Fatti
Turismo religioso: dal convegno di Cagliari prospettive e nuove idee
Dopo la firma del protocollo d’intesa, stipulato il 20 gennaio 2022, l’Assessorato regionale al Turismo e la Conferenza Episcopale Sarda hanno organizzato lo scorso 26 marzo un convegno dal titolo “Identità, Cultura Religiosa e Turismo. Condivisione e prospettive di sviluppo”
L’evento si è svolto nell’aula magna della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna ed è visibile in streaming sul canale Youtube della Facoltà.
In un programma molto fitto di interventi, coordinato dal giornalista Paolo Matta, dopo le comunicazioni dei vescovi della Sardegna, sono state rappresentate a vario titolo numerose realtà isolane nell’ambito del turismo religioso. Ognuna ha mostrato le peculiarità del territorio isolano nelle sue variegate potenzialità e differenze. Il convegno ha mostrato, in generale, un quadro complessivo del lavoro fatto e di quello che resta da fare, in termini di marketing, prospettive e nuove idee. In tutto questo è emerso come centrale il ruolo della Chiesa e della Facoltà Teologica: nella formazione e nell’indicare contenuti e metodi di lavoro, ma anche lo spirito essenziale e il senso del pellegrinaggio e del turismo religioso.
Nella sua conclusione, l’assessore regionale del Turismo, Gianni Chessa, ha sottolineato proprio questo concetto: «Il tema dei cammini religiosi è molto importante perché si richiama alla fede. Certo, come politico considero gli aspetti economici e amministrativi, ma come uomo vedo l’elemento della fede come decisivo e questo grazie al rapporto che dobbiamo avere con la Chiesa». Così anche Mons. Antonello Mura, presidente della Conferenza Episcopale Sarda: «Provo gratitudine per questo incontro che ha già raggiunto un risultato: mettere insieme situazioni e persone diverse. È stato quasi un percorso sinodale: ci siamo ascoltati, con uno sguardo prospettico. Adesso è importante fare un salto di qualità e mi riferisco alla formazione e alle risorse da mettere in campo». Nel corso dei lavori, dopo l’intervento di Renato Tomasi dell’Assessorato regionale al Turismo, che ha illustrato il quadro generale e lo stato dell’arte dei cammini e degli itinerari religiosi nell’Isola, Padre Francesco Maceri, Preside della Facoltà Teologica della Sardegna, ha sottolineato il ruolo della Facoltà e ha ricordato l’esperienza pilota portata avanti nel 2018 nella formazione delle guide turistico-religiose.
Il ruolo dei cammini, dei luoghi di pellegrinaggio e degli itinerari spirituali rappresenta per la Regione Sardegna e per la Conferenza Episcopale Sarda un elemento importante per rilanciare e consolidare la valorizzazione del patrimonio turistico-culturale della Sardegna attraverso la riscoperta delle vie cristiane e identitarie percorse nel tempo dai pellegrini. Tutto questo ha anche lo scopo di promuovere un nuovo processo di crescita umana, solidale e culturale-sociale.
L’incontro è stato anche occasione di confronto tra i vescovi rappresentanti le diverse Diocesi su priorità, esigenze di coinvolgimento ecclesiale e disponibilità dei luoghi di culto. Inoltre, sono stati attivati dei tavoli di lavoro tematici funzionali alla condivisione dello stato dell’arte sullo sviluppo delle iniziative del Turismo culturale-religioso nel territorio isolano.
Girasole devota alla Madonna del Monserrato
di Frederic Erminio Todde.
L’8 settembre la Chiesa celebra la nascita di Maria, la madre del Signore. Una data fondamentale per tutti i Girasolesi che onorano la Monserrata Madonna Ogliastra. Di fatto è la festa religiosa più importante e più sentita da tutta la comunità.
