Fatti
Triei dedica la biblioteca a Olga Corrias
di Francesco Manca.
Dallo scorso agosto la biblioteca comunale di Triei porta il nome di Olga Corrias, la ricercatrice scomparsa due anni fa, a soli 43 anni. Un’eccellenza sarda nel mondo, rimasta nel cuore di chi l’ha conosciuta come un esempio di amore per la vita in tutti i suoi aspetti.
L’idea di dedicare a lei la biblioteca è nata poco dopo la sua scomparsa tra i fedales che con lei avevano condiviso l’adolescenza, vivendo momenti di crescita proprio in quella che sarebbe diventata la biblioteca e che allora si chiamava “sala di lettura”. La proposta è stata accolta con entusiasmo dall’amministrazione comunale guidata da Anna Assunta Chironi e, dopo poco più di un anno, il progetto si è concretizzato. Il 17 agosto, la sindaca ha scoperto la targa con il nome di Olga Corrias, dopo aver ricordato la brillante ricercatrice e il suo attaccamento al paese, sempre presente anche anni dopo averlo lasciato per seguire i suoi sogni, prima in Italia e poi negli Stati Uniti per amore del marito Matt Hancock, presente all’inaugurazione con la figlia Emilia e il figlio Bruce, ai quali la vicesindaca Tiziana Murru ha letto una lettera accorata e piena di speranza.
A Olga è stato dedicato anche un ritratto, opera di Serenella Randazzo e Alessandro Chironi, corredato dalle sue parole, destinate al marito: «Non essere triste, abbiamo tante cose di cui essere felici. Io sono felice».
Tutta la comunità era presente all’evento. A ricordare l’amica sono state le sue coetanee – Maria Francesca Murru, Luisa Murru, Barbara Frailis – che ne hanno elogiato il carattere aperto e il desiderio di conoscenza.
Nel 2016 Fabiana Carta intervistò Olga Corrias per L’Ogliastra. In quell’articolo scriveva: «Questa è la storia di un cervello in fuga un po’ diversa dal solito». Diversa perché Olga non era affatto un cervello in fuga, come ha sottolineato la presidente dell’associazione Voltalacarta, Loredana Rosa, che ha coordinato il convegno. «Olga aveva una forte autodeterminazione e ha scelto la sua strada non come fuga ma come apertura, ha scelto di andar via per crescere senza mai rinnegare il luogo d’origine: è stata una costruttrice di ponti». Loredana Rosa ha anche posto l’accento sulla toponomastica femminile. «Con questa intitolazione, la biblioteca di Triei è la quarta in Ogliastra, su ventidue, a essere dedicata a donne».
Lo scrittore Giacomo Mameli ha messo Olga Corrias tra le eccellenze sarde e ha ricordato come le donne siano più attente alla cultura rispetto agli uomini: «Non solo ci sono più laureate, ma se guardiamo agli eventi culturali scopriamo che l’87 per cento sono organizzati e fruiti da donne».
Olga era anche una paladina delle pari opportunità. Per questo, nella biblioteca sarà presto inaugurata una sezione dedicata agli studi di genere.
Tanti i momenti toccanti: i commenti amorevoli di Emilia e Bruce nel vedere sullo schermo le foto della loro mamma; la meravigliosa versione di Non potho reposare intonata “a cappella” dalla cantante Manuela Mameli; il saluto finale di Matt che ha parlato di gratitudine per la sua vita con Olga, e per la comunità trieddina che si è stretta intorno alla famiglia: «Guardandovi, posso dire quando e dove ho conosciuto ognuno di voi. Ha detto bene Loredana: Olga è stata una costruttrice di ponti, l’ha fatto nel lavoro, nella famiglia e nei legami con la sua comunità». E ha concluso riprendendo le ultime parole di Olga: «Io sono felice. Grazie Triei».
Le nostre feste. Talana. Sant’Efisio
di Aurora Mesina.
La festa di Sant’Efisio, a Talana, quest’anno si è svolta il 30 aprile, il 1° e il 2 maggio, cioè i tre giorni che comprendono la prima domenica del mese mariano.
