Fatti
Verso Assisi. Il messaggio dei Vescovi sardi
Fratelli e Sorelle,
con grande gioia vi annunciamo che il 3-4 ottobre prossimo la Sardegna avrà l’onore per la quinta volta di offrire l’olio – secondo una tradizione che si ripete ormai da 82 anni – per alimentare la lampada che arde perennemente ad Assisi dinanzi alla tomba del Patrono d’Italia. L’evento racchiude in sé molteplici significati religiosi, sociali, storici e culturali e vuole stimolare la significativa partecipazione delle nostre comunità insieme all’impegno della Conferenza Episcopale Sarda, la Regione Sardegna e l’ANCI Sardegna.
La Sardegna, secondo alcune testimonianze, ha accolto la presenza dei figli di san Francesco quando il Poverello era ancora in vita, ospitando all’inizio piccole fraternità francescane che rapidamente hanno diffuso nell’isola la spiritualità del Santo di Assisi, suscitando testimonianze di santità che hanno coinvolto religiosi e laici. La santità semplice e umile, vicina alla gente di sant’Ignazio da Laconi, continuata poi nel beato Fra Nicola da Gesturi; la presenza caritatevole di san Salvatore da Horta e la testimonianza martiriale del beato Francesco Zirano, solo per citarne alcuni. A essi si aggiungono le Clarisse, che hanno seguito e seguono l’esempio di santa Chiara di Assisi, la pianticella del Padre Francesco, come ella amava definirsi, e di tanti laici e laiche, fra cui la beata Edvige Carboni, che hanno vissuto e vivono la loro vita cristiana attingendo dalla spiritualità dell’Ordine Francescano Secolare.
Nonostante la distanza storica che ci separa da san Francesco, egli è ancora un santo attuale, un modello di riferimento a cui guardare oggi, come ci ha ricordato più volte Papa Francesco. Attraverso di lui la persona di Gesù ha ripreso vita, come nel suo tempo «ha risuscitato Cristo nel cuore di molti che lo avevano dimenticato» (cfr. FF 470). I grandi temi che occupano la riflessione attuale – dalla cura della casa comune e il rispetto della creazione, all’attenzione ai poveri e alle persone bisognose di cure; da un’economia sostenibile e inclusiva al dialogo con altre religioni impostato sul rispetto e la fratellanza – sono ispirati dalla vita e dalle parole del Poverello di Assisi, senza dimenticare che abbiamo bisogno di ricominciare, col suo aiuto di Patrono, ad amare, ascoltare, onorare, adorare e cantare Dio, vedendolo e servendolo in ogni persona “cun grande umilitate”.
I mesi che ci separano dall’appuntamento di ottobre possono essere per le nostre Chiese un’opportunità di incontro con il Santo di Assisi, occasione di preghiera, riflessione e approfondimento di uno stile di vita che ci viene richiesto non solo dal vangelo ma dalla necessità di affrontare con consapevolezza e scelte coerenti la storia che stiamo vivendo.
L’impegno a offrire il buon olio della nostra terra per alimentare la lampada votiva, sia segno di una preghiera costante a san Francesco, che intercede per noi presso il Signore Gesù, ma anche dell’impegno a rendere sempre visibile e irradiante la nostra fede. Per questo invitiamo tutti a valorizzare il cammino che le Chiese diocesane organizzeranno in preparazione agli appuntamenti del 3-4 ottobre 2021 ad Assisi.
Come Vescovi della Sardegna salutiamo la gente di Assisi, il vescovo, il sindaco, il popolo e le autorità tutte, i frati, le clarisse, il clero, i religiosi e le religiose, i pellegrini e li ringraziamo dell’opportunità che ci è donata.
In questo tempo segnato dalla sofferenza e dalla preoccupazione originata dalla pandemia, chiediamo l’intercessione di san Francesco per avere uno sguardo di fiducia nel futuro e un’attenzione di carità tra noi:
Santo Francesco, chiediamo la tua intercessione
per non spegnere la speranza, ma scrutare il cammino
che si apre a nuove prospettive attingendo
dall’insegnamento di questo tempo difficile.
