In breve:

Editoriale

Scuola Sarda

Scuola sarda, Francesco Feliziani: «Il problema è la frammentazione della rete scolastica»

a cura di Augusta Cabras.

Come è partita quest’anno la scuola? Può farci un quadro della situazione attuale?

Abbiamo iniziato, a mio avviso con degli ottimi auspici, per quello che riguarda l’aspetto epidemiologico. Quest’anno la situazione, infatti, è ben diversa da quella dell’anno scorso quando vivevamo in una situazione di assoluta precarietà. Quest’anno si riparte con il personale della scuola e con gli studenti sopra i 12 anni per gran parte vaccinati, con la Dad che verrà utilizzata solo in casi residuali, con le regole per la quarantena in caso di contagio a scuola che non sono quelle che avevamo l’anno scorso. Soprattutto quando sono arrivate le nuove varianti, infatti, bastava il caso di uno studente positivo in una scuola per chiudere tutto; quest’anno si procederà con chiusure selettive delle singole classi. In più il settore dei trasporti è più pronto ad affrontare questo tempo. A questo si aggiunge un successo del Ministero, perché grazie a una informatizzazione delle procedure di selezione del personale, noi in Sardegna abbiamo quadruplicato il numero dei docenti immessi in ruolo. Siamo passati dai 600 dell’anno scolastico 20/21 a circa 2400, comprensivi di alcune centinaia di supplenze qualificate che alla fine del primo anno potranno diventare contratti a tempo indeterminato dopo un periodo di prova e il superamento di un esame finale.
Altrettanto importante è il fatto che attraverso l’informatizzazione delle procedure, per la prima volta dopo tanti anni, abbiamo iniziato con tutti i docenti già dal primo giorno di scuola. E questo è importante soprattutto per le sedi più disagiate.

Perché, nonostante l’aumento del numero dei docenti immessi in ruolo, si continuano ad accorpare le classi in uno stesso istituto, unendo ad esempio la prima con la quarta elementare, oppure creando classi provenienti da plessi diversi?

Il discorso è articolato. Comincio dicendo che se noi andiamo a vedere la percentuale dei docenti rispetto al numero degli studenti, la Sardegna ha uno dei tassi più favorevoli d’Italia.
Il problema non è la carenza di personale. Negli ultimi 3 anni, a un decremento del numero degli studenti di circa 3000 unità all’anno, l’organico docente è rimasto lo stesso, addirittura lo scorso anno e quest’anno abbiamo avuto fondi specifici per assumere centinaia di altri docenti e collaboratori, per gestire le maggiori esigenze derivanti dal Covid. Abbiamo un organico consolidato che è rimasto, un numero di studenti che è diminuito, e un numero di insegnanti aggiuntivi, grazie a un finanziamento extra di 13 milioni di euro per il recupero degli apprendimenti.
Il problema vero della Sardegna è l’estrema frammentazione della rete scolastica. Abbiamo micro comuni che per ragioni storiche continuano ad avere il punto di erogazione del servizio, continuano cioè ad avere, ad esempio, la scuola dell’infanzia, la scuola primaria. Questo non solo nei comuni geograficamente distanti dagli altri o isolati, ma anche in quelli che distano tra loro solo pochi chilometri. Ma se non si fa un’azione di razionalizzazione della rete scolastica mettendo insieme, ad esempio le due scuole primarie dei due comuni limitrofi, attrezzandosi con un idoneo sistema di trasporto, succederà che nella primaria di un piccolo comune avremo 3 bambini in prima, 4 in seconda, eccetera, per cui con i limiti di legge, non si potranno fare classi singole, ma solo pluriclassi. Se ci sono due comuni vicini in cui si decide, d’accordo con gli enti locali, di mantenere la scuola in uno dei due, magari la scuola primaria in un comune, la scuola media nell’altro, si mettono insieme i numeri e non si fanno le pluriclassi né nell’uno, né nell’altro, ma classi normali in entrambi, magari di ordini diversi.
Serve una programmazione strategica in cui vengono messi sulla bilancia i costi/disagi e i benefici. C’è il costo/disagio del trasporto, ma raramente si mette in conto quanto può essere il costo di una scuola fatta in pluriclasse piuttosto che in classi normali con quello che viene a mancare ai nostri bambini a livello di socializzazione, di stimoli, di interazione. È un discorso che necessita di apertura. Se quest’azione di dimensionamento scolastico e di razionalizzazione dell’offerta formativa non viene fatta, si lascia sul terreno una miriade di scuole che non permette una normale distribuzione delle risorse, che sarebbero più che sufficienti per una rete scolastica ben strutturata, ma che non lo sono più in presenza di una rete scolastica frammentata. In Sardegna, poi, non abbiamo neanche il problema delle classi in sovrannumero.