La festa si articola in tre giorni durante i quali, in un certo senso, è come se tutto il paese si trasferisse nei pressi della chiesetta campestre per vivere insieme i momenti religiosi e quelli sociali di condivisione della mensa e degli altri festeggiamenti.
Il sabato pomeriggio viene portato il simulacro del Santo dalla chiesa parrocchiale di Santa Marta di Talana fino alla chiesetta campestre a lui intitolata, a circa 17 km dal centro abitato. I fedeli preceduti dalla croce e dagli stendardi e dal gruppo folk Santa Marta di Talana accompagnano a piedi la processione del Santo dentro il centro abitato fino all’uscita del paese, con le melodie delle launeddas e dell’organetto. Successivamente si porta il simulacro a bordo di un mezzo fino alla località Sant’Efisio (nella piana di Talana) per poi essere trasferito sul suo carro trainato dai buoi fino alla chiesetta nel parco di Sant’Efisio, un luogo dedicato esclusivamente alla festa paesana. All’arrivo viene celebrata la Santa Messa seguita dal canto de is Goccius. Al termine i balli tradizionali scandiscono la festa. Ogni famiglia si ritira per cenare nelle rispettive logge, ovvero i piccoli appezzamenti ognuna di loro custodisce, cura e “apparecchia” a festa!
Mentre il comitato organizzatore prepara la cena in su arrebustu, il locale in dotazione agli organizzatori della festa religiosa, vengono invitate le autorità religiose, civili e militare, oltre le rispettive famiglie e gli amici. Nel frattempo, proseguono i festeggiamenti di piazza.
La domenica le logge si animano nuovamente per il pranzo, sempre vissuto in condivisione, anche con numerosi visitatori provenienti dai paesi vicini che si riuniscono molto volentieri per vivere insieme questi gioiosi momenti. Il pomeriggio viene celebrata la Santa Messa preceduta da una breve processione attorno il sagrato e seguita dal canto de is Goccius, viene offerto dal comitato un rinfresco a tutti i presenti e poi nuovamente ci si appresta a consumare la cena, la festa comunitaria prosegue per l’intera serata.
Il lunedì mattina è invece dedicato al ritiro e al riordino dei luoghi, si consuma un pranzo frugale e nel primo pomeriggio il simulacro del Santo viene nuovamente caricato a bordo del mezzo che lo riporterà alla chiesa di Santa Marta a Talana dove verrà celebrata la Santa Messa e cantati is Goccius, Rinfresco e festeggiamenti in piazza concluderanno l’edizione.
Sono circa 17 anni che la festa di Sant’ Efisio è organizzata dal comitato dei 40enni, che cura la festa religiosa, a meno che non ci sia un obriere privato, ovvero un singolo o una famiglia che intende offrire la festa per una promessa o per grazia ricevuta. Quest’anno sono stati i ragazzi del 1982 a prendere l’impegno dell’organizzazione: dalla pulizia del luogo all’illuminazione e allestimento del parco, dalla ricerca dei contributi utili per la riuscita della festa all’organizzazione del pranzo. Davvero un grande lavoro.
La chiesa e la leggenda
La chiesa di Sant’Efisio si trova nella campagna del territorio comunale di Talana. Pare risalga al 1700 costruita con pianta rettangolare, tipica caratteristica delle chiese campestri, e il tetto formato da tegole sarde, a capanna. Nella facciata è presente il portone principale e un piccolo campanile a vela. Circa la costruzione dell’attuale edificio, viene tramandata una leggenda che racconta della scomparsa di un bambino e dell’apparizione del Santo al padre disperato, che promette la costruzione del tempio in cambio del ritrovamento del figlio. Il miracolo avviene. Da allora, ogni anno nella prima domenica di maggio, una grande festa apre il ciclo delle sagre campestri di tutta l’Ogliastra.
