Fatti
Perché così pochi oratori?
di Fabiana Carta.
“La cura delle giovani generazioni, bambini, ragazzi ma anche adolescenti e giovani, in oratorio si basa da sempre sul ruolo centrale di relazioni personali e significative”.
Don Riccardo Pascolini, presidente del Forum oratori italiani, va dritto al punto e sceglie molto bene le parole: cura e relazioni. L’oratorio dovrebbe essere lo strumento che consente alla Chiesa di svolgere la sua vocazione educativa, uno spazio, un luogo che accoglie e si fa carico dell’altro, valorizza, ascolta.
Nella nostra diocesi ci sono delle bellissime realtà oratoriali, ma sono ancora troppe le parrocchie dove non si riesce ad avviare delle attività che coinvolgano i giovani o la comunità, dove non esiste una programmazione, un progetto pensato per i ragazzi. I problemi e le situazioni variano da paese a paese, restano però dei punti che accomunano tutti. «È quasi scontato che per vivere una dimensione oratoriale nelle nostre parrocchie sia fondamentale la presenza dei nuclei familiari completi, non solo la presenza giovanile o dei ragazzi, e soprattutto non solo la presenza del sacerdote come unico educatore o accompagnatore», spiega don Alfredo Diaz, direttore dell’Ufficio di Pastorale giovanile e vocazionale. A volte si hanno difficoltà a trovare delle forze laiche all’interno della parrocchia, o non si conoscono le potenzialità delle persone che si potrebbero coinvolgere. Non solo volontari, ma anche persone su cui investire con una formazione specifica. «Credo che nelle nostre parrocchie non nascano gli oratori perché non sappiamo bene cosa siano, la maggior parte della gente pensa si tratti delle solite cose, ci si confonde col catechismo o il semplice gioco del pallone – continua don Alfredo –. Oltre alla carenza quasi totale di collaboratori coraggiosi nell’impegno parrocchiale che vogliano uscire dagli schemi conosciuti fino a ora e desiderosi di intraprendere una formazione oratoriale nuova. I tentativi di costituzione oratoriale in alcuni casi sono venuti meno perché è venuta a mancare la famiglia, non abbiamo delle figure adulte capaci di accompagnare i ragazzi».
E allora come fare? «Per creare mentalità oratoriale, secondo me, sarebbe opportuno vivere momenti con tutta la famiglia, al di fuori della Messa domenicale, che rimane comunque il giorno dell’incontro più bello. In modo da poter scoprire le qualità e gli strumenti che abbiamo già, cosa che per distrazione o mille impegni a volte manca a noi sacerdoti e alle nostre comunità parrocchiali», conclude.
È sicuramente vero che spesso basta solo chiedere, avvicinare la comunità per un incontro, uno scambio di idee. «Ho trovato nelle risorse umane del paese le persone che poi alla fine sono quelle che mandano avanti le attività. Capita che nella parrocchia ci siano delle potenzialità che non si conoscono, che restano nascoste, si ha paura di coinvolgerle. Bisogna ragionare in una dimensione d’oratorio nuova e l’unione bisogna cercarla anche al di fuori della Messa», spiega Sergio Mascia, responsabile dell’oratorio interparrocchiale di Lanusei.
L’oratorio può essere anche un luogo rassicurante per i genitori: «Pensiamo che i nostri figli dovrebbero avere un tempo e un luogo dove incontrarsi, stare insieme, condividere esperienze, avere momenti per riflettere e perché no?! anche per pregare – spiega un gruppo di mamme –. È necessario che soprattutto gli adolescenti abbiano opportunità educative di valore, alternative ai pomeriggi che oltre allo studio non offrono niente».
La devozione di Bari Sardo per Sa Munserrara
di Gian Luisa Carracoi.
