In breve:

Editoriale

Ospedale

Una precarietà insopportabile

La nota del Vescovo Antonello.
Non è solo oggi che l’ospedale di Lanusei viene osservato dalla nostra gente con preoccupazione, addirittura con la paura che, reparto dopo reparto, esso sia smantellato o perfino chiuso. Non ricordo nei miei sette anni e mezzo come vescovo un periodo sereno e fiducioso, a dimostrazione che il problema del suo riconoscimento nel territorio non è stato mai affrontato seriamente, ma la sua collocazione sociale e sanitaria vive da tempo una precarietà insopportabile.
Penso prima di tutto alla nostra gente, con un’età media sempre più alta e con domande di salute sempre più esigenti, aggravate dal clima pandemico. Capisco che sia stufa di ritrovarsi senza risposte e senza certezze e, comprendendone il disagio, ne incoraggio la volontà di alzare la voce, anche per protestare.
Questa, però, è anche l’ora per guardare al futuro, preparandolo con scelte lucide e coraggiose. Che la classe politica, finora, indipendentemente dagli schieramenti, non ha mai fatto, preferendo dei passaggi, anno dopo anno, che hanno privilegiato il potere clientelare – il potere di mettere in servizio questo e non quest’altro, indipendentemente dal merito! – abbandonando così ogni forma di meritocrazia.
A Lanusei l’ospedale non lo salverà questa politica – che tra l’altro dovrebbe fare un passo indietro – ma solo chi ha le qualità necessarie per dirigere la struttura o per guidare un reparto. Lamentarsi dei medici che non accettano di venire, non basta. Incentivarne la presenza – perché medici che desiderano lavorare ci sono! – passa dall’offrire delle premialità per i disagi dovuti alle distanze, ma anche dal migliorare sensibilmente la qualità dei servizi, la tecnologia dei reparti, credendo quindi nell’innovazione e non solo nella conservazione di quanto oggi è presente. Questo potrà rendere l’ospedale attrattivo, facendolo diventare un luogo dove sta bene non solo il malato, ma anche il medico che intende crescere nell’esperienza professionale.
E quanto sarebbe bello, su questo, sentire anche delle autocritiche, parlare delle occasioni perse, abdicare pubblicamente a metodi che non hanno cambiato la storia, ma hanno solo permesso di guadagnare consensi di potere!
Come ho scritto altre volte, questo vale anche per Nuoro, altro territorio che appare incapace di valorizzare tutte le sue risorse umane e sanitarie a servizio della salute dei cittadini.
So che le mie parole di vescovo non possono incidere direttamente su quanto avviene, mi auguro solo che servano come stimolo e come incoraggiamento a chi chiede e a chi ama una sanità pubblica e credibile.

+ Antonello Mura, vescovo di Nuoro e di Lanusei

partire

Quando partire è inevitabile e ritornare è un miraggio

di Claudia Carta.

In uno studio presentato lo scorso anno dal Crei Acli, il Comitato Regionale Emigrazione e Immigrazione delle Acli della Sardegna, è emerso il quadro generale dei sardi dislocati nel mondo – in larga parte giovani – e iscritti all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Sono 123.212. 

Una fotografia che vede la bandiera dei Quattro Mori sventolare per l’87% nei paesi del continente europeo contro il 54% del dato globale degli italiani nel mondo. Meno del 10% dei sardi iscritti all’Aire risiede nel continente americano, contro il 40% degli Italiani.

Germania, Francia e Belgio i paesi dove i colori rossoblù sono più rappresentati, seguiti da Svizzera, Paesi Bassi e Argentina.

Se andiamo poi a considerare la carta d’identità, solo 20mila gli over 65 – per loro il paese più accogliente è la Francia – mentre oltre 75mila sono le persone in età attiva. E i giovani? Superano le 25mila unità e vanno da 0 a 24 anni. Se guardiamo al genere, donne e uomini sono parimenti rappresentati, sia pur con una leggera prevalenza maschile (53%).