Tuttavia, sembra che fosse già presente un edificio religioso di epoca precedente. Nell’inventario dei beni culturali conservato negli archivi della parrocchia, infatti, viene riportato quanto segue: «Il sito della chiesa e la dedicazione al Santo guerriero Efisio fan pensare alla notizia riportata dalla “Passio Sancti Ephisii”, secondo cui egli, inviato dall’imperatore in Sardegna per debellare una rivolta e perseguitare i cristiani, ebbe una visione celeste e si convertì al Cristianesimo. Lo sbarco in Sardegna sarebbe avvenuto nell’antico Portus Sulpicius di cui parla Tolomeo, da identificarsi in Solci, l’attuale Girasole. La chiesa sarebbe sorta a ricordo del fatto, e risalirebbe alla conversione stessa della popolazione al Cristianesimo, per opera di Sant’Efisio divenuto, da persecutore, apostolo. Certo nel sito della chiesa c’era un paese che in epoca imprecisata, forse nel secolo XI, durante le invasioni di Mugahid (Museto) si trasferì all’interno, unendosi all’abitato di Talana o dandogli vita…».
Mullò, un luogo del cuore da far rivivere
di Fabiana Carta.
Per amore verso il paese natale e i luoghi della loro infanzia, Giorgio, Valeria e Riccardo, dopo lunghe esperienze all’estero, hanno deciso di prendere in gestione la struttura ricettiva comunale all’interno del parco di Mullò
Luoghi del cuore, li chiamano. Custodiscono con dedizione i nostri ricordi d’infanzia, frammenti d’immagini, sensazioni e profumi. Ognuno di noi ne ha almeno uno. Con i suoi lentischi millenari, la chiesetta campestre dedicata a Sant’Antonio da Padova, la vegetazione spontanea e la luce del sole apparentemente più forte che in qualsiasi altro luogo, il parco di Mullò occupa un posto importante nella memoria emotiva di tre giovani ragazzi di Triei. Così importante da richiamarli a sé.
Valeria Catzola e suo fratello Giorgio, insieme al cugino Riccardo Loi hanno ascoltato questo richiamo decidendo di partecipare al bando comunale per l’affidamento del punto di ristoro all’interno del parco, abbandonato da quasi vent’anni. In questo lungo arco di tempo nessuno prima di loro ha avuto il coraggio di investire forze e speranze sulla struttura immersa nel verde, probabilmente impaurito dai lavori necessari per riportarlo allo splendore di un tempo.
Tutti e tre hanno un bagaglio di esperienze accumulate all’estero, anni e anni vissuti lontano da casa. Dal piccolo paese che si tinge di giallo grazie alla distesa di ginestre, dal silenzio e la pace del lento scorrere del tempo alla stimolante, affascinante e caotica Londra. A soli 19 anni, dopo il diploma alberghiero, Riccardo è il primo a lasciare l’isola e buttarsi nel mondo della ristorazione: «Sono rimasto in Inghilterra fino al 2016, poi sono partito a fare un’altra esperienza in Australia per quattro anni. Ero un po’ stanco della lontananza, iniziava a farsi sentire in maniera forte», racconta.
Valeria è partita nel 2013, per raggiungerlo. «L’idea era di stare a Londra qualche mese, per imparare l’inglese, invece sono rimasta per quasi nove anni. È stata un’esperienza molto utile e impagabile, da consigliare a tutti. In Sardegna siamo un po’ chiusi, andare lì mi ha permesso di conoscere persone provenienti da tutto il mondo e migliorarmi il più possibile nel mio lavoro. Qui ho anche incontrato il mio compagno Josh Clark, manager di sala di origini sudafricane che verrà a lavorare con noi a Mullò», racconta Valeria. Anche Giorgio ha trascorso degli anni nella capitale inglese per poi rientrare nell’isola e lavorare nell’impresa di famiglia, è l’unico del gruppo a non avere fatto nessuna esperienza nel mondo della ristorazione. «Mi occuperò soprattutto della parte burocratica», spiega.