Viene celebrata liturgicamente con una Messa solenne e con la processione per il centro storico del piccolo comune. Il corteo con il simulacro della Vergine ricoperta di gioielli si snoda lungo le vie del paese, viene portata in spalla da alcuni volontari, mentre i fedeli seguono il percorso raccolti in preghiera o elevando i canti della tradizione. Partecipano ai riti religiosi anche i cavalieri e i gruppi folkloristici provenienti dagli altri paesi indossando i loro costumi tipici.
Gli anziani ricordano che a “Sa Munserrara”, come viene chiamata in sardo, partecipava tutto il paese, nessuno voleva mancare, giungevano ospiti dall’intera Ogliastra con i carri a buoi che venivano lasciati nella località di S’ortali e sa mendula.
La buona riuscita dei festeggiamenti, religiosi e civili, è da sempre affidata a un comitato composto da solo donne e da un presidente, ruolo che quest’anno è stato affidato a Massimo Mereu.
L’importanza, la devozione, la bellezza della festa e del clima di condivisione e fraternità che la festa della Monserrata ha sempre ricoperto nella comunità di Girasole, si può dedurre anche rileggendo alcuni commenti tratti da una ricerca effettuata dagli alunni della scuola elementare paese nel 1986/87 insieme alla maestra Marisa: «Mi ricordo che i balli si tenevano nella piazza di chiesa, attorno a un albero di acacia oggi non più esistente…»; e ancora: «È stata l’occasione per conoscere Letizia, la donna che poi divenne mia moglie…». Parole che testimoniano di un legame profondo che unisce la popolazione alla Madre di Dio in qualunque momento della vita personale di ciascuno.
Non si può comunque raccontare della festa patronale senza dedicare uno spazio anche alla nostra Chiesa. Da un antico documento della seconda metà del Settecento, realizzato dalla Diocesi di Cagliari, che annovera tutte le chiese di ciascun villaggio, scopriamo che a “Girasol” vi erano ancora presenti sette chiese: «la Vergine di Monserrato, chiesa parrocchiale in cui si conserva il Sacramento; Sant’Antonio, chiesa destinata al culto divino dentro il paese; San Cosimo e San Costantino, chiese destinate al culto divino fuori dal paese; Sant’Alessandro, Sant’Agostino e San Cristoforo, chiese che sono state riconosciute per indecenti».
La parrocchiale intitolata alla Madonna del Monserrato venne edificata in stile gotico aragonese intorno al XVII secolo. Presenta una semplice pianta rettangolare a una sola navata su cui si affacciano le cappelle laterali. Nella parte superiore, domina il grande campanile a vela con tre aperture ogivali dotate di campane poste su due livelli differenti. All’interno della Chiesa, oltre a un antico e pregiato arredo d’altare, sono custodite le interessanti statue di San Sebastiano, Sant’Antioco e San Francesco. Il restauro del 2014 ha portato alla luce degli splendidi affreschi.
Dove prima si vendeva la droga, oggi si spacciano libri. A tu per tu con Rosario Esposito La Rossa
di Augusta Cabras.
Rosario, come è nato il vostro progetto culturale?
Il nostro progetto nasce dopo la morte di mio cugino Antonio Landieri, vittima innocente di camorra. Era un ragazzo diversamente abile di 25 anni ucciso per errore a Scampia durante una faida tra clan. Io ho dedicato un libro ad Antonio che si intitola Al di là della neve, pubblicato da una storica casa editrice di Napoli, Marotta&Cafiero Editori, quando avevo 17 anni. Tutto è partito da lì, dal dolore per la perdita di Antonio e dalla lotta per far sì che venisse riconosciuta, alla sua vita ancor prima che alla sua morte, la dignità che meritava.
Da lì è nato il nostro sogno “impossibile” di rendere Scampia luogo di libri e bellezza, di opportunità e cultura, da lì è nata la storia della nostra casa editrice.
Dopo due anni dalla pubblicazione del mio libro, i proprietari della casa editrice Tommaso Marotta e Anna Cafiero hanno deciso di regalare a me e a mia moglie, Maddalena Stornaiuolo il marchio che abbiamo preso da Posillipo, quartiere bene di Napoli, e lo abbiamo portato a Scampia. Da lì, dal 2010 abbiamo iniziato a questa avventura.
