aiuto di chi ne ha bisogno. La cosa straordinaria è che per la prima volta 54 poeti contemporanei viventi, giovani e meno giovani, si ritrovano tutti insieme accomunati a scopo benefico.
Cosa unisce questi poeti oltre il tema della pandemia?
Il filo della speranza. C’è una luce che resta sempre accesa, sia essa fede religiosa o qualcos’altro, Nonostante il dramma, resta viva la speranza per un futuro migliore: “Ata a finire / ata a colare” è il mantra di tutti i poeti.
Poesia lirica, attuale, impegnata socialmente e anche politicamente nel senso nobile della politica, quali sentimenti traspaiono dai versi?
La paura è sempre presente, paura della solitudine non tanto della morte. Tuttavia nei versi domina una visione positiva della vita perché nessuno cede alla rassegnazione.
Tu che nelle poesie, e non solo, hai il privilegio di essere allo stesso tempo osservatore, testimone e portavoce di una esperienza così triste e dolorosa come la pandemia, come hai vissuto quei momenti?
Posso ritenermi fortunato perché essendo responsabile di due redazioni, in continuazione mi spostavo per lavoro. Tuttavia a casa lasciavo un figlio e una moglie, i genitori, ho due fratelli medici che lavoravano e tuttora lavorano in prima linea. Comunque sono i bambini la categoria che più di tutti pagherà lo scotto di questa restrizione.
Cosa ti ha colpito di questa esperienza?
La solidarietà delle persone che si mettono a disposizione di altre persone. C’è molto cuore, non è vero che siamo una società di egoisti, è vero il contrario invece. I poeti lo hanno dimostrato.
Prevenzione e vaccino: così si sconfigge il virus
di Claudia Carta.
Parte la campagna di vaccinazione contro il Covid-19 anche in Ogliastra. Ne abbiamo parlato con il direttore sanitario dell’ospedale di Lanusei, Luigi Ferrai
Sono molto forti le parole di Papa Francesco. Forti come i tempi che stiamo vivendo. Forti come i rischi che stiamo correndo, quelli oggettivi legati a una pandemia che non sembra cedere un metro nella sua corsa globale, e quelli celati dietro diffidenze, bufale, negazionismo e complottismo.
Vaccino, una scelta etica. È forte anche la presa di posizione che la nostra chiesa diocesana fa, a partire dalla sua guida. La stessa scelta, libera, consapevole, convinta e responsabile che l’intera società ogliastrina fa e deve fare. Libera. Come tutte le scelte…
Eppure: «Credo che eticamente tutti debbano prendere il vaccino – afferma Bergoglio –. È un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita di altri». E aggiunge: «C’è un negazionismo suicida che io non saprei spiegare».
Prevenzione e vaccino sono gli strumenti che ora abbiamo in mano per arginare e sconfiggere il virus.
E allora è corsa contro il tempo per riuscire a mettere a punto la più grande campagna di vaccinazione che sia mai stata realizzata. Siamo in ritardo, è vero, a tratti si naviga a vista, ma la speranza è che, una volta entrata a regime, la macchina possa funzionare spedita.
Obiettivo cruciale e sforzo organizzativo notevole per raggiungerlo. Anche al Nostra Signora della Mercede di Lanusei si lavora senza sosta in questa direzione. È Luigi Ferrai, capo della direzione sanitaria del presidio ospedaliero ogliastrino, a illustrarci logistica e pianificazione: «Abbiamo iniziato la somministrazione dei vaccini lo scorso 7 gennaio: ho inoculato la prima dose del vaccino a una mia collega e successivamente sono stato io il secondo. Solo il primo giorno sono state somministrate 162 dosi di vaccino a medici, infermieri, operatori socio-sanitari e tecnici dell’ospedale. La somministrazione è proseguita anche nei giorni successivi, dal momento che nella sera del 6 gennaio sono state consegnate 426 dosi. Cercheremo di effettuarne quanti più possibile: il 7 gennaio abbiamo testato la macchina organizzativa, siamo in grado di somministrare 200 vaccini al giorno, anche di più. Ci sarà poi il richiamo che verrà effettuato dopo 21 giorni».