Era l’estate 2020, nel mezzo di una pandemia mondiale appena scoppiata, quando Valeria e il suo compagno Josh si ritrovano a ragionare sul loro futuro. Restare in Inghilterra o tornare nella terra natale? Lasciare tutto e tornare a casa, ma per dedicarsi a cosa? «Non volevo riprendere la vita che facevo prima di partire, ho sempre detto che avrei valutato la possibilità di tornare al mio paese solo se avessimo avuto un progetto tutto nostro. Forse non sarei neanche rimasta a Londra a continuare a lavorare come dipendente, era arrivato il momento di fare un passo avanti», spiega Valeria. Proprio in quei giorni carichi di riflessioni e valutazioni notano la notizia del bando, pubblicata dal comune di Triei. «Io e Josh avevamo preso da poco una casa in affitto per tre anni – continua –, questa notizia ci ha acceso una fiammella e allo stesso tempo spaventato. La struttura da prendere in gestione era molto grande, avremmo dovuto mettere in conto un grande impegno e un investimento altrettanto grande. Alla fine, dopo averci pensato tanto, abbiamo deciso di provarci».
In questo ambizioso progetto coinvolgono anche Giorgio e Riccardo, che accettano per amore verso quel luogo, punto di riferimento per ogni abitante del paese. «Mullò per me rappresenta tante cose, i ricordi d’infanzia riaffiorano – racconta Riccardo –: i due giorni della festa di Sant’Antonio, quando ci si riuniva con tutto il paese per i festeggiamenti, la chiesa e il parco giochi, dove ci divertivamo con gli amici».
Per alcuni può sembrare un luogo isolato, troppo lontano dal mare o dal paese, ma per i tre giovani nella struttura c’è un grande potenziale. Proprio la natura, l’isolamento, la pace e il silenzio, uniti alla storia e al legame con il parco sono tutti motivi che li hanno spinti a investire tutto su questo progetto. «Abbiamo creduto in questo posto perché ha tanto da offrire, e per troppi anni è stato lasciato solo a sé stesso», commenta Riccardo. La decisione di Valeria, Giorgio e Riccardo è anche una sfida allo spopolamento. Tantissimi giovani – così come hanno fatto loro – sono partiti a cercare esperienze e fortuna all’estero, il loro progetto potrebbe essere uno stimolo per tutti i compaesani che sono andati via, che hanno il timore di rientrare e investire nel proprio territorio. «Il nostro desiderio è di far crescere Triei, nuove idee e nuovi progetti potrebbero spingere altri giovani a restare, provare a fare qualcosa per il proprio paese», raccontano. I tre giovani prevedono e sperano di aprire il ristorante pizzeria a Pasqua dell’anno prossimo, a lavori ultimati. Sembrava una responsabilità troppo grande prendere in gestione la struttura del parco di Mullò, ancora più grande per dei giovani ragazzi che devono riabituarsi alla Sardegna e ai suoi ritmi. Anche investire tempo e soldi per una struttura che non è la tua può aver fatto nascere dei dubbi. Ma l’alternativa sarebbe stata continuare a guardare uno dei loro luoghi del cuore invecchiare, lentamente, per chissà quanti anni ancora.
San Cristoforo tiene Lotzorai sulle sue spalle
di Don Damien Celeste Randrianandrianina.
Lotzorai, come un po’ tutte le comunità della nostra Diocesi, è particolarmente legata alle proprie tradizioni e ama venerare e festeggiare i suoi numerosi Santi. A partire dalla patrona della parrocchia, Sant’Elena Imperatrice, che si festeggia l’ultima domenica di agosto; Santa Maria in Donigala, nel quartiere omonimo, la domenica successiva all’Assunta; San Sebastiano, l’ultima domenica di maggio; San Tommaso, la prima domenica di luglio presso la chiesetta campestre non lontana dall’abitato; San Francesco d’Assisi e Gesù Bambino di Praga.
In questa occasione, però, vogliamo conoscere meglio un’altra festività cara ai lotzoraesi, San Cristoforo.
Mentre, a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, dal 2020 fino a pochi mesi fa erano bandite tutte le manifestazioni, anche religiose, comprese le processioni, nel caso di San Cristoforo non è stato così. Questo, come vedremo più avanti, a motivo della sua storia e della tradizione tramandata da secoli relativamente al suo svolgimento.