Immagino sia stato anche simbolico, portare la casa editrice da Posillipo a Scampia.
Simbolico e reale allo stesso tempo. È stato un segno per la città, ma fisicamente noi abbiamo la sede a Scampia e pubblichiamo a Scampia.
Come è stata accolta dal quartiere, questa nuova realtà?
Inizialmente a questo progetto non ci credevano molte persone. Noi ci abbiamo creduto e con il tempo siamo arrivati a quello che siamo ora. Siamo cresciuti, siamo arrivati a pubblicare autori come Stephen King, Daniel Pennac, Antonio Skármeta e questo ci ha dato credibilità. Inoltre abbiamo aperto la prima libreria dell’area nord di Napoli, La scugnizzeria, che è una libreria per ragazzi.
Ho letto sulle vostre pagine dell’iniziativa “Libro sospeso”. Di che cosa si tratta?
Il libro sospeso, così come il caffè sospeso, ormai entrato nella tradizione napoletana, è il libro che viene acquistato, lasciato in libreria e distribuito ai ragazzi che non possono permettersi l’acquisto. Seminiamo cultura dove per tanti anni le opportunità culturali sono mancate. Dopo anni e anni di narrazione tossica fatta sul nostro territorio, e su Scampia in particolare, è arrivato il momento di raccontare in modo diverso. È il momento di fare cultura e abbiamo bisogno di un ottimo megafono.
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Come casa editrice quest’anno pubblicheremo Herta Müller, Don DeLillo, Ian Russell McEwan che per noi sono nomi importantissimi e siamo felicissimi di tutto quello che sta accadendo. Mentre, come libreria cercheremo di aprire nei prossimi mesi quello che abbiamo chiamato “L’Ospedale dei libri”, che è un laboratorio tipografico per ragazzi, dove con caratteri mobili di legno e di piombo di fine ‘800 si riuscirà a stampare, così come stampava proprio Gutenberg. L’obiettivo è di insegnare ai ragazzi la stampa e di farne assaporare la bellezza.
Che meraviglia! In questo modo il vostro legame con la città e con il quartiere si fa ancora più stretto, nel momento in cui riuscite a coinvolgere attivamente i ragazzi e le ragazze…
Sì, il legame è molto stretto. Qui vengono più di ottanta ragazzi e ragazze a fare attività, laboratori di teatro… Abbiamo realizzato una sala teatrale in uno spazio polivalente, la Palestra degli artisti, e qui i ragazzi vengono a fare corsi di recitazione.
Oltre all’attenzione per la dimensione sociale e culturale, svolgete il vostro lavoro con uno sguardo speciale all’ambiente.
Per noi è importantissimo anche questo aspetto. Tutti i nostri libri sono stampati su carta riciclata al 100%. Per realizzare i volumi non è necessario abbattere nessun albero. Il processo di sbiancamento della carta avviene senza cloro e il colore grigio della pagine dei volumi è una tonalità rilassante che fa bene agli occhi e agevola la lettura. Gli inchiostri utilizzati per la stampa sono senza piombo, a base vegetale e acquosa, così come le colle utilizzate per la rilegatura sono senza plastificanti. I volumi della casa editrice sono biodegradabili e rispettano totalmente il protocollo di Kyoto. Stampiamo a Km 0, perché preferiamo stampare da tipografie situate nel Comune di Napoli, piuttosto che affidarci a stamperie low cost. I testi sono Long Life, resistono nel tempo e non ingialliscono, non sono libri a obsolescenza programmata. Grazie a questo sistema, ogni volta che vengono stampate 1000 copie di un volume vengono salvati 7 alberi alti 20 metri, risparmiati oltre 438.200 litri d’acqua (219.100 bottiglie da due litri) ed evitato il consumo di corrente elettrica pari a 4900 kWh.
Siete innovativi e sostenibili e i risultati confermano che questa sia la strada giusta e vincente.
Lo speriamo! Non è facile, ma ci crediamo fortemente.