La logistica racconta di unità operative, attività di counseling e consenso informato: «Si tratta – prosegue Ferrai – di un’organizzazione che coinvolge diverse figure professionali, in primis gli igienisti, io e il mio collega, dott. Dessì. Abbiamo coinvolto anche un medico anestesista, primario di Anestesia e Rianimazione, dott. Francesco Loddo. Fanno parte, inoltre, dello staff quattro infermieri, tre amministrativi e un Oss. L’iter prevede la somministrazione del vaccino a tutte le unità operative. Abbiamo fatto tre gruppi, ognuno dei quali è composto da sei unità operative e, ogni ora, ciascun gruppo manda un suo professionista. Siamo predisposti per effettuare circa 18 vaccini all’ora, in realtà, siamo riusciti a farne molti di più».
Sui ritardi iniziali, il direttore sanitario risponde così: «Abbiamo perso un po’ di tempo all’inizio, perché abbiamo curato dettagliatamente quella che è la preparazione del vaccino. C’è, infatti, tutto un procedimento da seguire. Successivamente abbiamo organizzato la prima fase, quella cosiddetta del counseling: ogni professionista ha ricevuto una mail con la modulistica da compilare secondo quello che è il consenso informato, allegato che contiene una serie di domande sullo stato di salute della persona che dà il consenso alla vaccinazione. Infine, c’è una parte destinata al medico che gestisce il vaccino, l’indicazione del lotto, l’ora di somministrazione e la data. Dati e documenti che arrivano già con il professionista; io e il mio collega ne controlliamo la regolarità ed eventualmente approfondiamo alcune tematiche prima di dare il consenso alla vaccinazione. Una volta che questa viene effettuata, la modulistica viene trasmessa agli amministrativi che caricano sul sistema i dati, generando un flusso di informazioni a livello aziendale e regionale».
Il vaccino in distribuzione è quello Pfizer-BioNTech, «stoccato in frigo a circa -80° a Cagliari – dice ancora l’igienista –. Le dosi vengono successivamente trasportate a Lanusei o a Nuoro tramite catena di custodia del freddo, attraverso una ditta specializzata».
Attualmente il punto di vaccinazione è collocato all’interno dell’ospedale lanuseino: «Stiamo utilizzando un’ala di un reparto dove sono state allestite quattro stanze: una destinata alla segreteria per la raccolta dei dati, due alla somministrazione del vaccino e una stanza è allestita dal punto di vista rianimatorio se qualcuno, eventualmente, manifestasse qualche reazione allergica. Successivamente ci saranno dei punti di vaccinazione anche sul territorio, ma l’organizzazione territoriale andrà sicuramente in mano all’Igiene pubblica. È indubbio che l’ospedale offrirà, comunque, un supporto sul territorio come sta facendo da tempo perché c’è stata un’ampia e serena collaborazione tra ospedale, distretto, igiene pubblica, centro di igiene mentale. La nostra Asl da questo punto di vista è forte, collaboriamo costantemente, oggi ancora di più».
È ormai risaputo che i primi a essere vaccinati, come da normativa, siano gli ospedalieri, cioè a dire tutti i professionisti coinvolti, per la parte sanitaria, dentro il nosocomio. «Eseguita la somministrazione sulla parte ospedaliera – illustra Ferrai – procederemo con quella territoriale che va a coinvolgere i medici di medicina generale, le guardie mediche, gli specialisti, tutte le persone coinvolte nelle case di riposo, le persone fragili, ecc».
Poi il monito: «Il vaccino non è obbligatorio, ma è fortemente consigliato. Quello che abbiamo fatto in Ogliastra in questi ultimi dieci giorni è qualcosa di eccezionale, oserei dire di grandioso: uno screening di massa al quale hanno aderito quasi 30mila ogliastrini, con 300 sanitari e altrettanti volontari, che ha visto coinvolti 23 comuni e 46 postazioni, con una logistica senza precedenti, dato che la Asl di Lanusei – grazie al coordinamento di Luigi Mereu – ha fatto sì che le sedi avessero tutto il necessario per garantire la somministrazione del tampone antigenico. Il risultato: 152 persone positive che sono state sottoposte immediatamente a tampone molecolare così come i loro stretti contatti. Operazione che si è ripetuta l’11 e il 12 gennaio. Contemporaneamente stiamo somministrando il vaccino. È davvero importante – sottolinea ancora il vertice del Nostra Signora della Mercede – vedere quanto lavoro c’è dietro tutto questo: la direzione sanitaria, i miei più stretti collaboratori, le unità operative, gli specialisti ambulatoriali, i medici di medicina generale, i volontari e tutte le persone che ci hanno aiutato a ottenere un risultato così eclatante».