Oltre altri patronati della biografia, San Cristoforo è stato sempre venerato come il patrono di quelli che hanno a che fare con il trasporto, come barcaioli, pellegrini, pendolari, viandanti, viaggiatori, facchini, ferrovieri, autieri. Nei tempi moderni il suo culto è stato rilanciato su scala mondiale perché è stato proclamato protettore degli automobilisti.
San Cristoforo si festeggia la prima domenica di agosto. La festa inizia di buon mattino, quando il comitato uscendo per le vie del paese, porta la corona del Santo di casa in casa accompagnato dal suono festoso delle launeddas o della fisarmonica. Al passare della corona, le famiglie tributano l’omaggio al Santo, lasciando un’offerta che viene successivamente depositata in parrocchia per l’organizzazione dei festeggiamenti. Il giro si conclude, infine, con un momento conviviale che vede protagonisti oltre al comitato, tutti gli invitati: un memento di condivisione, di gioia e di incontro in onore del santo.
Il momento più bello e solenne è certamente la celebrazione della Santa Messa che coinvolge tutta la comunità, solitamente alla sera intorno alle 19. Dopo la benedizione finale, ha luogo la processione, diversa da tutte le altre e questo spiega, appunto, il fatto che anche in questi ultimi anni sia stata fatta ugualmente: il simulacro del Santo, infatti, viene caricato su una macchina preparata appositamente e resa bella con drappi e fiori. Il parroco prende posto accanto all’autista sulla stessa auto, mentre tutti i fedeli seguono con la propria, facendo risuonare con i clacson le vie e le piazze lungo il tragitto: partendo da Lotzorai, si arriva alla frazione limitrofa di Tancau per poi far ritorno in paese.
Al rientro presso la chiesa parrocchiale, con il Santo ancora svettante sulla macchina ferma sul sagrato, il parroco dalla scalinata che sovrasta la centralissima via Roma benedice tutte le macchine che hanno partecipato al corteo. La festa si conclude con l’invito al rinfresco dopo la reposizione del Santo, mentre la serata prosegue con i consueti festeggiamenti civili.
Protettore dei viaggiatori
L’immagine più frequente di San Cristoforo raffigura un gigante barbuto che porta su una spalla Gesù Bambino, aiutandolo ad attraversare le acque di un fiume; Gesù Bambino regge sulla punta delle dita il mondo, come se giocasse con una palla. Questa immagine risale a una delle leggende agiografiche più note relative al Santo martirizzato il 25 luglio a Samo, in Licia.
Secondo questa tradizione, il suo vero nome era Reprobo, era un gigante che desiderava mettersi al servizio del re più forte del mondo. Giunto alla corte di un re che si riteneva invincibile, si mise al suo servizio, ma un giorno si accorse che il re, mentre ascoltava un menestrello che cantava una canzone che parlava del diavolo, si faceva il segno della croce. Gli chiese come mai, e il re gli rispose che aveva paura del diavolo, e che ogni volta che lo sentiva nominare si faceva il segno della croce per cercare protezione.
Il gigante si mise allora alla ricerca del diavolo, che giudicava più potente del suo re. Non gli ci volle molto per trovarlo, e si mise a servirlo e a seguirlo. Ma un giorno, passando per una via dove c’era una croce, il diavolo cambiò strada. Reprobo gli chiese per quale motivo l’avesse fatto, e il diavolo fu costretto ad ammettere che su una croce era morto Cristo e che lui davanti alla croce era costretto a fuggire spaventato.
Reprobo allora lo abbandonò e si mise alla ricerca di Gesù Cristo. Un eremita gli suggerì di costruirsi una capanna vicino ad un fiume dalle acque pericolose e di aiutare, grazie alla sua forza e alla sua statura gigantesca, i viandanti ad attraversarlo; certo Cristo ne sarebbe stato felice e forse un giorno si sarebbe manifestato a lui.