Da quante persone è composta la vostra impresa sociale?
Siamo in sette, arriviamo da percorsi di formazione differenti e ci siamo ritrovati intorno all’amore per i libri. Siamo un’impresa pizzo free, volevamo dare un altro messaggio forte al nostro territorio.
Da Odessa a Tortolì: fuga dal terrore
di Roberta Marongiu.
Katia Zhelenco, classe 1985, nasce l’11 settembre a Odessa in Ucraina dove vivrà fino al 1998 con la mamma Lilliana che lì lavora per un’azienda italiana. È l’8 agosto 1998 quando la famiglia Zhelenco si trasferisce a Roma dove resterà per qualche mese per poi arrivare definitivamente a Tortolì. Qui si sposerà e avrà due bambini, Nicola e Camilla. Qui è riuscita a far arrivare tutta la sua famiglia in fuga dalla guerra
24 febbraio. Katia apprende dai notiziari ucraini – che segue costantemente – e dai social media, che sono state attaccate le prime basi militari, come era stato annunciato dai comunicati ufficiali trasmessi dai canali russi. Il suo primo pensiero corre a Odessa dove vive la sua famiglia con la quale si mette subito in contatto. Natasha, sua cugina, si ritrova da sola con quattro bambini, la più piccola di soli tre mesi, a dover affrontare una situazione drammatica: iniziano ben presto a scarseggiare i medicinali e rifornimenti. Il coprifuoco scatta alle 16. Gli ospedali chiudono i battenti alle 13 e non riescono ad aiutare in maniera adeguata chi, come lei, ha bisogno di auto: la sua bambina, infatti, ha la febbre altissima da tre giorni, ma restano barricate in casa senza riuscire a raggiungere i rifugi.
Altra storia. Stesso dramma. Eugenio, Katerina e Thikon, gli altri cugini di Katia, riescono a scappare prima che vengano chiusi i confini e che venga impedito agli uomini soggetti a obbligo militare di lasciare il paese. Raccolte le poche cose essenziali, affrontano un viaggio di oltre quattro giorni per raggiungere la libertà. E la libertà si chiama Sardegna. Eugenio sa che forse non potrà più fare ritorno nella sua terra: verrebbe arrestato con l’accusa di aver abbandonato la patria e non aver prestato servizio durante il conflitto. Ma l’unico pensiero, ora, è mettere in salvo la famiglia.
La solidarietà dimostrata da tutti al loro arrivo qui in Ogliastra riempie il cuore di gioia e speranza: Thikon, 7 anni, viene accolto a braccia aperte da insegnanti e compagni di classe.
Eppure qualcuno è ancora rimasto nell’inferno ucraino: «Riesco a sentire costantemente i miei parenti – racconta Katia – ci video chiamiamo ogni sera. Le nostre telefonate iniziano tutte con “Ciao, come state?”, anche se ormai questa frase mi appare quasi superflua, vuota. Sentire la voce spezzata dai singhiozzi, vedere i volti dei miei parenti rigate dalle lacrime, lascia un senso di impotenza in me, ci separano tanti chilometri e non riesco a essergli vicina come invece vorrei in questo momento così difficile. Posso solamente cercare di fargli sentire tutto il mio affetto e la mia vicinanza». Sentirli è ciò che la conforta in questo momento, sapere che sono ancora tutti vivi; stare “bene” è un’altra cosa.
Passano i giorni e il conflitto si inasprisce sempre di più. Preoccupazione e angoscia aumentano: «Finalmente ho ricevuto la notizia che speravo di ricevere da quando è iniziato questo maledetto conflitto – continua –: il resto della mia famiglia è riuscita a scappare e mettersi in salvo in Moldavia, da parenti di mia zia. Presto arriveranno anche loro qui e la nostra famiglia sarà finalmente al sicuro».
Parlare ai suoi bambini della guerra non è facile, spiegare che momento drammatico stanno attraversando in Ucraina i loro cuginetti. Ma la loro innocenza riesce a sorprenderci: è infatti la piccola Camilla di soli quattro anni a dire con infinita tenerezza: «I miei cuginetti sono venuti a vivere qui perché da loro ci sono tante persone che stanno litigando».