La Parrocchia di Barì, intitolata fin dal tardo Cinquecento a Nuestra Señora de Montserrat, ha sempre portato avanti con profonda e intensa devozione l’amore per la Vergine Maria. La particolare dedicazione trae origine dal monastero benedettino sorto circa mille anni fa sulla meravigliosa montagna in Catalogna. Essa è tanto particolare che sembra segata da artistiche mani angeliche, così come viene simbolicamente richiamata dalla sega d’argento che il simulacro della Vergine porta appesa al collo e dai due quadri a Lei dedicati.
Il culto per Santa Maria di Montserrat fu tra le devozioni asburgiche quella che certamente conobbe maggior diffusione in Sardegna e la Madonna non tardò a offrire il suo sguardo materno e miracoloso verso un umile figlio bariese.
Nella chiesa parrocchiale di Bari Sardo il simulacro seicentesco della Patrona con in mano il Bambino Gesù troneggia tutto l’anno dalla nicchia più alta dell’Altare Maggiore. Da alcuni anni, prima del triduo essa viene calata giù per essere più vicina al popolo orante, coccolata da un ricco allestimento di drappi azzurri, e sormontata da una corona in legno dorato, gioiosa idea dell’allora parroco don Giampaolo Matta, che la realizzò con le sue mani.
L’8 Settembre, Natività di Maria, è il giorno dedicato a Sa Munserrara, da sempre la festa più attesa dal popolo bariese. Un tempo per questa santa giornata si cessava qualsiasi attività lavorativa per lasciare spazio alla vita spirituale, familiare e sociale; era un’occasione per riunirsi e incontrare parenti dai paesi circumvicini, ma anche momento di socializzazione da vivere con i propri compaesani. Gli Obrieri Maggiori erano i fedeli incaricati di curare tutti i preparativi della festa patronale, tra i quali la questua, strumento attraverso il quale riuscivano a racimolare un ricavo in denaro o in prodotti artigianali utili ai festeggiamenti, mentre altri introiti venivano ricavati dall’affitto del sagrato ai vari torronai.
A partire dagli anni ’30 del Novecento l’organizzazione della festa venne presa in carico da comitati spontanei, mentre oggi viene curata dai feralis (fedalis, da “foedus” = patto)sotto l’aspetto sia religioso che civile e le sono dedicati 3 o 4 intensi giorni.
Durante la Santa Messa della vigilia gli stessi si riuniscono in chiesa per la benedizione delle corone, le quali guarnite con nastri colorati e petali di fiori, vengono portate il giorno successivo con devozione di casa in casa per tutto il paese come segno della presenza di Maria Santissima. Il loro cammino viene accompagnato dal suonatore di organetto diatonico o di fisarmonica. Tutti attendono con trepidazione il loro arrivo e, mentre il comitato offre in dono l’immaginetta della Vergine, ogni fedele ama lasciare una piccola offerta nel cesto della Corona. É questa una tradizione molto antica. Nel passato, in tempo di particolare calamità, il vescovo chiedeva di limitare le questue, ma nel 1810 per Barì fece un’eccezione: infatti permise ugualmente la questua del mosto, a patto che non si spendesse nulla per polvere da sparo, pranzi, rinfreschi, paga dello zampognaro, balli e acquisto di premi per la corsa dei cavalli.
Oggi i festeggiamenti prendono il via con il triduo di preghiera. Sa dì de festa manna il sacerdote oltre alle due messe mattutine, al tramonto celebra la Messa solenne animata dai canti e dalla presenza in alcuni casi di un predicatore straordinario, come accadeva nel passato. Durante la celebrazione alcuni feralis in mestizia portano ai piedi dell’altare l’offertorio, costituito da pane, olio e vino. Prima della benedizione finale il sacerdote e i fedeli leggono insieme una preghiera di ringraziamento offerta dai feralis.
Al termine della Messa si dà il via alla lunga processione che attraversa le vie principali del paese. Un tempo il simulacro della Madonna veniva portato a spalla, mentre oggi è consuetudine portarlo sul carro a buoi addobbato con fiori e ghirlande. A capo del corteo religioso ci sono i cavalieri, seguono i gruppi folkloristici, la banda musicale quando è presente, gli stendardi dell’Azione Cattolica e della Monserrata, la Confraternita del Santo Rosario, il carro con la Madonna, il parroco e le rappresentanze civili e militari, il coro e i fedeli.