Un giorno il gigante buono udì una voce infantile che gli chiedeva aiuto: era un bambino che desiderava passare sull’altra riva. Il gigante se lo caricò sulle spalle e cominciò ad attraversare le acque tumultuose; ma più si inoltrava nel fiume, più il peso di quell’esile fanciullo aumentava, tanto che solo con molta fatica il gigante riuscì a raggiungere la riva opposta. Lì il bambino rivelò la propria identità: era Gesù, e il peso che il gigante aveva sostenuto era quello del mondo intero, salvato dal sangue di Cristo. Questa leggenda, oltre a ispirare l’iconografia occidentale, ha fatto sì che San Cristoforo fosse invocato patrono dei barcaioli, dei pellegrini e dei viandanti.
Le altre feste
San Francesco, la cui festa ricorre il 4 ottobre, è legata alla forte presenza in parrocchia, da tanti anni, delle Terziarie Francescane. Così come cara alle terziarie è anche Santa Elisabetta d’Ungheria, il 17 novembre.
Gesù Bambino di Praga, il 25 gennaio, è solitamente organizzata dall’Azione Cattolica. È usanza fare una di colletta per Gesù bambino, i cui proventi vengono donati alla parrocchia.
San Tommaso viene organizzata da un apposito comitato. Festa religiosa (piccola processione con il Santo intorno al piazzale della chiesa) e momenti conviviali si svolgono tutti nella omonima chiesa campestre.
Anche Santa Maria in Donigala, una tra le feste più sentite, è organizzata dal suo comitato. Tutto si svolge nel quartiere di Donigala.
Per la festa della patrona, Sant’Elena Imperatrice, ogni anno il comitato organizzatore è diverso, così come per San Sebastiano, anche questa particolarmente cara ai lotzoraesi. In quest’ultimo caso, durante la processione si fanno tre momenti di sosta, in luoghi diversi, dedicati all’asta del Santo: un modo originale per effettuare il passaggio di consegne con l’augurio di un buon lavoro al comitato che dovrà organizzarla l’anno successivo.
Così nacque la chiesa di San Pietro a Golgo
di Gian Luisa Carracoi.
“Près du cap et de la montagne Monte-Santo” si trova adagiato il borgo di Baunei con i suoi quattrocento abitanti, o poco più, i quali per la maggior parte sono carpentieri. Si narra che questo particolare villaggio sia stato fondato da un cavaliere intorno al X° secolo. Inizia così la bellissima descrizione del paese ogliastrino scritta dal Valery, pseudonimo di Antoine-Claude Pasquin, bibliotecario del re nel palazzo di Versailles e di Trianon. Il suo “Viaggio in Sardegna” occupa il secondo volume di un progetto più corposo, dal titolo “Voyages en Corse, à l’île d’Elbe et en Sardaigne“.
L’illustre bibliotecario continua: «Sur le Monte-Santo est l’église rurale de Saint-Pierre» la cui festa viene celebrata con un grande accorso di fedeli che vivono l’incontro di fede in grande armonia e nel rispetto delle antiche tradizioni.
La chiesa campestre, dedicata all’apostolo Pietro, che l’iconografia rappresenta come colui che con le chiavi apre la porta del cielo, si trova immersa nella meravigliosa natura incontaminata dell’altopiano calcareo a pochi passi dalla voragine di Su Sterru da dove, secondo la leggenda, fuoriusciva il serpente infernale che divorava le vergini del borgo.
La struttura dell’edificio, a navata unica, è molto semplice. Essa è circondata tutt’attorno da una cinta muraria in pietra, all’interno della quale sono ancora presenti i vecchi alloggi per i pellegrini. L’edificio sacro non risulta citato nella Visita Pastorale del Visitador Miguel Catala nella primavera del 1621, ma un prezioso documento archivistico ci attesta che nel 1776 venne sottoscritto un contratto per la sua riedificazione. Il Mestre Battista Musu della città di Cagliari, domiciliato nella villa di Sorgono, e Mestre Antonio Musu, suo figlio, domiciliato nella villa di Bauney, si presentarono davanti al notaio insieme al Reverendo Dottor Pedro Marcello Carta – Rettore della stessa villa -, al sindaco Ignazio Sebastiano Fenude, ai consiglieri Mestre Juan Santas Bargiony, Salvador Marginesu y Marcos Lay Baria e ai Principali della comunità, Marcos Antonio Lay, Juan Calcangiu, Antonio Calcangiu, Juan Santus Sechy, Juan Foddis, Pedro Mereu, Maggiore di Giustizia e Stefano Incollu.