29 marzo. È l’una del mattino. Il resto della famiglia Zhelenco arriva finalmente a Milano e poi in Sardegna. Esplode la solidarietà degli ogliastrini che da subito si attivano per raccogliere vestiti, scarpe, giocattoli per i bambini. Per Katia un’emozione infinita. Dai suoi occhi ora traspare un filo di serenità: è riuscita finalmente, dopo un mese dall’inizio della guerra, a riunire la sua famiglia. Il suo viso è solcato nuovamente dalle lacrime, ma questa volta sono lacrime di felicità.
Gairo Vecchio, modello di resilienza
a cura di Claudia Carta.
Resilienza. Sì, ma della struttura urbana. Alla base dell’idea progettuale per far rivivere il vecchio borgo di Gairo, tecnici e amministratori sono partiti dall’analisi della capacità che un insediamento ha di adattarsi ai cambiamenti climatici, economici e sociali. In gergo si dice resistenza a un evento, ovvero la capacità di non soccombere completamente di fronte a una situazione improvvisa e al determinarsi di nuove condizioni ambientali, sociali ed economiche e – conseguentemente – la capacità del paese/città/luogo di rinascere attraverso la programmazione di interventi e azioni coordinate. Il rischio – vedi quello idrogeologico – c’è, ma è necessario imparare a conviverci mediante una accurata pianificazione del territorio e, soprattutto dell’assetto insediativo.
In questo senso, la rigenerazione urbana di Gairo Vecchio – che non può non partire della messa in sicurezza dinamica dell’insediamento e del territorio – può rappresentare un nuovo modello di insediamento finalizzato allo studio e alla ricerca dei fenomeni di rischio e pericolo per i territori, con l’individuazione di soluzioni applicabili a diversi contesti urbani o territoriali.
Tuttavia, anche il migliore degli studi possibili e anche la più valida delle strategie di rilancio in chiave urbanistica, sociale e turistica di un abitato – nella fattispecie quello colpito dall’alluvione del secolo scorso – nulla può davanti alla mancanza di fondi, finanziamenti e risorse opportune e dedicate. Quelle messe a disposizione dal Pnrr – che di ripresa e resilienza ha fatto i suoi motori trainanti – sarebbe stata davvero un’occasione d’oro per vedere realizzati gli interventi che avrebbero finalmente consentito la fruibilità del paese fantasma: dal restauro degli edifici alla realizzazione di spazi pubblici, dal recupero della viabilità interna e dei percorsi pedonali alla rifunzionalizzare degli edifici come centro di documentazione e studi, dal concetto di residenzialità turistica di Gairo Vecchio fino alla creazione di safety zone, ovvero spazi che garantiscano la sicurezza dell’insediamento in caso di eventi calamitosi o di situazioni di rischio e pericolo per la popolazione.
È chiaro, niente andrà perduto di tutto ciò che è stato progettato e studiato. Sarà importante un passo alla volta – e un finanziamento per volta – per non rinunciare a un patrimonio storico, sociale e identitario di tale portata.
Ne abbiamo parlato con Sergio Lorrai, sindaco di Gairo. [L’intervista integrale è sul n.4 de L’Ogliastra]
San Giorgio è di casa a Urzulei
di Cristina Murgia.
San Giorgio è un santo molto caro all’Ogliastra e alla Sardegna intera, ma fu proprio Urzulei a essere scelta da lui stesso come casa. Si racconta infatti che venne nel paese in visita pastorale e mentre arrivava in località su Piscau additò il sito in cui oggi sorge la sua chiesa e disse: «Custa est sa domu mia pro mortos e po ios, custa est sa domu nostra po ios e po mortos» (Questa è la mia casa per i morti e per i vivi, questa è la nostra casa per i vivi e per i morti).