Le donne e il sacerdote intonano su Rosàriu alternandosi con isgoccius, le antiche preghiere, che insieme alle melodie delle launeddas contribuiscono a creare un’atmosfera religiosa di intensa spiritualità. La processione è accompagnata anche dallo sparo dei guettus, piccoli razzi che con il loro caratteristico boato comunicano a tutta la comunità l’avvio della processione e della festa. Pranzi, rinfreschi e balli erano tradizione nel passato e lo sono tutt’ora. Una nota recente è invece la grande lotteria. Tutte le serate della festa vengono animate da complessi musicali e dall’immancabile fisarmonica. L’unica particolarità che si è persa della festa patronale è la corsa dei cavalli, i cosiddetti palii, anticamente promossi dai governatori spagnoli.
Quando il turismo è responsabile. IT.A.CÀ è di casa in Ogliastra
Il festival del turismo responsabile ha coinvolto quest’anno, a settembre, quattro paesi: Lanusei, Jerzu, Villagrande Strisaili e Ussassai.
È un piccolo esercito di migranti e viaggiatori con la passione per l’ambiente, visitano il mondo rispettando i popoli e i loro habitat, muovendosi e riconoscendosi come esseri naturali e sociali interconnessi, all’interno di un sistema dove non esistono massificazioni globali ma realtà locali che conoscono la genuinità dei rapporti e che sanno di non dover rinunciare a se stesse per essere accoglienti.
Nasce con questo spirito in Ogliastra la seconda tappa di IT.A.CÀ il festival del turismo responsabile che è approdata nell’isola coinvolgendo quest’anno quattro paesi: Lanusei, Jerzu, Villagrande Strisaili e Ussassai. Un grande evento con lo sguardo sul tema “HABITAT – Abitare il futuro”, ricco di esperienze e dibattiti legati alla sostenibilità e all’ambiente in uno dei luoghi più belli e autentici della Sardegna, quella Sardegna che non è fatta solo spiagge di sabbia bianca, mare smeraldo e vacanze da vip, ma che risponde ai temi della sensibilità ambientale, del rispetto per la natura e della visione del futuro.
Per 10 giorni gli ospiti provenienti da tutta Italia e dall’Europa si sono dati appuntamento per quasi 40 eventi organizzati in contemporanea alla 14° edizione nazionale. Il Festival – promosso da YODA aps e Nexus Emilia Romagna, con il patrocinio nazionale Ministero della Cultura e A.I.T.R Associazione Italiana Turismo Responsabile e con il supporto Città metropolitana di Bologna – deve proprio a queste terre la sua origine. In Emilia infatti il festival fonda le sue radici e il suo nome: il viaggio responsabile parte da casa e arriva a casa (ît a cà = sei a casa? in dialetto bolognese) ma riporta anche alla Itaca del mito di Ulisse. Locale e globale quindi perché il viaggio non sia solo come una semplice vacanza o un momento di svago, ma un’esperienza profonda, di conoscenza e scoperta del mondo, vicino e lontano da casa. Un modo di pensare che spinge gli organizzatori di tutta Italia a influenzare positivamente il comportamento del turista, promuovendo un mondo in cui le persone comprendono che le dinamiche economiche, la soddisfazione del viaggiatore e la protezione dei patrimoni naturali, sociali e culturali sono indissolubilmente connessi. Un luogo in cui il turismo non condanna, ma piuttosto lascia prosperare i territori locali e le persone che li abitano.
In sintonia con il tema sono ovviamente le parole-chiave di questa edizione, sviluppate dagli esperti del settore intervenuti alle conferenze, dagli ospiti che le hanno fatte proprie e da chi ha l’interesse per il destino del nostro pianeta. Nei 10 giorni di Itacà Ogliastra tutti hanno applicato i loro modi di vivere consapevoli partecipando a esperienze, degustazioni, camminate, trekking, laboratori di cucina e incontri all’insegna del turismo sostenibile.