I due maestri muratori si obbligarono a riedificare dalle fondamenta la chiesa in onore del Glorioso San Pietro apostolo in Golgo. Tutti i lavori, secondo gli accordi presi, dovevano essere ultimati entro cinque anni e la chiesa doveva essere consegnata compresa di presbiterio, i muri intonacati con paletta grossa e fina e la copertura di tegole. Si obbligavano anche a risarcire gli eventuali danni che si fossero presentati entro dieci anni dalla consegna. Per questa impresa i Musu avrebbero ricevuto cento scudi sardi a testa, divisi in tre rate: una parte all’inizio dei lavori, un’altra a metà, l’ultima al compimento dell’opera. Essi sottoscrissero tutte le condizioni pattuite. Il Rettore e i principali della villa, a loro volta si presero l’impegno di procurare tutto il materiale utile alla costruzione della chiesa, mentre a carico del solo Rettore sarebbe stata la diaria di quattro soldi per ciascun muratore e per tutto il tempo del loro lavoro.
Come la profondità carsica nell’immaginario collettivo è diventato metafora del peccato, così la chiesa di San Pietro è simbolo forte di redenzione e di sentiero verso il Paradiso.
A braccia aperte senza paura
di Fabiana Carta.
La famiglia Lai di Lanusei ha offerto ospitalità a tre profughe ucraine in fuga dalla guerra: mamma Olenka, la figlia Dara e la nonna Tamara
Esistono due modi per prendere una decisione: uno richiede il soffermarsi a ragionare e scandagliare le intenzioni e le possibilità, l’altro modo è seguire l’istinto. Va’ dove ti porta il cuore, e le scelte di cuore non hanno bisogno di troppi ragionamenti, né sono schiave della paura.
Il 24 marzo scorso, Lanusei ha accolto circa trenta profughi ucraini in fuga dalla guerra. Sono tante le famiglie che hanno offerto ospitalità. Una di queste è la famiglia Lai: papà Roberto, mamma Lucia e i figli Alessia e Mauro. «Il pensiero è venuto in mente sia e me che a mio padre, un pensiero spontaneo e veloce. Ne abbiamo parlato con mia madre, mio fratello e mia cognata: eravamo tutti d’accordo. Così ho contattato i servizi sociali per avere subito informazioni e dare la nostra disponibilità», racconta Alessia.
Il piano terra della loro abitazione, di solito utilizzato per passare dei momenti tutti insieme durante la stagione estiva o per preparare pane e dolci, sembra una sistemazione perfetta. Con qualche accorgimento e l’aggiunta di tre letti, è diventato il rifugio accogliente per mamma Olenka, 32 anni, sua figlia Dara di 4 anni, e per la nonna Tamara, di 60. Una parentesi di normalità, una boccata d’aria che però non annienta le preoccupazioni.
Dopo il grande pranzo offerto ai profughi appena arrivati in paese, organizzato dall’associazione “4 stelle” che si occupa di ristorazione collettiva, aziendale e scolastica, si sono svolti gli incontri con le famiglie ospitanti. Un momento inaspettato, di grande commozione generale. «Io e mia madre siamo andate nella sede della mensa scolastica a prendere le tre persone da accogliere; mio padre, mio fratello e mia cognata sono rimasti ad attenderle a casa – ricorda Alessia –. L’arrivo lì è stato profondamente emozionante: la vista di tutte queste persone, così spaesate e intimorite ci ha fatto realizzare concretamente quello che stava succedendo. Ci ha messo di fronte al dramma: un popolo disperato che sta espatriando. È stato molto toccante, per tutti. Non potevamo sapere cosa avremmo trovato».