La stessa parola su Piscau viene dal latino episcopus, vescovo, indicando chiaramente il Santo. Fu quindi per suo volere che fu costruita la chiesa, la quale nella pietra sacra dell’altare reca un graffito che porta il numero 1523, data presunta di edificazione, anche se si pensa che ce ne fosse un’altra antecedente, in quanto la devozione del Santo risalirebbe a subito dopo la sua morte o a quando ancora era in vita. Nel sagrato della chiesa, fino agli anni Trenta del ‘900, venivano anche inumati i morti e questo ha contribuito ad accentuare la richiesta di protezione di San Giorgio per i vivi e per i defunti, considerando il Santo un “angelo tutelare”, come lo definisce il defunto parroco don Angelo Satta nel suo libro Breve cronistoria di Urzulei.
La festa in suo onore si svolge la terza domenica di agosto ed è la più grande che il paese festeggi, in occasione della quale tornano gli urzuleini emigrati, per un senso di appartenenza e di fede che solo la festa del Patrono sa donare.
La data fu cambiata più volte nel corso degli anni: in origine i festeggiamenti avvenivano in aprile, ma poi si decise di spostarla a luglio per motivi legati ai tempi della raccolta del grano, permettendo così alle famiglie di avere il pane nei giorni festivi. Da luglio venne poi spostata ad agosto al fine di permettere agli emigrati di tornare al paese per assistere alla celebrazione e anche per agevolare l’arrivo di pellegrini, sempre numerosi.
Un tempo per la festa di San Giorgio, San Giovanni e Sant’Antonio c’era l’usanza di dare il pranzo ai poveri e ai forestieri: alle tre del pomeriggio le campane suonavano la refezione e le persone accorse nella piazza della chiesa si disponevano secondo l’età, da una parte le donne e dall’altra gli uomini, e veniva servito loro il pasto. Questa tradizione non è totalmente scomparsa: ancora oggi, il giorno di San Giorgio, il comitato organizzatore della festa prepara un pranzo comune a cui possono partecipare tutti i cittadini e, al tempo stesso, viene portato nelle case delle persone sole o molto anziane.
Dopo il triduo di preghiera, arriva il giorno tanto atteso. Nel primo pomeriggio il simulacro viene vestito e adornato con gli ori votivi e di ringraziamento per le preghiere esaudite, e successivamente portato in processione in spalla da quattro uomini. Una moltitudine di fedeli accompagna il Santo lungo il corteo aperto dalle donne in abito tradizionale che cantano il Rosario in sardo. Quando si passa in processione tra le vie del paese il tempo sembra fermarsi: chi non prende parte al corteo si affaccia alle finestre o aspetta il passaggio del Santo davanti all’ingresso di casa e alla sua vista fa il segno della Croce.
Finita la processione, solo i più fortunati riescono a entrare nella chiesa, troppo piccola per contenere tutti i fedeli, i quali ascoltano la voce del parroco che esce dagli altoparlanti e ci ricorda che anche quest’anno San Giorgio ha interceduto per noi, ci ha ascoltati e protetti. Finita la Messa, è d’obbligo il saluto al Santo: con compostezza si raggiunge uno per volta la statua per toccarla e rivolgere una preghiera. Con le norme anti-covid non è più permesso toccare il simulacro, ma il solo stare alla sua presenza è sufficiente per avvertirne la vicinanza e la protezione.
I festeggiamenti civili, che si alternano con le celebrazioni religiose, durano tre giorni (da venerdì a domenica) a cui si aggiungono i due giorni dell’ottava, ovvero il sabato e la domenica successivi, per la quale solitamente vengono chiamati i poeti estemporanei. Gli anziani del paese ricordano che quando ancora la festa veniva fatta in aprile, proprio dai poeti fu cantata la storia di San Giorgio. Narrarono che i genitori erano servi presso una donna greca che una notte sognò la madre del Santo incinta, pur essendo molto avanti con l’età e sterile, e una voce che le intimava di trattarla bene. Nacque così Giorgio, un bambino forte e sano che studiò e diventò vescovo a soli 22 anni.