Che i giovani siano la risorsa più preziosa non è certo un segreto. Non lo è nemmeno il fatto che prendano il volo oltre mare – e spesso oltre oceano – soprattutto per questione lavorative o per un’adeguata formazione universitaria e post lauream. Ragion per cui, nel commentare i dati dello studio in oggetto – indagine realizzata da parte di Crei Acli e Regione Sardegna in collaborazione con Fondazione di Sardegna, Iares e Acli Sardegna – lo stesso presidente Crei-Acli, Mauro Carta, ha sottolineato quanto «sarebbe bello incoraggiare e incentivare politiche di ritorno sia per i giovani sardi, sia per gli over 65». Gli fa eco l’assessore regionale del lavoro, Alessandra Zedda, che ne valorizza comunque la presenza e l’importanza anche fuori dal territorio isolano: «Portano l’immagine dell’isola nel mondo – ha sottolineato – e sono dei testimonial non solo dei nostri prodotti gastronomici ma di tutto il territorio. Stiamo incentivando anche l’uso dell’attrezzatura tecnologica in questi tempi di pandemia per stare più vicini, e progetti per rimanere in costante collegamento. Mi piacerebbe in futuro che più che di circoli si parlasse di comunità».

I circoli sardi nel mondo sono 110 e coinvolgono circa 30mila associati. Il numero più alto di comunità è in Germania: 10. Ma sul rientro, tutti si rivelano sostanzialmente scettici: «Chi è andato via – sostengono numerosi giovani lavoratori e professionisti residenti all’estero – lo ha fatto anche perché non soddisfatto del sistema scolastico e universitario e della possibilità di fare impresa. Bisognerebbe cambiare queste condizioni, che non dipendono comunque dalla Sardegna. Vedo più possibile un ritorno per chi continua a vedere la Sardegna come un punto di riferimento. Ma solo dopo che ha finito di lavorare».

È un po’ anche il quadro che emerge tra i tanti ogliastrini – alcuni dei quali abbiamo raccontato nelle pagine che seguono –: l’Ogliastra ce l’hanno sempre nel cuore, certo, ma qui tornano per le vacanze o per riabbracciare gli affetti più cari. Quando però si parla di lavoro, di opportunità, di soddisfacimento e gratificazione per le proprie competenze e professionalità, il voto è sostanzialmente insufficiente non solo nei confronti dell’attuale sistema di reclutamento, impiego e retribuzione della forza lavoro, ma anche per l’esiguo numero di buone pratiche ed eventuali nuovi progetti posti in essere da una politica ancora incapace di valorizzare le eccellenze locali.

Con l’auspicio che quell’arrivederci Sardegna non si trasformi in un addio e che la speranza di un punto interrogativo non crolli dinanzi alla certezza desolante di quello esclamativo.

 

Rubiu

Sanità sul territorio: una sfida da non perdere

di Augusta Cabras.

L’Ogliastra grida. La sanità risponde? A Ussassai, Seui e Talana parrebbe di no.
Criticità, disagio, sofferenza. Quale futuro? Risponde il medico e Direttore del distretto sociosanitario della ASL di Lanusei, Sandro Rubiu

Quello della sanità è un tema caldissimo. Qual è la situazione attuale? 

Ci sono difficoltà nella gestione della sanità e nell’erogazione dei servizi al cittadino, che sono strutturali. Abbiamo oggi un’accentuata penuria di medici. In ambiti come Seui, Ussassai, Talana il medico di medicina generale attualmente, o è carente o è assente del tutto. Ussassai e Seui sono senza medico dal primo gennaio, nonostante i ripetuti bandi fatti sia da noi che diamo gli incarichi di supplenza trimestrali, semestrali o annuali, sia – e questo è ancora più preoccupante – a livello di bandi fatti da ATS, per quanto riguarda le titolarità.

Il problema reale qual è?