Nessuno è preparato o può prepararsi ad affrontare emozioni che ti prendono per il colletto e ti trascinano dentro, le lacrime non si trattengono. Arriva il momento delle presentazioni, quello in cui gli sguardi s’incrociano e l’imbarazzo di Olenka, Dara e Tamara si fa evidente. «Mia madre ha abbracciato tutte e tre, in barba al Covid! Ma ormai aveva capito che da quell’istante sarebbero diventate parte integrante della famiglia e che avremmo condiviso la casa. Il distacco fisico non avrebbe avuto senso».
L’inglese è l’unico canale comunicativo, se non si contano i gesti e gli sguardi, certo. «La prima cosa che ho voluto domandare è chi, fra i loro cari, avessero lasciato in Ucraina, e come stessero», continua Alessia. A Leopoli è rimasto il marito di Olenka, padre della bimba, e a Lutzk – nell’Ucraina nord occidentale – il marito di Tamara e suo figlio.
Dopo il breve tragitto in auto finalmente l’incontro con il resto della famiglia Lai e il cagnolino, che li ha accolti sorprendentemente con una pallina, in segno di gioco e amicizia. «Il gesto del mio cane ha fatto sciogliere l’emozione, li ha fatti rilassare, abbiamo riso tutti insieme. Da un lato eravamo dispiaciuti per loro, preoccupati per quello che stavano vivendo, dall’altro eravamo contenti di accoglierli e di poter dare una mano. Con l’augurio che possano tornare presto nelle loro case», spiega. Per chi ha lasciato tutto, da un giorno all’altro – patria, casa, affetti, la vita quotidiana – è importante pensare che questa sia una situazione momentanea, che tutto tornerà a essere come prima. Per tenere sempre accesa la speranza. Intanto si cerca in tutti i modi di alleggerire, regalare piccoli momenti di fugace serenità, soprattutto se si ha a che fare con i bambini. L’appartamento messo a disposizione è stato addobbato con bandierine, palloncini blu e gialli e tanti giocattoli per Dara. I buoni gesti sono contagiosi. «Si sono movimentati tutti: conoscenti, familiari e amici, chiunque ci conosca. Ognuno di loro ha voluto contribuire regalando giochi o vestiti per la bimba. Tutto il paese ci sta aiutando in qualche modo, a partire dalla pizzeria di fiducia alla macelleria, che ci regala della carne in più. Una solidarietà diffusa».
La convivenza va molto bene, Olenka, Dara e Tamara sono persone molto buone, a modo, dolci, serene, profondamente dignitose. «Fosse per loro non chiederebbero mai niente e anche quando offriamo qualcosa hanno difficoltà ad accettarla. Ogni giorno ci avviciniamo per chiacchierare un po’ e tutte le domeniche li invitiamo a pranzo per stare tutti insieme. È un’occasione per fare delle passeggiate al mare, loro in Ucraina lo vedono ogni paio d’anni. Ci dicono che viviamo in un film, sono affascinate dai paesaggi», racconta Alessia. Un modo per regalare momenti di distrazione, di bellezza, per gli occhi e lo spirito. «Una settimana dopo il loro arrivo, Olenka si è avvicinata per chiedermi: “Come mai avete scelto di accogliere degli estranei?”. Anche a lei sembrava una cosa strana. Ci ho pensato, forse fa parte della cultura della nostra famiglia, degli insegnamenti, dell’educazione. Mia nonna viveva a fianco del tribunale e ospitava spesso le mamme dei detenuti, degli imputati. In qualche modo fa parte del nostro essere».
La storia della famiglia Lai è la storia di tante famiglie che hanno aperto le loro case e le loro braccia, mettendo da parte la paura. Chi accoglie non solo mette a disposizione uno spazio, soprattutto si fa carico di un bagaglio personale di tristezza, timori, sofferenza, bisogni. Ma – ricordiamo – le famiglie ospitanti non sono mai sole, c’è sempre un contatto diretto con i servizi sociali e le istituzioni. «Vorrei dire alle altre persone che non c’è da avere paura nell’essere accoglienti. È più importante accogliere e aiutare, piuttosto che avere paura. Se tutti pensassimo con più empatia potremmo fare molto di più», conclude Alessia.