Oltre la struttura della rete scolastica ciò che è determinante è il lavoro svolto dai docenti. Si parla spesso di un corpo docente che presenta numerose criticità: precariato, età media avanzata e demotivazione, dove però non mancano le eccellenze. Lei cosa ne pensa?

Ritengo che uno dei punti su cui bisognerebbe riformare in modo strutturale il mondo dell’istruzione è proprio quello del reclutamento. Noi ci troviamo da anni con un sistema che crea in maniera quasi automatica il precariato, perché non è in grado di coprire ogni anno tutti i posti che si liberano con il pensionamento. Avevamo un buon sistema che era quello del corso di Scienze della Formazione Primaria e della scuola di specializzazione, la vecchia SSIS. Da più di dieci anni siamo passati al sistema dei concorsi che ha mostrato tutti i suoi limiti, perché non mette in collegamento la domanda con l’offerta, per cui i posti che non si riescono a coprire con i docenti di ruolo vengono coperti dai supplenti che dopo un anno manifestano l’esigenza e rivendicano il diritto di essere stabilizzati, per cui questo meccanismo porta ad aumentare l’età media di docenti assunti e li costringe a fare una trafila faticosa e dispendiosa. Se riuscissimo ad affrontare questa criticità e ogni anno avessimo delle strutture che mettono a disposizione il personale di cui ogni anno si ha bisogno per coprire i posti disponibili, noi diminuiremo nello stesso momento: il disagio delle persone, abbasseremmo l’età media e aumenteremmo la preparazione dei docenti.

La formazione dei docenti è un altro tema scottante. Non può bastare avere a laurea in lettere o in matematica per essere un buon insegnante.
Cosa si sta facendo in questo senso?

La formazione deve essere permanente. Serve sensibilità e preparazione. Una professione così delicata e complessa richiede, oltre il titolo di studio, una formazione completa. La scuola di specializzazione dell’Università era ben strutturata. Il modello, dal mio punto di vista professionale, dovrebbe essere: la laurea, il concorso per entrare in una scuola di specializzazione e la frequenza di qualche anno con un esame finale. Superato l’esame, si è abilitati a entrare in graduatoria per poter essere assunti e durante il primo anno avviene una valutazione sul campo. Servirebbe una riforma urgente in questo senso.

Com’è invece la situazione dell’edilizia scolastica?

In Sardegna non c’è il problema della mancanza degli edifici. In problema è che per tanti, tanti anni le risorse necessarie per mantenere in sicurezza gli edifici sono state sempre meno. Quando si hanno delle infrastrutture si deve scegliere se investire nella manutenzione continua oppure se lasciarle andare in rovina per poi intervenire con costi sicuramente molto superiori. Soltanto negli ultimi anni ci si è resi conto dell’importanza e dell’urgenza e ora si sta intervenendo con investimenti massici. (a.c.)

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Una serata comunitaria in Ogliastra