Il problema è che i medici sono pochi e i posti a bando sono molti. Se esistono in Sardegna 300 ambiti territoriali vacanti e i medici che fanno domanda sono 200, è ovvio che 100 rimangono scoperti. La difficoltà nasce da una non adeguata programmazione del numero di accessi alla Facoltà di Medicina. Sono almeno dieci anni che la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici sta mandando dei segnali di allerta. Si prevedeva già da allora che nel 2020 sarebbero mancati i medici. Se si conosce l’età dei medici e l’anno in cui andranno in pensione è chiaro il numero di quelli che serviranno. Ma se l’accesso alla Facoltà di Medicina è permesso con numeri che sono nettamente inferiori qualcosa non funziona e non funzionerà. Il numero chiuso a oggi non è stato tolto e non ho conoscenza del fatto che siano aumentati i numeri dei posti. In ogni caso, anche nell’ipotesi che si dovesse togliere completamente il blocco in entrata e lasciare iscrivere a medicina tutti quelli che vogliono iscriversi, vedremo i risultati non prima dei prossimi sei anni per la medicina di base e dopo ulteriori quattro o cinque anni a seconda della specializzazione.

Intanto la vita delle persone e di quelli che si ammalano va avanti. Nel frattempo cosa si fa? Quali sono le soluzioni?

Una delle soluzioni potrebbe essere – ma è comunque una scelta che deve fare la politica dei piani alti – è quella di fare in modo che i circa 8/10.000 medici italiani specializzati che lavorano all’estero rientrino in Sardegna. Sappiamo che il motivo per il quale ci sono andati non è perché hanno in odio la loro terra, ma è perché all’estero hanno una sistema di reclutamento diverso da quello che abbiamo noi e un sistema con una remunerazione molto più interessante.
A essere chiari, un medico che come primo stipendio in Italia prende 2.500 euro, in Germania ne prende il doppio, in Svizzera siamo sui 10/12 mila. Ovvio che se si hanno questi livelli stipendiali, un giovane medico che ha fatto 6 anni di Medicina più 4 di specializzazione si senta demotivato a lavorare per un emolumento così basso. Tanto più se deve lavorare in reparti come la chirurgia o nella medicina d’urgenza che, oltre l’impegno puro, richiedono responsabilità legali di un certo tipo. Questo costringe i giovani colleghi a dotarsi di una copertura assicurativa a proprie spese che va a incidere su uno stipendio che non è particolarmente allettante. Questo per l’aspetto prettamente economico. Ci sono poi gli aspetti contrattuali. La farraginosità del meccanismo di reclutamento dei medici in Italia, con il concorso pubblico, richiede tempi lunghi con meccanismi abbastanza contorti, rispetto a quelli che adottano i paesi europei. Qui è tutto più complicato. Le dico che l’’ultimo bando che è stato espedito qualche mese fa non ha avuto nessuna risposta, né per Seui né per Ussassai.

E i pazienti di quei paesi come fanno se hanno bisogno del medico?

Siamo riusciti a sensibilizzare un medico di medicina generale di Lanusei che con grande disponibilità e con grande senso di altruismo ha dato la disponibilità e si reca alcune volte alla settimana per fare ambulatorio. È chiaro che si tratta di un’assistenza minimale, insieme a quella della guardia medica notturna.

La mancanza di medici è un problema anche per l’ospedale di Lanusei…

Io non sono il responsabile dell’Ospedale, ma posso dire che si hanno delle difficoltà nel reperire i medici perché essendo pochi per specialità, quei pochi che ci sono, quando si fa il bando regionale, scelgono la sede a loro più comoda. I medici ogliastrini sono oggettivamente pochi.

Dire Asl per molti, significa lentezza nell’erogazione dei servizi. Pensiamo ai tempi per avere una visita domiciliare per un paziente allettato o la trafila per ottenere un ausilio o una protesi. 