Santo Francesco, chiediamo la tua intercessione
per lodare e ringraziare il Signore per il dono della vita,
liberandoci dagli idoli del potere e del benessere
a tutti i costi.
Santo Francesco, chiediamo la tua intercessione
per vedere con occhi nuovi l’esistenza
vissuta in fraternità, nella condivisione e nel perdono,
nell’accoglienza e nel dialogo rispettoso verso tutti.
Santo Francesco, chiediamo la tua intercessione
Per imparare a rispettare e amare la natura,
renderci responsabili della casa comune
e rendere grazie a Dio “cum tucte le sue creature”.
A tutti voi, donne e uomini della nostra terra di Sardegna, il saluto francescano:
Il Signore vi dia pace!
ANTONELLO MURA, vescovo di Nuoro e di Lanusei, Presidente
GIUSEPPE BATURI, arcivescovo di Cagliari
GIAN FRANCO SABA, arcivescovo di Sassari
ROBERTO CARBONI, OFMConv, arcivescovo di Oristano e amministratore di Ales – Terralba
SEBASTIANO SANGUINETTI, vescovo di Tempio – Ampurias
MAURO MARIA MORFINO, SDB, vescovo di Alghero – Bosa
GIOVANNI PAOLO ZEDDA, vescovo di Iglesias
CORRADO MELIS, vescovo di Ozieri, Segretario
PREGHIERA DI SAN FRANCESCO DINANZI AL CROCIFISSO
O alto e glorioso Dio,
illumina le tenebre del cuore mio.
Dammi una fede retta, speranza certa,
carità perfetta e umiltà profonda.
Dammi, Signore, senno e discernimento
per compiere la tua vera e santa volontà.
Padre per sempre
di Augusta Cabras.
Mario Mammato, è padre di tre figli: Alfonso Maria, Chiara Elena e Riccardo. Nel 2012, Chiara Elena, dopo una malattia, muore a soli 12 anni. È l’esperienza dolorosa di un padre che in Dio, con la preghiera, trova forza e consolazione.
La lingua italiana è ricchissima di parole, espressioni, suoni. Pare che consti di 270.000 unità lessicali, i lessemi appunto, le parole. E parole sono anche le varie forme che i lessemi prendono una volta flessi per genere, numero, tempi verbali. In totale la lingua italiana dispone di circa 2 milioni di parole dicibili e scrivibili. Quante poi ne usiamo noi effettivamente, è un’altra storia.
C’è una parola per descrivere ogni elemento della natura, anche quella più piccola e invisibile, dal micro al macro; per delineare sfumature di sentimento e colore, carattere e circostanza. Ma in mezzo a questi due milioni di parole ne manca una. E la sua assenza spiega forse l’insostenibile, l’inenarrabile, l’abisso più profondo in cui una persona viene scaraventata. È il dolore per la perdita di un figlio o di una figlia.
Nella nostra lingua, così come in altre (non in tutte), una parola che indichi questa esperienza non c’è. Perché non ci sono parole, e se ci sono forse, possono capirle solo le persone che ne condividono la portata. Mario Mammato è padre di tre figli: Alfonso Maria, Chiara Elena e Riccardo. Nel 2012 Chiara Elena muore dopo una malattia sostenuta con grande coraggio e fede, per una bambina che ha poco più di 10 anni. Raccontare la storia di Chiara, per papà Mario, è difficilissimo. Il ricordo si bagna di lacrime che scendono senza sosta, la voce si spezza continuamente, le parole non sono sufficienti perché sopravvivere alla morte di un figlio è l’esperienza più dura a cui un genitore può essere chiamato. «In mezzo a tanto dolore – ricorda – siamo stati sostenuti da tutta la comunità ogliastrina, dalla Chiesa, dalle associazioni, dai sindacati, dalle scuole. Tutti insieme per Chiara. Da soli sarebbe stato impossibile reggere così tanta sofferenza. Anche mia moglie Maria Stella è andata via, a causa di una malattia, tre anni dopo Chiara. Siamo rimasti in tre e non è semplice. Mi salva Dio, la mia fede che nel tempo si è rafforzata, la preghiera costante, i miei figli, la mia famiglia, i ricordi belli vissuti con Chiara e Maria Stella, alcuni segni speciali e la certezza che loro ci siano ancora e che ci rincontreremo là dove comprenderemo i disegni di Dio, ora imperscrutabili».