Sul dovere di fare il vaccino, Ferrai non ha dubbi: «Lo screening è una delle prime linee di prevenzione, è un autentico attacco al virus. Così pure lo è il vaccino. Stiamo lavorando sulla prevenzione e contemporaneamente stiamo cercando di annientare il virus: queste sono le armi che abbiamo in mano e dobbiamo assolutamente sfruttarle».
Sulla via di Damasco. Maria Grazia Manias, nostalgia di Dio
di Augusta Cabras.
Maria Grazia Manias è originaria di Villagrande, lì nasce nel 1949. Dalla sua famiglia e dalla scuola riceve un’educazione tradizionale dove il ruolo della donna è notoriamente definito e circoscritto; insieme eredita un’educazione religiosa, legata al cattolicesimo.
Da Villagrande però Maria Grazia si allontana, con il chiaro obiettivo di saziare la sua sete di conoscenza. Così raggiunge la Capitale e con una borsa di studio triennale frequenta la Scuola di Servizio Sociale fondata da Giovanni De Menasce, figura fondamentale nel dopo guerra per lo sviluppo delle scuole di ispirazione cristiana e di cui oggi poco si conosce.
Siamo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. Sullo sfondo i primi movimenti studenteschi, le contestazioni, la formazione del Fronte Italiano di Liberazione Femminile (FILF) e il Movimento per la Liberazione della Donna (MLD) legato al Partito Radicale, che in quegli anni e in quelli a seguiremetterà molte energie sul fronte della battaglia per l’approvazione della legge che consente il divorzio e l’aborto.
Allo studio presso la Scuola di Servizio Sociale segue per Maria Grazia lo studio e la laurea in Sociologia. «Fu durante i tempi della scuola – racconta – che conobbi Michelangelo. Frequentava il corso con me e usufruiva anche lui di una borsa di studio. Entrambi scoprivamo un nuovo mondo e ci lasciavamo alle spalle quello vecchio. Mi godetti l’incanto del primo amore, sfociato poi nel matrimonio, rigorosamente civile, presso il municipio di Lacedonia, paese originario di lui in provincia di Avellino, il 27 dicembre 1976».
Per Maria Grazia e Michelangelo questo fu il tempo dell’amore, della vita condivisa, dei sogni, della carriera che prende il via… «Quello che fu il mio lavoro principale – prosegue – avvenne quasi per caso in seguito a una domanda fatta su suggerimento di Michelangelo. Lavoravo a Lavinia in assistenza a una ragazza con handicap. Il lavoro di segretario comunale venne successivamente una volta trasferiti in Sardegna» E il ritorno nell’Isola non porta solo il nuovo lavoro, ma anche la maternità con l’arrivo di due figlie che allietano la vita della coppia. «Decidemmo di non battezzarle», precisa, quasi a garanzia della libertà di scelta rimandata al tempo futuro della maturità. «Tra le due maternità – racconta Maria Grazia – ci fu anche un aborto terapeutico al quinto mese di gravidanza, che mi provò profondamente. Ora non potrei fare quella scelta».
La vita della sociologa villagrandese è particolarmente ricca di eventi ed esperienze che segnano il passo della sua storia personale e di quella di coppia. «Con Michelangelo, a un certo punto, vivemmo un periodo di difficoltà. Facevamo fatica a comunicare e queste complessità nella relazione sfociarono prima nella separazione e poi nel divorzio che non causò però l’interruzione del dialogo fra noi negli anni successivi. Io mi presi carico dell’educazione delle figlie e intrapresi un percorso intimo di conoscenza e di studio dello Yoga e delle filosofie e religioni orientali, frequentando la Scuola di Yoga Ratna a Piacenza, diretta da Gabriella Cella. Nel 2003, entrai a far parte dell’albo degli insegnanti. Furono anni importanti in cui ci furono per me diversi incontri, profondi e finalizzati alla ricerca, poiché tutta la vita io la intendo come ricerca».