Dobbiamo distinguere tra le prestazioni infermieristiche, le prestazioni di riabilitazione, quelle specialistiche e quelle di medicina generale, compresi anche ausili e protesi. Per quanto riguarda l’assistenza infermieristica, che è un servizio esternalizzato, questa è erogata pressoché nell’immediato. Le difficoltà le abbiamo invece con gli specialisti ambulatoriali, ma anche qui ricadiamo nel problema della mancanza di medici. Con la fisiatria il problema è soprattutto legato alla tempistica abbastanza lunga, se pensiamo che per le visite domiciliare lo specialista deve spostarsi da un paese all’altro in un territorio ampio e mal collegato. Sulla protesica invece, ATS ha accentrato la gestione. Prima avevamo un nostro magazzino di ausili, adesso il nostro magazzino di riferimento è a Nuoro e i tempi si sono leggermente allungati.

Il compianto Gino Strada sosteneva che il problema della sanità italiana sia la politicizzazione e la trasformazione della sanità pubblica in azienda. Questo pare chiaro anche dal linguaggio: sempre più raramente si parla di servizio, ma più spesso di prestazione e l’unità sanitaria locale è diventata azienda sanitaria. Lei cosa ne pensa?

È una trasformazione che abbiamo vissuto negli anni. 15 anni fa circa si è introdotto un linguaggio che era mutuato da “un ambiente bocconiano” dove si pensava, a parer mio erroneamente, di parametrare la sanità a un’altra attività di produzione, che fosse di bulloni o quant’altro. Ma la sanità non produce, eroga servizi per andare incontro ai bisogni del cittadino, che io continuo a chiamare paziente e non utente, che si affida al medico con grande fiducia. Il paziente non ha bisogno solo della prestazione tecnica, ma necessita anche di quella componente umana, di emotività, di partecipazione e di compassione. Nelle intenzioni del legislatore forse questo aspetto è andato scemando in favore degli aspetti più ragionieristici. Con questo non voglio dire che non sia importante l’attenzione doverosa all’appropriatezza, se si intende con questo però dare al cittadino quello che in quel momento gli serve ai giusti costi.

Come vede il futuro della sanità in Ogliastra?

Lo vedo positivamente se riusciamo a portare le risposte della struttura sanitaria ai bisogni di salute del cittadino, nel suo ambiente di vita e di lavoro. Questa è la soluzione che ci consente di rafforzare la medicina del territorio con i tre poliambulatori e le prestazioni domiciliari (che sono presenti paradossalmente anche in quei paesi dove non è presente il medico di base) e a ridimensionare il bisogno delle cure ospedaliere. L’ospedale è importantissimo, fondamentale e intoccabile e i pazienti devono poter ricorrere alla struttura ospedaliera per le patologie acute e per quelle che necessitano di tecnologia di un certo tipo.

Scuola Sarda

Scuola sarda, Francesco Feliziani: «Il problema è la frammentazione della rete scolastica»

a cura di Augusta Cabras.

Come è partita quest’anno la scuola? Può farci un quadro della situazione attuale?

Abbiamo iniziato, a mio avviso con degli ottimi auspici, per quello che riguarda l’aspetto epidemiologico. Quest’anno la situazione, infatti, è ben diversa da quella dell’anno scorso quando vivevamo in una situazione di assoluta precarietà. Quest’anno si riparte con il personale della scuola e con gli studenti sopra i 12 anni per gran parte vaccinati, con la Dad che verrà utilizzata solo in casi residuali, con le regole per la quarantena in caso di contagio a scuola che non sono quelle che avevamo l’anno scorso. Soprattutto quando sono arrivate le nuove varianti, infatti, bastava il caso di uno studente positivo in una scuola per chiudere tutto; quest’anno si procederà con chiusure selettive delle singole classi. In più il settore dei trasporti è più pronto ad affrontare questo tempo. A questo si aggiunge un successo del Ministero, perché grazie a una informatizzazione delle procedure di selezione del personale, noi in Sardegna abbiamo quadruplicato il numero dei docenti immessi in ruolo. Siamo passati dai 600 dell’anno scolastico 20/21 a circa 2400, comprensivi di alcune centinaia di supplenze qualificate che alla fine del primo anno potranno diventare contratti a tempo indeterminato dopo un periodo di prova e il superamento di un esame finale.
Altrettanto importante è il fatto che attraverso l’informatizzazione delle procedure, per la prima volta dopo tanti anni, abbiamo iniziato con tutti i docenti già dal primo giorno di scuola. E questo è importante soprattutto per le sedi più disagiate.