«L’Ogliastra con la sua natura è senza dubbio uno dei piatti forti di IT.A.C.A’ – dice Jean Luc Madinier dell’agenzia di ecoturismo Sardinia Fair Travel –, i suoi abitanti sono una delle ricchezze che richiamano l’interesse dei visitatori appassionati delle bellezze naturali e della buona tavola. Stiamo scoprendo che il festival può essere anche una occasione per acquisire una migliore consapevolezza sul rispetto dell’ambiente, ma anche per offrire nuove chance di lavoro per chi vuole ripensare un turismo sostenibile. Questo è il momento giusto per vivere con ritmi più lenti, ritrovarci e condividere insieme l’interesse per la natura meravigliosa che ci ospita».
Quattro paesi protagonisti perfettamente in tema alla edizione 2022. Villagrande Strisaili ha ospitato gli eventi legati alla natura del suo Gennargentu, dal Selvaggio Verde, la visita alle sue bellezze naturali di Bau Mela e del Lago Bau Muggeris, i suoi siti archeologici di Sa Carcaredda e S’Arcu de is Forros, i murales ma anche la vita al monte del pastore, la Food Forest per ridurre l’impronta ecologica dovuta ai viaggi e la panificazione come momenti di convivialità.
A Jerzu non sono mancate le sorprese con la visita alle Cantine di produzione del Cannonau, unite alle escursioni a dorso degli asini, alla scoperta dei meravigliosi Tacchi di Jerzu, la passeggiata alla ricerca delle erbe profumate che diventano tisane e la musica delle launeddas.
Ussassai ha detto la sua con le sorprendenti cene social eating, la guida per il centro urbano accompagnati dal sindaco Francesco Usai in prima persona e poi l’acquatrekking in uno dei posti che meglio rappresentano la natura selvaggia di cui l’Ogliastra può vantarsi.
Lanusei, quartier generale delle sei conferenze, ha fatto da punto di ritrovo sociale accompagnando i suoi ospiti a conoscere la storia con le visite al sito archeologico del Bosco Selene. La cittadina ha saputo accogliere relatori e pubblico con la maestria che sottolinea l’accoglienza tipica del turismo lento.
E così in un’epoca di interrogativi drammatici sulla sostenibilità del nostro modello di sviluppo e sull’impatto socio-economico e ambientale dei nostri stili di vita, IT.A.CÀ ha saputo promuovere una nuova etica del turismo e proporre abitudini responsabili per muoverci e conoscere il pianeta attuando principi di giustizia sociale ed economica, nel rispetto dell’ambiente e delle culture.
Il festival si è chiuso in Ogliastra con la vendemmia turistica nelle Tenute Pelau di Jerzu: tra i filari hanno risuonato la fisarmonica e i brindisi degli ospiti mentre altre realtà in Italia stanno in queste ore avviando la loro edizione, altre ancora hanno chiuso in festa i loro eventi che si sono realizzati su una rete di oltre 700 realtà locali che basano le loro attività su questi principi, con l’obiettivo di coniugare la sostenibilità del turismo con il benessere dei cittadini. Tutte torneranno a lavoro per garantire l’appuntamento al 2023.
Una Chiesa per tutti e con tutti. La lezione della Pastorale del turismo
di Claudia Carta.
«È il segno di un’estate che vorrei potesse non finire mai». Melodie note o pensieri ad alta voce. Scegliete voi. A non cambiare è il respiro profondo e la sua portata emotiva, lo spessore culturale e la pregnanza sociale, l’incontro e il confronto, l’ascolto, le domande e le risposte, il dubbio e la riflessione, la gag e lo spettacolo, la musica e l’arte. Il mese di agosto appena trascorso ripone in archivio l’edizione numero otto della Pastorale del turismo per la diocesi di Lanusei, la terza per quella sorella di Nuoro.