Chiara, ricorda Mario, era una bambina serena e allegra. Nella sua parrocchia faceva parte del gruppo dei ministranti e con gioia viveva la sua esperienza di fede. «Ricordo quando eravamo ospiti delle suore domenicane a Roma. Chiara era nel letto dell’ospedale. Mentre guardava dalla finestra il verde del giardino bellissimo, spontaneamente disse: «Vieni, vieni mio Gesù, in possesso del mio cuore, tu sei fiamma, tu sei amore, io vivo solo per Te». Una preghiera bellissima, straordinaria, sulle labbra di una bambina con un grande desiderio di vita, impegnata nella lotta contro la malattia, ma completamente affidata a Cristo. «Mi chiedo sempre se sono stato e se sono un buon padre», dice Mario. È la domanda che assilla i genitori nel desiderio costante che i figli siano felici. È l’amore che la suscita. E anche quando la morte porta via i nostri cari, l’amore donato e l’amore ricevuto, permette di sostenerne il peso. Anche quello della perdita di una figlia. Perché nell’amore si è padri per sempre.
Seulo, a fine estate il tributo di fede ai Santi Cosma e Damiano
di Elisabetta Cadeddu.
Per i tanti devoti che a Seulo festeggiano con fede ed emozione i Santi Cosma e Damiano, due sono gli appuntamenti principali: la terza domenica di maggio (in cui l’organizzazione è affidata agli abitanti del rione basso del paese dove, un tempo, passava la processione) e l’ultima settimana di settembre (che vede la più ampia partecipazione non solo di fedeli seulesi, ma anche di quelli provenienti dai centri limitrofi)
La ricorrenza, celebrata in concomitanza con la fine dell’estate, richiama al paese natio i seulesi sparsi ovunque, a motivo della forte devozione nei confronti dei Santi medici. Attualmente la festa religiosa si svolge nelle giornate di sabato e domenica: il sabato la Messa viene celebrata in Parrocchia, dove sono custodite le statue dei Santi (presumibilmente risalenti al 600); da qui ha poi inizio la processione verso la chiesetta campestre. I simulacri vengono portati in processione sul carro a buoi vestito a festa, percorrendo le strette vie del paese, preceduti da cavalieri, da numerosi gruppi folk provenienti da diverse zone della Sardegna, dagli stendardi portati dalle prioresse della Parrocchia e seguiti dal parroco, da autorità civili e militari e a da una consistente schiera di fedeli. Lungo il tragitto, oltre al fragore de is goettus, echeggiano nell’aria le note del rosario cantato a gran voce da tutti i devoti. La processione prosegue lungo la provinciale, in direzione Gadoni, fino all’incrocio in zona Barigau da dove, attraverso una stretta via di campagna, si giunge alla piccola chiesa. Qui, sono i cavalieri, i gruppi folkloristici e le prioresse che, disposti su due file, accolgono solennemente i Santi che rimarranno nel santuario a loro dedicato fino al giorno seguente. La domenica tutti i fedeli partecipano alla Messa conclusiva, seguita dalla processione di rientro in paese.
Caratteristiche non comuni ad altre realtà religiose sono lo scoppio de sa batteria (composta da numerosi petardi, legati tra loro a mo’ di mitraglia e fatti esplodere al momento della Consacrazione della Messa domenicale) e l’accensione di fuochi pirotecnici a cascata sul sagrato della Parrocchia, all’arrivo della processione del rientro.
La festa civile nelle serate del venerdì e del sabato è sempre animata da esibizioni musicali che richiamano tutti in piazza Parrocchia dove gli obrieri si prodigano nella preparazione di panini e patatine fritte. Tradizione vuole che ogni anno, nella serata della domenica, si rinnovi l’appuntamento con is cantadoris i quali, esibendosi nella piazza Genneria, richiamano i tanti appassionati della poesia sarda.