È con questo atteggiamento di apertura, di curiosità e di costante studio, con questo spirito inquieto di chi cerca risposte alle domande di senso più profonde e significative dell’esistenza, propria e altrui, che Maria Grazia sente la nostalgia del Cristianesimo, o forse, in maniera inconsapevole, sente un’immensa nostalgia di Dio. Maria Grazia inizia così ad aprirgli il cuore. Lo fa nel sacramento della riconciliazione, esattamente nel giornata dedicata alla Madonna di Fatima, il 13 maggio del 2006. Il confessore ascolta. Accoglie con rispetto e misericordia, il racconto di una vita: gli slanci e le cadute, i sogni realizzati e quelli infranti, i doni ricevuti e coltivati e quelli offerti e condivisi. È una confessione liberatoria, catartica. È una riconciliazione con quel Dio più ignorato che contestato, quel Dio che rimette le persone in asse quando tutto sembra disarmonico, il Dio che riassembla i pezzi di una vita, anche quelli che vorremmo scartare, nascondere o eliminare e dona un senso e una luce nuova a tutte le cose. «Ecco, io faccio nuove tutte le cose», dice il Dio della novità e quindi della speranza, della possibilità ma anche del mistero.
Maria Grazia inizia lì e così la sua conversione. «Due anni dopo – racconta – mi venne diagnosticata una forma di sclerosi multipla. In quel periodo mi fu molto vicino Michelangelo, che nel frattempo aveva fatto un suo percorso spirituale avvicinandosi alla fede cristiana. Decidemmo insieme di risposarci, questa volta in chiesa, nel 2013, dopo aver seguito i corsi di preparazione al matrimonio sacramento. Non molto tempo dopo, anche la sua situazione di salute subì un brusco cambiamento ed è attualmente delicata. Nel fluire degli eventi, la conversione continua nel senso che ho capito profondamente che ogni accadimento della vita è per il miglior bene della persona, che spesso non capisce e sta come un bue immoto».
L’amore profondo fra loro è rinato, rinnovato nella consapevolezza, per entrambi e dopo un cammino di scoperta e conversione personale, della presenza di Colui che è Amore. Sempre. Anche nelle difficoltà, anche nella malattia.
Il teatro senza pubblico non esiste
di Giacomo Serreli.
C’è una forma di astinenza che questi ultimi mesi hanno reso ancora più intollerabile; quella che ci ha privato del colore dei suoni di un’orchestra, del calore di una voce che canta, perché no, del sorriso strappatoci dalla battuta di un attore; dello stupore per le perfezioni di una scultura, della meraviglia di un’opera pittorica.
Sensi e sentimenti come costretti al torpore, ibernati. Emozioni atrofizzate difficilmente rivitalizzabili con l’unica alternativa percorribile – adottata in molti casi per dimostrare intanto la volontà comunque di esserci – di non dichiararsi sconfitti: seguire concerti, spettacoli, eventi di cultura, visitare mostre nel gelido allestimento di una fruizione on line, attraverso lo streaming. Emozioni incapaci di destarsi con i soli occhi puntati e orecchie tese verso lo schermo di un personal computer come dello smarthphone.
Lo spettacolo sul palmo di una mano!
L’accesso fisico vietato a teatri, sale concerto, musei ci ha davvero fatto prendere coscienza di quanto ce ne sia realmente bisogno anche per le ripercussioni immediate che le misure anti Covid hanno generato, sul piano economico e sociale, su questo settore, culturale e creativo, letteralmente travolgendolo.
Ed è paradossale perché le pur brevi esperienze temporali consentite, avevano dimostrato come i luoghi dello spettacolo e della cultura meglio di altri erano riusciti ad arginare il contagio epidemico, anche garantendo la loro fruibilità al pubblico seppur contingentato.
Già lo scorso novembre l’annuario degli spettacoli della Siae, relativo al primo semestre di quest’anno, registrava una spesa del pubblico calata del 73% rispetto all’anno prima.
E si sa, superfluo davvero sottolinearlo anche in questa sede, come il contatto con la gente sia un elemento imprescindibile per chi fa spettacolo. Il teatro senza pubblico davvero non esiste, perché è anche stare insieme. Incapsulare musicisti e pubblico in bolle di isolamento, come si è visto in alcuni “spettacolari” e inediti casi, è veramente sterile espediente. Perché spettacolo e cultura sono anche nutrimento della nostra socialità, del nostro ritrovarci e confrontarci. Sarebbe deleterio non dare loro chance di sopravvivenza più concrete anche in questa disumana contingenza.
Per aiutarci a non sentirci ancora più soli e isolati.
Sa Festa manna di Foghesu
di Francesca Lai.