di Giorgio Zanchini.
Anzitutto la sorpresa. La sorpresa di trovare centinaia di persone in una bella serata di agosto, all’ora di cena, in uno degli angoli più celebrati della Sardegna.
Sorpresa perché spesso tendiamo a sottovalutare la resistenza delle reti, delle comunità, delle aggregazioni del nostro Paese, del nostro territorio, distratti come siamo dalla connessione perenne all’altra Rete, quella che ormai – anche portando progresso e partecipazione, figuriamoci, non lo negherò di certo – ha colonizzato il nostro presente, e presi da impegni quotidiani che non aiutano i momenti collettivi.
E invece continuano per fortuna a muoversi tanti altri attori, continuano a vivere altri tipi di legami, altri modi di stare assieme, di agire, di costruire.
Il nostro è un Paese antico, la nostra è una terra antica, la Sardegna è una terra antichissima. Significa, credo, che certe strutture e valori e progetti vengono da lontano, sono state e sono gli architravi di corsi durevoli, di identità che ci definiscono e che vengono solo sfiorate da fenomeni e mode spesso passeggeri.
La Chiesa è ancora nel cuore, forse il cuore, di questi processi di lunghissimo periodo, dell’identità che tiene assieme il Paese. Non è semplice continuare ad esserlo in un contesto storico di forte secolarizzazione, in cui a definire ciò che siamo contribuiscono culture diverse, mondi diversi, portatori di valori, visioni, progetti spesso molto distanti l’uno dall’altro.
Siamo una società plurale e aperta, e questo è oggettivamente un bene. Nel benvenuto pluralismo credo però sia altrettanto positivo che ci sia chi costruisca, investa, progetti, nei legami, nello stare assieme, nel partecipare, nel coinvolgere e condividere. E nel pensare – e quindi progettare e laddove possibile costruire – a una società migliore, più equa, più fraterna.
Ecco, questa è la prima impressione che ho avuto a Tortolì. La capacità della Chiesa di continuare a parlare alla propria comunità, a costruire legami, a far incontrare fisicamente le persone per ragionare, ascoltare, o anche semplicemente distendersi.
Sarà l’energia, l’empatia, l’acutezza del vescovo Antonello, sarà la carica di sacerdoti come don Giorgio o don Pietro, o la passione, non saprei come altro definirla, dei tanti volontari, fatto sta che mi è sembrato di avere di fronte partecipazione, fratellanza, confronto, attenzione all’altro.
In un contesto, l’anfiteatro Caritas di Tortolì, che mi è sembrato esso stesso un luogo fisicamente aperto, solidale, dal volto ospitale.
Poi, certo, c’è stata la serata in sé. Introdotta e chiusa dalle parole del Vescovo, guidata dall’intelligenza e dalla simpatia di un amico e grande giornalista come Giacomo Mameli. E ruotata attorno alle risposte – pacate, ragionevoli, costruttive – di Carlo Cottarelli sulle grandi questioni economiche del presente, o a quelle del sottoscritto, senz’altro meno esperto e lucido di Giacomo, sulle difficoltà dell’informazione di essere all’altezza delle sfide del presente.
Ma quei contenuti, pur – spero – utili, importanti, mi sono sembrati quasi passare in secondo piano rispetto al contesto in cui si calavano, come se appunto fossero contenuti aggiuntivi a un capitale umano, sociale, cristiano già di suo molto forte.
Non è un caso, ovviamente, che il titolo della manifestazione di quest’anno sia stata: Quanto corri! Dove vai?! Che mi sembra in linea con quanto provavo a scrivere poco fa: interrogarsi sul senso delle proprie azioni, del proprio progetto di vita in un’epoca affollata di stimoli che lasciano pochissimo tempo per fermarsi a riflettere sulle domande di senso.
In fondo anche il dibattito di quella sera, apparentemente su un altro piano e su altri temi, è stato uno stimolo a riflettere sulla direzione del nostro mondo, sulle fragilità economiche del nostro presente, sulle chiavi per una crescita e uno sviluppo più equo, meno diseguale. Cottarelli ci ha aiutato a capire la genesi e l’evoluzione del fenomeno globalizzazione, a leggerne il portato positivo e i limiti, a definire come e dove intervenire per costruire una società più giusta. Così come la discussione sull’informazione – partita come ovvio da un’analisi della situazione in Afghanistan – ha cercato di essere un confronto sui limiti e le potenzialità del giornalismo italiano, sui rischi e benefici di un’informazione dominata dalla grandi piattaforme della Rete, sugli strumenti migliori per acquisire consapevolezza, coscienza critica.
L’orizzonte è quello dei valori, del sistema valoriale, della crescita comune, e il fatto di riuscire in un contesto vacanziero d’agosto a mettere assieme così tanta gente, dapprima in silenzio e poi a ragionare sulle cose dette, credo sia uno dei tanti frutti dell’impegno della diocesi e di chi lavora per costruire comunità.

Lettera Pastorale_23

Nel segno di Maria la prossima visita pastorale

di Claudia Carta.