Gli anziani raccontano che, in passato, la festa religiosa aveva inizio il 27 settembre con i festeggiamenti in onore di Santu Cosumu (San Cosma), per proseguire il 28 con quelli in onore di San Damiano, mentre il 29 si feseteggiava San Michele. La festa, oggi come allora, veniva affidata agli obrieri che, in occasione delle nomine annuali (che tuttora avvengono il primo gennaio a opera del parroco), prendevano in carico il compito con grande devozione. Veniva celebrata nei giorni propri delle ricorrenze liturgiche dei Santi e non rimandata al fine settimana, come invece avviene oggi; cambiamento doveroso negli ultimi decenni per permettere agli emigrati seulesi di rientrare in paese.
La tradizione racconta che la mattina del 27 settembre una partecipata processione, accompagnata dalle confraternite della Madonna Addolorata e della Madonna del Rosario, partiva dalla Parrocchia con i Santi adornati a festa, presi a spalla dai giovani del paese che, quasi a gara tra loro, si alternavano lungo il tragitto. La processione – animata dal rosario cantato, alternato al canto de is Goccius – raggiungeva il rione basso del paese dove tanti fedeli, con la speranza di ottenere grazie e aiuto dai Santi, percorrevano in ginocchio la ripida discesa che conduce al rio Medau fino al ponticello per poi proseguire in piedi fino alla chiesetta. Qui aveva luogo la Santa Messa in onore di San Cosma e nel pomeriggio si faceva rientro in paese.
Nella giornata del 28 si festeggiava san Damiano: Messa celebrata in Parrocchia e processione, sempre molto partecipata, lungo le vie dell’abitato. Il 29 era tutto per San Michele e chiudeva le intense giornate di festa.
Anche la festa civile ha subito negli anni diversi cambiamenti e si svolgeva interamente in piazza Genneria. Tutti, all’epoca, portavano la sedia da casa per poter assistere allo spettacolo in piena tranquillità. Le serate risuonavano delle note dell’organetto abilmente suonato dai seulesi Efisinu Marci e Ninniccu Loddu (Marci Efisio e Loddo Antonio), che non si limitavano a eseguire i tradizionali balli sardi, ma coinvolgevano i presenti a suon di mazurca e valzer.
È ormai due anni che, a causa del Covid, non si respira l’aria della festa e la gioia dell’incontro con parenti e amici. Finora nel paese non sono state riscontrate positività al virus: mi piace pensare che i Santi medici stiano proteggendo i loro fedeli da una malattia così aggressiva e temibile.
La speranza è che presto riecheggino di nuovo le lodi del rosario cantato nelle vie del paese, tra quei muri di pietra, antichi custodi di un popolo devoto ai suoi Santi e che, tra il tuonare de is goettus nei cieli e lo scampanellio dei cavalieri, i pellegrini si dirigano ancora una volta verso la vallata del rio Medau, per rinnovare il voto nella chiesetta ora chiusa, che attende in silenzio il gioioso appuntamento di fine estate.
Polo industriale di Tortolì: milioni… di cose da fare
di Augusta Cabras.
«Il polo industriale di Tortolì, con la presenza di un porto e di un aeroporto, rappresenta il volano per lo sviluppo economico dell’intero territorio».
Quante volte abbiamo letto o sentito questa frase? Tante, tantissime, troppe. Dentro c’è certamente una prospettiva, ma c’è anche la consapevolezza che quella prospettiva sia rimasta tale per troppo tempo, con un basso livello di attuazione. Fossimo a scuola, sentiremmo la frase: ha buone capacità ma non si applica.
Al di là della retorica e delle frasi fatte, davvero questo territorio ha delle potenzialità per lo sviluppo, ma sono stati troppi, nel tempo, gli ostacoli, le battute d’arresto nei processi di crescita e nelle interlocuzioni tra gli enti poi concluse con un nulla di fatto.