Nonostante il patrono di Perdasdefogu sia San Pietro, onorato il 29 giugno, i foghesini sentono in particolar modo la festa dedicata al Santissimo Salvatore, chiamata in sardo Festa manna e celebrata il 12 settembre. Ogni anno per la ricorrenza religiosa tanto attesa, anche gli emigrati sardi, tornano a casa per le celebrazioni. La festa del San Salvatore affonda le sue radici in un passato lontano: già nel 1700 ci sono notizie dei festeggiamenti, mentre la chiesetta campestre nella località Serra ‘e Idda pare esistesse già dal 1600, interamente costruita in pietra col tetto di tegole e canne, con l’ingresso che si affacciava sugli orti rivolto verso il paese. Oggi la chiesa è stata totalmente ristrutturata, rimane intatta la sua bellezza, immersa nelle campagne tra lecci e querce secolari. Insieme al Salvatore viene portato in processione anche San Giovanni Battista, ma il perché le statue vengano condotte insieme rimane ignota. Il 29 agosto, festa di San Giovanni appunto, i Santi vengono trasportati in spalla dagli uomini del comitato organizzatore, gli obrieri, composto da dodici uomini, sei sposati e sei scapoli, con a capo un presidente che è il più anziano dei dodici, dalla parrocchia di San Pietro verso quella dell’omonimo Santo, dove rimangono fino al 12 settembre. Nove giorni prima de sa Festa manna, tutti i pomeriggi, si svolge il pellegrinaggio e si recita la novena. In passato gli obreri vegliavano le statue dei santi per tutta la notte, sia per scongiurare che venissero rubati, sia per una questione di rispetto: non dovevano essere lasciati soli. Il 12 settembre dalla parrocchia di San Pietro, solitamente alle 10, ci si reca in processione alla chiesetta campestre per la celebrazione della Messa, alla fine della quale vengono intonati dai maestri cantori Is Goccius, canti sacri, che narrano in versetti la vita dei Santi.
In testa al corteo religioso c’è il gruppo delle donne consacrate al Sacro Cuore, che indossano la medaglia col fiocco rosso; subito dopo seguono le donne consacrate alla Madonna, con la medaglia e il fiocco celeste; poi il gruppo folkloristico con le launeddas, segue il parroco e la folla dei fedeli. Alcuni foghesini portano in processione dei panni colorati, retaggio della tradizione spagnola, e forse particolarità unica in Sardegna. Grandi drappi di stoffa dai colori sgargianti, vengono issati su delle croci fatte di canna, gli stendardi come ex voto restano come addobbi nella chiesa. La tradizione vuole che le canne vengano raccolte l’11 settembre, e ripulite dalle foglie, tranne quelle in cima, vengano modellate a seconda della grandezza del panno di stoffa. Dopo la Messa, celebrata solitamente da un prete di un’altra parrocchia la processione riparte.
Is Santus torrant a bidda. Il tragitto di andata e di ritorno non segue mai lo stesso percorso, toccando in questo modo tutti i rioni del paese. È usanza poi che delle persone, facendo un voto al Santo, percorrano il tragitto a piedi nudi; in passato le donne scalze e inginocchiate facevano il giro della chiesa recitando il Rosario.
Lungo i secoli il rituale non ha mai subito modifiche. La festa si è svolta anche durante il fascismo: si racconta che nel 1945, si era partiti da San Salvatore e la fiamma delle candele votive mai si spense durante il cammino. Le statue vengono trasportate di peso dagli obreri. Poco prima di arrivare nella chiesa principale avviene il rito di passaggio: i vecchi componenti del comitato passano i Santi sulle spalle dei nuovi obrieri, annunciati dal parroco durante la funzione, i quali organizzeranno la festa l’anno successivo. Il comitato si occupa della raccolte delle offerte dei paesani, e passa, con una questua, di casa in casa, quando ai foghesini viene donata l’immaginetta del Santo.
Tre giorni di festeggiamenti animano il paese: l’11 settembre, sa dì ‘e sa Strangia, il 12 la Festa manna, e infine il 13 con la giornata che in passato veniva chiamata sa dì de is barateddus, quando gli ambulanti vendevano la merce scontata prima di lasciare il paese. “Sa Strangìa” è ancora oggi molto popolare in Ogliastra. Perdasdefogu era il passaggio obbligato per i pastori che da Arzana e Villagrande lasciavano pascoli e ovili sul Gennargentu si trasferivano a svernare a Monte Cardiga. Gli allevatori venivano invitati dalle famiglie foghesine a trascorrere i giorni di festa nelle proprie abitazioni, si sugellava in questo modo un grande rapporto affettivo e amicale tra le tre comunità, vivo tutt’ora. Anche gli escalaplanesi venivano ospitati a Perdasdefogu, dopo aver festeggiato insieme agli amici del paese limitrofo la festa di Santa Maria il 15 agosto.