Un tutto armonico? Perché no, almeno nelle intenzioni, perché in un evento di tale portata – che ha annoverato al suo interno 19 giornate ospitate all’aperto, nell’Anfiteatro Caritas di Tortolì e nell’Area Fraterna de La Caletta (Siniscola), con ben 22 protagonisti noti al grande pubblico, fra radio, televisione e teatro, vita politica, ambiente universitario, mondo della comunicazione e dello spettacolo, che si sono distinti per il loro operato e la loro professionalità, per la loro arte e la loro fede, per la capacità di trasmettere messaggi e contenuti positivi, perché hanno avviato idee imprenditoriali nuove, rispettose dell’ambiente e della sostenibilità – vuole pensato, strutturato e progettato. Esattamente come recitava lo slogan di quest’anno: “Osservare. Pensare. Progettare. Qual è la tua proposta?”.
E le diocesi – con in testa il vescovo Antonello Mura, irrefrenabile visionario e instancabile realista – non hanno mani smesso di offrirla questa proposta. La Chiesa che fa turismo? Sì. La Chiesa che propone eventi e spettacoli? Sì. La Chiesa che porta fuori la gente – fuori dalle proprie case, dalle proprie ristrettezze mentali, dalle proprie gabbie ideologiche, dalle proprie abitudini e dai suoi clichè – e la fa sedere in piazza, dove è naturale stare insieme, l’uno accanto a l’altro ad ascoltare, vedere, mangiare, pregare? Si. Perché? Ma perché no? La Chiesa non è Chiesa solo all’ora della Messa, del catechismo, dei ritiri e dei pellegrinaggi, delle adorazioni eucaristiche, dei seminari. La Chiesa è spirito che abbraccia la vita, la impregna del suo messaggio di speranza e di luce e ne attraversa in maniera capillare ogni aspetto del suo svolgersi, fuori dai templi e dall’ombra dei campanili. La Chiesa incontra anche chi in quei templi non ci entra mai e lo fa attraverso la multiforme esperienza della cultura che però legge con sguardo universale, cristiano. «La Chiesa non toglie nulla ad altri spettacoli estivi e ad altre iniziative – ha sottolineato il vescovo –. Aggiunge a esse la sua attenzione alle persone, la necessità di riflettere sulle sorti dell’umanità, il desiderio di unire lo sguardo all’umano con la visione di fede. Sempre con tanta simpatia e condivisione».
L’informazione e la comunicazione, la giustizia, l’economia, la tutela dell’ambiente, il lavoro, la guerra, la pace e l’accoglienza, e ancora la musica e il cinema sono tasselli di una quotidianità che ci interroga e ci chiama in causa perché ognuno faccia la sua parte, ognuno presenti la sua proposta per la crescita e il bene dei singoli e della comunità, di ogni comunità.
«Tre verbi non casuali, quelli dello slogan 2022 – ha aggiunto Mura – in un tempo che sperimenta, all’opposto, smarrimento e sfiducia nel futuro. Un tema che chiede di non rimanere in disparte, ma di prendere parte a questo tempo con idee e proposte, non con sterili lamentele».
L’autorevolezza e le riflessioni di Massimo Franco, del presidente della Cei Matteo Zuppi, dell’ex magistrato Gherardo Colombo, di Ernesto Olivero, di Brunello Cucinelli, di Nello Scavo e Rosanna Virgili, di Domenico Scanu, Filippo Rodriguez e Paola Locci, unite alle testimonianze o alle parole in musica dei Gen Verde, di Neri Marcorè, Luca Barbarossa, Dori Ghezzi, Dario Vergassola e Giovanni Scifoni, sono spunti, provocazioni, semi gettati che possono suscitare interrogativi e aprire terreni di confronto continuo.