Nel dettaglio questa porzione di territorio ogliastrino è caratterizzata dallo scalo marittimo, dall’aeroporto, dalle aree della ex Cartiera, dalle aree attualmente occupate dalla Saipem (in attesa di nuova concessione) ed è su questi elementi che si discute, si programma e si chiedono risorse. Alcuni passaggi importanti proprio in questo periodo si stanno effettuando anche in Consiglio Regionale: una mozione è stata sottoscritta da tutti i gruppi di minoranza, per risollevare la questione della riclassificazione del porto di Arbatax e dell’ingresso nell’Autorità di sistema portuale dei mari di Sardegna.
Tanto impegno, tempo e risorse anche economiche, sono state impegnate dalla stessa Regione Sardegna. Nell’ormai lontano 2012 con l’Assessorato ai Lavori Pubblici, la Ras impegna oltre 18 milioni per la riconversione delle aree dell’ex Cartiera, con 7,3 milioni e il potenziamento del porto di Arbatax con 11,5 milioni. La finalità di tutto il programma di opere è creare le migliori condizioni per agevolare nuovi insediamenti produttivi nell’area industriale portuale e migliorare le infrastrutture esistenti nell’area consortile di cui l’ex cartiera costituisce parte sostanziale.
A oggi però nulla, o poco, è stato fatto.
Ne parliamo con Franco Amendola, commissario da qualche mese del Consorzio Industriale di Tortolì.
(leggi l’intervista integrale su L’Ogliastra di aprile. Corri in edicola, oppure scarica la App e abbonati al giornale!)
Accompagnare alla nascita
di Alessandra Secci.
L’accompagnamento rientra in quel dinamismo che viene definito umanizzazione del parto: l’assistenza alla nascita non è soltanto tecnica ma empatica, e andrebbe a ricreare le condizioni in cui la mamma possa sentirsi a suo agio. Ne abbiamo parlato con il ginecologo dell’ospedale di Lanusei, dott. Marco Dei, ricavandone importanti spunti di riflessione.
2020, anno I di Pandemia, il mondo si ferma improvvisamente. Luci spente, strade deserte, serrande abbassate. Le polizze assicurative vengono congelate, le auto restano parcheggiate in garage e così nelle pompe dei distributori il carburante. Ma la vita, pur confinata nelle mura di casa, scorre: si canta dai balconi, ci si diletta nell’uso senza risparmio di giga internet e lievito madre, scorre nell’inchiostro dei pennarelli e nelle mine delle matite che i bimbi usano per personalizzare i loro variopinti “Andrà tutto bene”.
E scorre nei volti delle future mamme, terrorizzate e irretite al contempo, che nell’incertezza più dilagante trovano, per fortuna e nonostante tutto, delle solide risposte. In ospedale, a Lanusei, e in ambito privato non sono tanti gli specialisti che proseguono nelle visite: occorre fronteggiare tante criticità, dovute a un tipo diverso di approccio, il distanziamento delle pazienti, i tempi dilatati per visitare lo stesso numero di persone, l’individuazione dei presidi di protezione utili, e altro.
È la variabile tempo, come sempre, la più determinante, e le risposte si devono fornire in breve: non si tratta di rimandare una visita specialistica qualunque, c’è in ballo una vita. Due, anzi.
Il Covid ha costretto le figure professionali a una frattura, anche visiva, con le pazienti, con l’utilizzo della mascherina e degli altri Dpi e tuttora persistono delle regole limitanti durante il travaglio, in cui la donna può essere accompagnata dal partner fino alla nascita del bimbo, rimane in un ambiente separato da tutte le altre donne per qualche ora e poi trascorre la degenza lontano dagli affetti, che possono interagire con lei solo attraverso lo schermo del telefono o, meglio ancora, il vetro del reparto.