Perché, nonostante l’aumento del numero dei docenti immessi in ruolo, si continuano ad accorpare le classi in uno stesso istituto, unendo ad esempio la prima con la quarta elementare, oppure creando classi provenienti da plessi diversi?

Il discorso è articolato. Comincio dicendo che se noi andiamo a vedere la percentuale dei docenti rispetto al numero degli studenti, la Sardegna ha uno dei tassi più favorevoli d’Italia.
Il problema non è la carenza di personale. Negli ultimi 3 anni, a un decremento del numero degli studenti di circa 3000 unità all’anno, l’organico docente è rimasto lo stesso, addirittura lo scorso anno e quest’anno abbiamo avuto fondi specifici per assumere centinaia di altri docenti e collaboratori, per gestire le maggiori esigenze derivanti dal Covid. Abbiamo un organico consolidato che è rimasto, un numero di studenti che è diminuito, e un numero di insegnanti aggiuntivi, grazie a un finanziamento extra di 13 milioni di euro per il recupero degli apprendimenti.
Il problema vero della Sardegna è l’estrema frammentazione della rete scolastica. Abbiamo micro comuni che per ragioni storiche continuano ad avere il punto di erogazione del servizio, continuano cioè ad avere, ad esempio, la scuola dell’infanzia, la scuola primaria. Questo non solo nei comuni geograficamente distanti dagli altri o isolati, ma anche in quelli che distano tra loro solo pochi chilometri. Ma se non si fa un’azione di razionalizzazione della rete scolastica mettendo insieme, ad esempio le due scuole primarie dei due comuni limitrofi, attrezzandosi con un idoneo sistema di trasporto, succederà che nella primaria di un piccolo comune avremo 3 bambini in prima, 4 in seconda, eccetera, per cui con i limiti di legge, non si potranno fare classi singole, ma solo pluriclassi. Se ci sono due comuni vicini in cui si decide, d’accordo con gli enti locali, di mantenere la scuola in uno dei due, magari la scuola primaria in un comune, la scuola media nell’altro, si mettono insieme i numeri e non si fanno le pluriclassi né nell’uno, né nell’altro, ma classi normali in entrambi, magari di ordini diversi.
Serve una programmazione strategica in cui vengono messi sulla bilancia i costi/disagi e i benefici. C’è il costo/disagio del trasporto, ma raramente si mette in conto quanto può essere il costo di una scuola fatta in pluriclasse piuttosto che in classi normali con quello che viene a mancare ai nostri bambini a livello di socializzazione, di stimoli, di interazione. È un discorso che necessita di apertura. Se quest’azione di dimensionamento scolastico e di razionalizzazione dell’offerta formativa non viene fatta, si lascia sul terreno una miriade di scuole che non permette una normale distribuzione delle risorse, che sarebbero più che sufficienti per una rete scolastica ben strutturata, ma che non lo sono più in presenza di una rete scolastica frammentata. In Sardegna, poi, non abbiamo neanche il problema delle classi in sovrannumero.

Oltre la struttura della rete scolastica ciò che è determinante è il lavoro svolto dai docenti. Si parla spesso di un corpo docente che presenta numerose criticità: precariato, età media avanzata e demotivazione, dove però non mancano le eccellenze. Lei cosa ne pensa?