Ai riti religiosi, delle tre giornate, vengono affiancati quelli civili. Il paese si riempie di persone da tutto il circondario, ci si ritrova insieme nei lunghi pranzi; la sera, come da secoli, si balla in piazza, si riscoprono vecchie amicizie e il piacere dello stare insieme prima di darsi appuntamento con un arrivederci per i festeggiamenti del prossimo anno.
Leggere “L’Ogliastra” e portarla agli altri
di Maria Mercedes Boi.
Il responsabile parrocchiale del mensile diocesano è una figura di primissimo piano all’interno di ogni comunità: si fa carico di diffonderne la lettura, la promuove con diverse iniziative, facendola entrare nelle case. È contatto fondamentale fra la redazione e le persone. Quando il responsabile parrocchiale presenta il giornale con entusiasmo e grinta, la risposta non può che essere positiva. Siamo andati a Urzulei dove Maria Mercedes Boi ci ha raccontato la sua esperienza
Leggere L’Ogliastra è uno dei momenti che preferisco. Un’abitudine cui non posso rinunciare.
La sua capacità di cogliere aspetti, particolari e generali al tempo stesso, del mondo rendono semplice il compito di cui mi occupo da tanti anni.
Sono la referente per la diffusione nella parrocchia di Urzulei, un piccolo paese che conta più o meno mille persone e che ha sempre apprezzato il mensile diocesano.
La mia esperienza mi vede coinvolta come lettrice e come responsabile dei lavori. Compito che ho accettato con entusiasmo e serietà.
La rete di organizzazione di cui faccio parte consente agli abbonati di ricevere la rivista direttamente a casa.
Attualità, modernità e cura dei dettagli catturano l’attenzione di giovani, anziani e famiglie che si sentono rappresentati e incuriositi dalle informazioni, dalle situazioni e dalle storie che la redazione sceglie di condividere, tanto da considerarlo un regalo gradito e stimolante per parenti e amici.
Ricordo con affetto il primo incontro con il vescovo, Mons. Mura, a una riunione di tutti i referenti ogliastrini per la stampa cattolica. Descrisse e raccontò il significato e il valore della rivista e quanto la costanza e la volontà di collaborare per diffonderla fossero alla base del progetto, ricordando che le parole, le notizie e le storie che leggiamo fanno parte del nostro vivere insieme.
Per ringraziarci dell’impegno e farci sentire indispensabili, il vescovo ripropone questo incontro ogni anno. Un’ esperienza che, oltre a formarci e aggiornarci, fa nascere amicizie e legami speciali.
La passione degli abbonati si palesa quando, con impazienza e curiosità, aspettano il giorno della consegna. Pronti alle nuove storie e alle nuove interviste.
Un aneddoto divertente racconta di un mio compaesano che si è visto recapitare per sbaglio la rivista, destinata a un altro abbonato. Il numero di quel mese riportava proprio un dossier su Urzulei, con interventi e illustrazioni del territorio. La curiosità e l’apprezzamento furono tali da convincere il “lettore per caso” a sottoscrivere subito l’abbonamento. Una spinta alla lettura, insomma, che ha aumentato l’interesse degli abbonati, guadagnandone uno nuovo!
L’Ogliastra, grazie alla possibilità di essere spedita per posta, è fonte di informazione anche per chi ha lasciato la Sardegna e vive oltre mare. Una maniera per restare in contatto con la propria terra e le proprie origini.
Una spinta a partecipare e confermare l’interesse per questo periodico sono i preziosi consigli del nostro parroco, don Marco Congiu, sempre preciso e attento nel ricordare la data del rinnovo tramite il bollettino settimanale.
Altro ruolo fondamentale è la presenza in prima persona del direttore del giornale, Claudia Carta, che dal giorno in cui venne in parrocchia per presentare il nuovo volto della rivista è diventata un punto di riferimento necessario per la gestione del mio lavoro. Il suo interesse, la sua attenzione, la sua professionalità e il suo sostegno, oltre a dare una luce brillante al progetto, hanno reso possibile il coinvolgimento dei cittadini di Urzulei che si sentono parte di uno sguardo comune.
Confronto, condivisione e cooperazione sono alla base dello svolgimento del mio compito.