Di recente è in atto però l’introduzione di un protocollo che prevede l’esecuzione del tampone anche per i partner delle neomamme, di modo che possano partecipare con più libertà e più attivamente al percorso di nascita sin dal primo ricovero. Perché anche stare qualche ora in più in quei momenti è fondamentale, non solo per i genitori, ma anche per gli operatori. L’accompagnamento all’evento rientra in quel dinamismo che viene definito umanizzazione del parto: l’assistenza alla nascita non è soltanto tecnica ma empatica, e andrebbe a ricreare le condizioni in cui la mamma possa sentirsi a suo agio, con la persona che l’accompagna, mimando le dinamiche domestiche e il parto in casa, come una volta. Perché, come una volta, la paura del parto è sempre presente, è un evento traumatico e sia dal punto di vista psicologico che fisico estremamente impegnativo: scegliere dei tempi fisiologici, far capire alla mamma che è un evento naturale, umanizzare il parto senza dare l’impressione di essere in ospedale, che spesso è un ambiente asettico, con lampade chirurgiche, attrezzi sterilizzati e medicinali, e quindi creare un contesto molto più familiare sarebbe il prossimo passo. Spesso si discute tra la necessità che i parti debbano avvenire in grandi strutture dove la specializzazione medica assicura grandi performances, e dall’altro si propone invece di organizzare degli ambienti più intimi, prossimi, dove sì l’assistenza sia impeccabile, ma ci possa essere anche quella cura del dettaglio, quell’attenzione alle neo mamme che smettono di essere numeri.
E così, alla presenza si è accompagnata la prudenza, specie in quanto al giorno d’oggi la vita è concepita diversamente, alcune cose possiedono innate un senso di protezione molto alto, che mostra i nascituri preziosissimi agli occhi delle generazioni che li hanno preceduti.
A Lanusei nessun caso estremo è stato individuato e sono state poche, fortunatamente, anche le occasioni in cui, a malincuore e per cause di impellente necessità e urgenza, si è deciso per l’invio della partoriente al di fuori del presidio lanuseino. Perché subentra qui l’appartenenza al proprio territorio, al proprio substrato: espropriare la donna dal proprio contesto è sempre sbagliato, perché verrebbe meno il contatto con le proprie radici. In Toscana, Emilia Romagna, Veneto esistono le cosiddette Case del parto, strutture meno medicalizzate che assicurano un’empatia maggiore, con gli operatori, parenti, specialisti. La mamma non si sente in ospedale e di conseguenza non percepisce il pericolo.
Nel 2020 il numero di nascite si è mantenuto più o meno sugli stessi standard di sempre: in Ogliastra si riscontra la presenza di alcuni paesi in cui le donne più giovani fanno bambini, altri in cui economie ancora distanti da quello che è l’ideale di sussistenza, si mantiene una linea prudenziale, e si decide per l’allargamento della famiglia in età più tarda. Fisiologico, perché ogni movimento economico ne accompagna altri di carattere sociale. La diminuzione dei parti si è registrata in tutta Europa, ed è una tendenza che ci si deve aspettare.
In questo panorama emergenziale, le piccole strutture come il nosocomio lanuseino hanno dimostrato l’esigenza di esistere, andando ad alleggerire il carico critico al quale le grandi strutture ospedaliere sono state sottoposte e in soccorso a situazioni che sarebbero state sicuramente più sofferenti di quanto non siano già.
La speranza, quindi, è che il Coronavirus faccia in qualche modo aprire gli occhi su quelle che sono le necessità dei territori periferici, di avere dei centri di assistenza con alti livelli di specializzazione, al pari degli altri in quanto a qualità e che possano essere vincenti per quanto riguarda il rapporto diretto con le persone e la conoscenza di un territorio e delle sue particolarità.
L’esempio del Veneto, dove si va reinserendo la figura dell’ostetrica a domicilio, è una direzione alla quale si dovrebbe puntare anche qua, non tanto per l’assistenza al parto, ma per il percorso all’accompagnamento; tali figure sarebbero strategiche nel garantire continuità tra il territorio e l’ospedale, che spesso viene visto dalle donne come un ambiente estraneo: alle mamme dovrà apparire chiaro che il percorso alla nascita è unico, e che l’ospedale è parte integrante del territorio stesso poiché prosecuzione dell’azione svolta dagli altri luoghi e figure di assistenza .
Ci sono ancora difficoltà nell’integrare le diverse entità che lavorano all’interno del territorio ma, appunto, l’accompagnamento alla nascita è una strada rettilinea, che conduce la futura mamma, una volta in ospedale, a sentirsi a casa sua, in un luogo con il quale ha familiarità.
In principio furono 80 ore in reparto
di Alessandra Secci.