Ritengo che uno dei punti su cui bisognerebbe riformare in modo strutturale il mondo dell’istruzione è proprio quello del reclutamento. Noi ci troviamo da anni con un sistema che crea in maniera quasi automatica il precariato, perché non è in grado di coprire ogni anno tutti i posti che si liberano con il pensionamento. Avevamo un buon sistema che era quello del corso di Scienze della Formazione Primaria e della scuola di specializzazione, la vecchia SSIS. Da più di dieci anni siamo passati al sistema dei concorsi che ha mostrato tutti i suoi limiti, perché non mette in collegamento la domanda con l’offerta, per cui i posti che non si riescono a coprire con i docenti di ruolo vengono coperti dai supplenti che dopo un anno manifestano l’esigenza e rivendicano il diritto di essere stabilizzati, per cui questo meccanismo porta ad aumentare l’età media di docenti assunti e li costringe a fare una trafila faticosa e dispendiosa. Se riuscissimo ad affrontare questa criticità e ogni anno avessimo delle strutture che mettono a disposizione il personale di cui ogni anno si ha bisogno per coprire i posti disponibili, noi diminuiremo nello stesso momento: il disagio delle persone, abbasseremmo l’età media e aumenteremmo la preparazione dei docenti.

La formazione dei docenti è un altro tema scottante. Non può bastare avere a laurea in lettere o in matematica per essere un buon insegnante.
Cosa si sta facendo in questo senso?

La formazione deve essere permanente. Serve sensibilità e preparazione. Una professione così delicata e complessa richiede, oltre il titolo di studio, una formazione completa. La scuola di specializzazione dell’Università era ben strutturata. Il modello, dal mio punto di vista professionale, dovrebbe essere: la laurea, il concorso per entrare in una scuola di specializzazione e la frequenza di qualche anno con un esame finale. Superato l’esame, si è abilitati a entrare in graduatoria per poter essere assunti e durante il primo anno avviene una valutazione sul campo. Servirebbe una riforma urgente in questo senso.

Com’è invece la situazione dell’edilizia scolastica?

In Sardegna non c’è il problema della mancanza degli edifici. In problema è che per tanti, tanti anni le risorse necessarie per mantenere in sicurezza gli edifici sono state sempre meno. Quando si hanno delle infrastrutture si deve scegliere se investire nella manutenzione continua oppure se lasciarle andare in rovina per poi intervenire con costi sicuramente molto superiori. Soltanto negli ultimi anni ci si è resi conto dell’importanza e dell’urgenza e ora si sta intervenendo con investimenti massici. (a.c.)

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Una serata comunitaria in Ogliastra