Ecco perché ogni anno quella della Pastorale del turismo – «espressione non facile e per certi versi non immediata», ha fatto notare ancora mons. Mura – diventa un’esperienza avvolgente e totalizzante, offerta a tutti gratuitamente, che lascia sempre un pizzico di dispiacere nel momento in cui il sipario viene giù, ma al tempo stesso genera in ciascuno il desiderio profondo di rincontrarsi e l’attesa per un nuovo progetto tutto da scrivere nel quale, come ogni formula vincente, alcune costanti restano, diventando solide certezze: il momento dell’accoglienza che quest’anno ha visto coinvolte le comunità di Arbatax, Seui, Osini, Ilbono, Lotzorai, Baunei, per l’Ogliastra, e Siniscola, Olzai, Orosei, Fonni, per il nuorese: vetrine di un territorio che vuole essere, per chi lo abita e per chi decide di trascorrere in esso alcuni giorni di riposo, fonte inesauribile di conoscenza, di scoperta e di bellezza; i cortometraggi del progetto Camineras, a cura di Vincenzo Ligios e le professionalità degli artisti locali a impreziosire ogni serata.
Un investimento importante di chi crede nelle potenzialità immense di questa terra, sotto tutti i punti di vista. Una macchina organizzativa che da otto anni mette in campo volontari, tecnici, giovani, seminaristi, collaboratori diocesani, religiose, sacerdoti. Chi non riesce a coglierne la portata, l’innegabile valore umano, l’attualità e l’unicità della proposta, arrivando perfino a boicottarla – aggiungo forse solo perché avanzata da una Chiesa e dal suo pastore – annaspa fra limiti e pregiudizi. Ma solo “dove c’è una mente aperta, ci sarà sempre una terra di scoperta”.
Le parole dell’odio
di Angelo Sette.
Qualcuno non ha retto e ha compiuto gesti estremi; tutti hanno riportato ferite laceranti e indelebili; pochi sono riusciti a reagire e ribellarsi.
Sono le vittime delle parole di odio che rimbalzano nelle reti social. Parole e frasi malefiche, intrusive e corrosive che travolgono tanti, preferibilmente persone fragili e in difficoltà: donne, stranieri, minoranze, bambini e adolescenti. Colpiscono singoli individui, gruppi o intere etnie; soggetti considerati “inferiori” e “diversi”, e quindi potenziali veicoli di minacce e contaminazioni, anche solo perché portatori di quelle novità e originalità che rendono il mondo interessante, plurale e dinamico.
Parole cattive che hanno conseguenze dirette e durature sulla vittima (stress, paura, perdita di fiducia e di autostima, angoscia e ritiro sociale); ma che comportano effetti deleteri anche a livello sociale quali l’assuefazione e desensibilizzazione all’odio, la sottovalutazione della sofferenza dell’altro, il consolidamento e la moltiplicazione dei pregiudizi, delle intolleranze e delle discriminazioni.
Il fenomeno travalica la semplice aggressione e offesa personale per assumere una dimensione e una funzione sociale, e replica le note dinamiche del pregiudizio, del capro espiatorio e della pseudospeciazione (non riconoscere come umani altri umani), prodotti della contaminazione paranoica delle masse, a opera di certa propaganda e informazione senza etica, visione e responsabilità.
Esso agisce nella realtà virtuale, ma concretizza il suo potenziale distruttivo in ambienti concreti di vita e di relazione, scuole, quartieri, aggregazioni.
Isolare e annientare la persona o la comunità, storicamente ha assolto la funzione di compattare società e gruppi, insicuri e succubi, demarcando un noi e un loro; noi-buoni-belli-eletti; loro-cattivi-brutti-reietti. Un modo di fare proseliti e di attrarre persone alla propria causa e sotto la propria influenza.
Il fenomeno nella sua dimensione sociale pertanto è noto e atteso. La novità consiste nello strumento, che ne amplifica a dismisura la portata e il tasso offensivo e ne stabilizza nel tempo la memoria e l’effetto. Con la specificità della lontananza fisica dalla vittima che agevola atti senza freni, mediazioni e controlli; senza responsabilità e possibilità di riparazione.