Un incubo chiamato Coronavirus e l’isolamento sociale.
Abbiamo incontrato Graziella e Federica, le due infermiere di Loceri che nel marzo 2020 hanno contratto il virus sul luogo di lavoro, l’ospedale di Sassari. Con loro ripercorriamo quei drammatici momenti
Febbraio 2020. Il nuovo Coronavirus comincia a propagarsi sul suolo italiano e già a fine mese le vittime sono centinaia. In Sardegna, Sassari è il nucleo del contagio e l’ospedale Ss. Annunziata il focolaio principale. Graziella e Federica, entrambe loceresi, lavorano come Oss e infermiera presso il reparto di Cardiologia del presidio sassarese: la prima è sposata e ha due bambini, Federica ha due nipotini per i quali stravede.
Marzo. Dopo alcuni sintomi sospetti, la sera di sabato 14 in Cardiologia sono processati i tamponi ai pazienti e a tutto il personale, comprese Graziella e Federica. Il responso arriva la mattina seguente: come per quasi tutti i loro colleghi: positivo. Per un’assurda concatenazione di eventi, le ragazze sono quindi le prime due ogliastrine ad aver contratto il Covid-19.
Dopo gli accertamenti, parte immediatamente un inverosimile rimpallo di responsabilità tra i vari enti, che in breve si trovano a gestire una situazione rognosissima; le malcapitate, già distanti da casa, chiedono a gran voce di poter effettuare l’isolamento in Ogliastra, in un alloggio apposito, ma il loro appello cade inspiegabilmente nel vuoto. Graziella riesce a rientrare al suo domicilio in città, mentre Federica, assieme ad altri colleghi, rimane rinchiusa all’interno del reparto, senza possibilità di lavarsi, cambiarsi, ma continuando stoicamente a fornire meglio che può assistenza ai degenti. Martedì 17. L’unica novità consiste nello spostamento del personale al 4° piano: la frustrazione è immensa e il riposo una chimera. Su Facebook scrive: «80 ore in reparto. Il titolo di un film? No, l’inizio di un incubo».
Il mattino dopo viene finalmente dato il via libera al loro rientro: l’ambulanza, scortata dai carabinieri, arriva a Loceri nel tardo pomeriggio.
Giovedì 19. Tra le testate online che raccontano del loro ritorno, si legge: «Si è discusso dell’operazione, che ha suscitato grandi perplessità nella popolazione di Loceri, comprensibilmente allarmata».
Già, comprensibilmente: i contorni assurdi della vicenda sono racchiusi proprio in questo avverbio. Nelle ragazze, già provate dall’attesa snervante e dalla malattia, a prevalere è però la sensazione di smarrimento: nessuna vasca in centro, nottate in discoteca o precauzioni ignorate, il contagio non è avvenuto di certo così! Per loro il lavoro è una missione, loro sono soldati e quelle riportate sono ferite inferte sul campo di battaglia, non per una mascherina sotto il naso. Non vogliono medaglie, né riconoscimenti.
Eppure a Loceri pare non sia tanto atteso, il loro rientro. Anzi.
In paese vige un clima quasi manzoniano: l’isolamento a cui entrambe sono sottoposte non è solo quello necessario al decorso, ma soprattutto (e purtroppo) quello sociale. Per fortuna, però, le comunicazioni non sono quelle seicentesche e i due soldati, pur provati, tengono ancora botta grazie all’incessante sostegno telefonico delle loro famiglie e dei tantissimi amici. A Federica mancano soprattutto le risate dei nipotini, a Graziella la presenza dei suoi bimbi, ma dopo 34 lunghissimi giorni di positività la prima e 48 la seconda, i tamponi sono finalmente negativi.
Federica, da bravo soldato, rientra subito in trincea, a Lanusei, già da maggio, ed è tuttora impegnata tra screening e campagna vaccinale; Graziella è invece in forze al CSM di Tortolì: per entrambe quindi un 2020 duro, spietato, ma al contempo foriero di speranze e di nuove sfide.
Dinanzi a esse un vero soldato non si tira indietro. Anche senza medaglie.