di Giorgio Zanchini.
Anzitutto la sorpresa. La sorpresa di trovare centinaia di persone in una bella serata di agosto, all’ora di cena, in uno degli angoli più celebrati della Sardegna.
Sorpresa perché spesso tendiamo a sottovalutare la resistenza delle reti, delle comunità, delle aggregazioni del nostro Paese, del nostro territorio, distratti come siamo dalla connessione perenne all’altra Rete, quella che ormai – anche portando progresso e partecipazione, figuriamoci, non lo negherò di certo – ha colonizzato il nostro presente, e presi da impegni quotidiani che non aiutano i momenti collettivi.
E invece continuano per fortuna a muoversi tanti altri attori, continuano a vivere altri tipi di legami, altri modi di stare assieme, di agire, di costruire.
Il nostro è un Paese antico, la nostra è una terra antica, la Sardegna è una terra antichissima. Significa, credo, che certe strutture e valori e progetti vengono da lontano, sono state e sono gli architravi di corsi durevoli, di identità che ci definiscono e che vengono solo sfiorate da fenomeni e mode spesso passeggeri.
La Chiesa è ancora nel cuore, forse il cuore, di questi processi di lunghissimo periodo, dell’identità che tiene assieme il Paese. Non è semplice continuare ad esserlo in un contesto storico di forte secolarizzazione, in cui a definire ciò che siamo contribuiscono culture diverse, mondi diversi, portatori di valori, visioni, progetti spesso molto distanti l’uno dall’altro.
Siamo una società plurale e aperta, e questo è oggettivamente un bene. Nel benvenuto pluralismo credo però sia altrettanto positivo che ci sia chi costruisca, investa, progetti, nei legami, nello stare assieme, nel partecipare, nel coinvolgere e condividere. E nel pensare – e quindi progettare e laddove possibile costruire – a una società migliore, più equa, più fraterna.
Ecco, questa è la prima impressione che ho avuto a Tortolì. La capacità della Chiesa di continuare a parlare alla propria comunità, a costruire legami, a far incontrare fisicamente le persone per ragionare, ascoltare, o anche semplicemente distendersi.
Sarà l’energia, l’empatia, l’acutezza del vescovo Antonello, sarà la carica di sacerdoti come don Giorgio o don Pietro, o la passione, non saprei come altro definirla, dei tanti volontari, fatto sta che mi è sembrato di avere di fronte partecipazione, fratellanza, confronto, attenzione all’altro.
In un contesto, l’anfiteatro Caritas di Tortolì, che mi è sembrato esso stesso un luogo fisicamente aperto, solidale, dal volto ospitale.
Poi, certo, c’è stata la serata in sé. Introdotta e chiusa dalle parole del Vescovo, guidata dall’intelligenza e dalla simpatia di un amico e grande giornalista come Giacomo Mameli. E ruotata attorno alle risposte – pacate, ragionevoli, costruttive – di Carlo Cottarelli sulle grandi questioni economiche del presente, o a quelle del sottoscritto, senz’altro meno esperto e lucido di Giacomo, sulle difficoltà dell’informazione di essere all’altezza delle sfide del presente.
Ma quei contenuti, pur – spero – utili, importanti, mi sono sembrati quasi passare in secondo piano rispetto al contesto in cui si calavano, come se appunto fossero contenuti aggiuntivi a un capitale umano, sociale, cristiano già di suo molto forte.
Non è un caso, ovviamente, che il titolo della manifestazione di quest’anno sia stata: Quanto corri! Dove vai?! Che mi sembra in linea con quanto provavo a scrivere poco fa: interrogarsi sul senso delle proprie azioni, del proprio progetto di vita in un’epoca affollata di stimoli che lasciano pochissimo tempo per fermarsi a riflettere sulle domande di senso.
In fondo anche il dibattito di quella sera, apparentemente su un altro piano e su altri temi, è stato uno stimolo a riflettere sulla direzione del nostro mondo, sulle fragilità economiche del nostro presente, sulle chiavi per una crescita e uno sviluppo più equo, meno diseguale. Cottarelli ci ha aiutato a capire la genesi e l’evoluzione del fenomeno globalizzazione, a leggerne il portato positivo e i limiti, a definire come e dove intervenire per costruire una società più giusta. Così come la discussione sull’informazione – partita come ovvio da un’analisi della situazione in Afghanistan – ha cercato di essere un confronto sui limiti e le potenzialità del giornalismo italiano, sui rischi e benefici di un’informazione dominata dalla grandi piattaforme della Rete, sugli strumenti migliori per acquisire consapevolezza, coscienza critica.
L’orizzonte è quello dei valori, del sistema valoriale, della crescita comune, e il fatto di riuscire in un contesto vacanziero d’agosto a mettere assieme così tanta gente, dapprima in silenzio e poi a ragionare sulle cose dette, credo sia uno dei tanti frutti dell’impegno della diocesi e di chi lavora per costruire comunità.

Lettera Pastorale_23

Nel segno di Maria la prossima visita pastorale

di Claudia Carta.

Lo scorso 25 aprile, nel Santuario della Madonna d’Ogliastra, in occasione della solennità della Patrona della diocesi, il vescovo Antonello ha annunciato la prossima visita pastorale nelle parrocchie

C’è una porzione di Chiesa diocesana a celebrare la Patrona d’Ogliastra, il 25 aprile. Il Santuario risuona del celebre inno che unisce le comunità parrocchiali attorno al suo vescovo, ai sacerdoti e ai diaconi. E accoglie l’annuncio. Il pastore recepisce e fa suo il messaggio del Papa, quello di andare e vedere, quello di arrivare e fermarsi. Per osservare, ascoltare, condividere la gioia, asciugare le lacrime, sentire il grido.