All’origine c’è vuoto affettivo, frustrazione e miseria culturale, ma anche cattiveria e disumanità: povertà mentali in cerca di illusorie conferme appaganti e difensive. Ma soprattutto c’è la gravissima carenza educativa in una società, confusa e distratta, spesso tollerante e complice, la cui incapacità di intercettare e contrastare le immagini e le parole dell’odio, lascia che l’impulso prevalga sul pensiero, la competizione sulla solidarietà e la logica dell’economia e del profitto sulle ragioni dell’umanità. I social media non sono il male né la causa del male; sono opportunità comunicative preziose, persino utili a svelare l’animo umano e i suoi segreti. La distruttività è per intero prodotto dell’uomo, se incapace di educare, di pensare e di amare.
Santa Maria Navarrese e la devozione alla Vergine Assunta
La festa più sentita dalla comunità di Santa Maria Navarrese è quella che si celebra il 15 agosto in onore della Beata Vergine Assunta nella chiesa a lei dedicata. La chiesa sorge nella piazza centrale di Santa Maria dalla quale, circondata da olivastri millenari, guarda verso il mare ogliastrino.
La sua costruzione risale presumibilmente all’ XI secolo. La leggenda narra che la Principessa di Navarra, scampata a un terribile naufragio, avrebbe voluto ringraziare la Vergine Assunta per la grazia ricevuta erigendo una chiesa a lei intitolata. Da allora l’edificio è stato oggetto di molteplici interventi di restauro che ne hanno interessato gli interni (altare, pavimentazione, sedili) e altresì la piazza (nel 1959 sono stati demoliti gli alloggi, in baunese “staulus“, edificati per ospitare i pellegrini giunti sul posto in occasione dei festeggiamenti).
La festa in onore dell’Assunta è sempre stata molto cara a tutta la comunità ogliastrina i cui fedeli, nel corso dei secoli, si sono recati in pellegrinaggio a Santa Maria per rivolgere alla Madonna le loro preghiere.
In occasione della festa, dopo le celebrazioni nella piazza si poteva gustare l’ottima carne delle capre allevate nelle montagne baunesi in quanto, fino al secolo scorso, vi si svolgeva una vera propria sagra, con la preparazione della carne e del pane per la cui cottura era stato costruito un forno ancora visibile ai molteplici visitatori del luogo.
Ancora oggi la festa è vissuta con particolare gioia e grande partecipazione. Nei giorni antecedenti la festa, il simulacro della Vergine lascia la chiesa parrocchiale di Baunei accompagnato dagli obrieri per raggiungere la frazione di Santa Maria Navarrese, come da tradizione.
Il tragitto si svolge in una solenne processione, prima a piedi e poi in macchina, accompagnata dalla preghiera del rosario recitato in sardo, dal suono della fisarmonica e delle launeddas. Il simulacro raggiunge la frazione costiera dove viene accolto da un nutrito numero di fedeli che lo accompagna, sempre in processione, sino alla chiesetta.
Sono molteplici le celebrazioni che si susseguono nei giorni della festa.
Il pomeriggio del 14 agosto la Santa Messa viene celebrata presso il porticciolo turistico dal quale parte una processione in mare molto suggestiva che arriva sino all’Isolotto d’Ogliastra.
Il giorno della festa il simulacro viene portato in processione su un carro a buoi mentre la Santa Messa viene celebrata nella piazza nel quale è stato costruito un piccolo anfiteatro. Alla fine della giornata, il simulacro viene nuovamente accompagnato nella chiesa parrocchiale di Baunei dove la benedizione solenne impartita dal parroco sancisce la fine dei festeggiamenti.
Le origini di questa festa si perdono nella notte dei tempi, ma non si è mai persa la devozione dei tanti fedeli che ogni anno si affidano alla Vergine Assunta richiedendone protezione. (Gloriosa)
Il forno del pane
Nella parte alta della piazza dove sorge la chiesa di Santa Maria Navarrese è presente un forno che veniva utilizzato in occasione della festa dell’Assunta e risulta attualmente in disuso. Pare servisse a cuocere la carne e il pane che venivano distribuiti ai fedeli giunti sul posto per i festeggiamenti in onore dell’Assunta. Nell’occasione, infatti, si creava attorno alla chiesa una vera e propria comunità di fedeli i quali vi si stabilivano per diversi giorni.