Il cancelliere, don Danilo Chiai, legge solennemente il decreto di indizione della visita pastorale. Novembre. Solennità di Cristo Re dell’universo. Dove tutto avrà inizio. Antonello, pellegrino sulle strade dei nostri paesi e delle nostre città. L’umiltà del pastore e l’autorevolezza della guida. Il silenzio di chi medita tutte le cose nel suo cuore e, al tempo stesso, la voce rassicurante del padre che incoraggia e sprona i suoi figli.

Un evento e, come tale, un avvenimento da preparare con cura, spiritualmente prima ancora che logisticamente. Come quando ci si prepara ad accogliere lo sposo e ad andargli incontro. Il vescovo lo sa e ne avverte tutta la responsabilità: «Sono sette anni che sono felicemente con voi – ricorda al termine della celebrazione eucaristica –. Pregate anche per il pastore di questa Chiesa e non tanto per me, ma per ciò che il vescovo rappresenta. Con due diocesi, il pastore ha bisogno di preghiera, di accompagnamento e di fortezza».

Nella domenica che vede di fronte il pastore buono e il mercenario – dove buono sta per assenza assoluta di qualunque interesse personale e dove il verbo pascolare diventa il denominatore comune di chiunque abbia una vocazione specifica, una paternità e maternità educativa, anche sociale –, il vescovo esalta il modello Gesù, in un’immagine che non ha nulla di debole: «È il pastore forte che si erge contro i lupi e che ha il coraggio di non fuggire davanti agli impegni». La dimensione tenera unita alla fortezza. Una «combattiva tenerezza». Infine l’invito: «Tutti noi siamo chiamati a essere Pastore buono, bello, combattivo e tenero, in ogni ambito della nostra vita».

Scripta manent. È così. Le parole hanno un peso e, scritte, diventano ancora più incisive.

Il vescovo Antonello affida il suo percorso in terra ogliastrina e l’avvio della sua visita nelle comunità a una riflessione che delinea in venti pagine la sua nuova Lettera Pastorale – la seconda dopo Sul carro con Filippo, del 2017 –: Sogno con voi “una Chiesa lieta con volto di mamma”, a indicare e rappresentare una Chiesa con quella maternità che viene da Maria: «Sono loro, le nostre mamme – scrive il vescovo – a essere capaci di possedere e pronunciare parole dolci e antiche. A un “Padre nostro” si affianca quindi una “Madre nostra”, alla quale la Chiesa guarda in ogni tempo per imitarne gli sguardi e i gesti, persino i silenzi».

Lo stile sarà ancora una volta quello di chi privilegerà «l’ascolto e la condivisione, valorizzando l’incontro e le relazioni, per leggere con sguardi di fede la realtà ecclesiale e sociale», leggendo i nostri giorni e questo nostro tempo che tante difficoltà ci sta facendo sperimentare, avvertendo un logoramento esistente certamente anche prima della pandemia, ma che questa ha inesorabilmente velocizzato. Davanti a tutto ciò non si può restare immobili, non ci si può limitare a «mantenere l’esistente». Occorre lasciare andare ciò che non va più bene. Dal pastore della diocesi di Nuoro e di Lanusei anche un secco no all’abitudine pastorale, specie se non è produttiva e portatrice di nuovo slancio evangelico. Serve un cambiamento. Serve vivere il cambiamento. Anche nella pastorale. «Solo così possiamo trasmettere agli altri. Contagiosi, sì, ma solo della gioia che viene dal Vangelo».

Allora sarà davvero una Chiesa, per dirla con Bergoglio, «che comprende, accompagna, accarezza».