Lo scorso 25 aprile, nel Santuario della Madonna d’Ogliastra, in occasione della solennità della Patrona della diocesi, il vescovo Antonello ha annunciato la prossima visita pastorale nelle parrocchie

C’è una porzione di Chiesa diocesana a celebrare la Patrona d’Ogliastra, il 25 aprile. Il Santuario risuona del celebre inno che unisce le comunità parrocchiali attorno al suo vescovo, ai sacerdoti e ai diaconi. E accoglie l’annuncio. Il pastore recepisce e fa suo il messaggio del Papa, quello di andare e vedere, quello di arrivare e fermarsi. Per osservare, ascoltare, condividere la gioia, asciugare le lacrime, sentire il grido.

Il cancelliere, don Danilo Chiai, legge solennemente il decreto di indizione della visita pastorale. Novembre. Solennità di Cristo Re dell’universo. Dove tutto avrà inizio. Antonello, pellegrino sulle strade dei nostri paesi e delle nostre città. L’umiltà del pastore e l’autorevolezza della guida. Il silenzio di chi medita tutte le cose nel suo cuore e, al tempo stesso, la voce rassicurante del padre che incoraggia e sprona i suoi figli.

Un evento e, come tale, un avvenimento da preparare con cura, spiritualmente prima ancora che logisticamente. Come quando ci si prepara ad accogliere lo sposo e ad andargli incontro. Il vescovo lo sa e ne avverte tutta la responsabilità: «Sono sette anni che sono felicemente con voi – ricorda al termine della celebrazione eucaristica –. Pregate anche per il pastore di questa Chiesa e non tanto per me, ma per ciò che il vescovo rappresenta. Con due diocesi, il pastore ha bisogno di preghiera, di accompagnamento e di fortezza».

Nella domenica che vede di fronte il pastore buono e il mercenario – dove buono sta per assenza assoluta di qualunque interesse personale e dove il verbo pascolare diventa il denominatore comune di chiunque abbia una vocazione specifica, una paternità e maternità educativa, anche sociale –, il vescovo esalta il modello Gesù, in un’immagine che non ha nulla di debole: «È il pastore forte che si erge contro i lupi e che ha il coraggio di non fuggire davanti agli impegni». La dimensione tenera unita alla fortezza. Una «combattiva tenerezza». Infine l’invito: «Tutti noi siamo chiamati a essere Pastore buono, bello, combattivo e tenero, in ogni ambito della nostra vita».

Scripta manent. È così. Le parole hanno un peso e, scritte, diventano ancora più incisive.

Il vescovo Antonello affida il suo percorso in terra ogliastrina e l’avvio della sua visita nelle comunità a una riflessione che delinea in venti pagine la sua nuova Lettera Pastorale – la seconda dopo Sul carro con Filippo, del 2017 –: Sogno con voi “una Chiesa lieta con volto di mamma”, a indicare e rappresentare una Chiesa con quella maternità che viene da Maria: «Sono loro, le nostre mamme – scrive il vescovo – a essere capaci di possedere e pronunciare parole dolci e antiche. A un “Padre nostro” si affianca quindi una “Madre nostra”, alla quale la Chiesa guarda in ogni tempo per imitarne gli sguardi e i gesti, persino i silenzi».

Lo stile sarà ancora una volta quello di chi privilegerà «l’ascolto e la condivisione, valorizzando l’incontro e le relazioni, per leggere con sguardi di fede la realtà ecclesiale e sociale», leggendo i nostri giorni e questo nostro tempo che tante difficoltà ci sta facendo sperimentare, avvertendo un logoramento esistente certamente anche prima della pandemia, ma che questa ha inesorabilmente velocizzato. Davanti a tutto ciò non si può restare immobili, non ci si può limitare a «mantenere l’esistente». Occorre lasciare andare ciò che non va più bene. Dal pastore della diocesi di Nuoro e di Lanusei anche un secco no all’abitudine pastorale, specie se non è produttiva e portatrice di nuovo slancio evangelico. Serve un cambiamento. Serve vivere il cambiamento. Anche nella pastorale. «Solo così possiamo trasmettere agli altri. Contagiosi, sì, ma solo della gioia che viene dal Vangelo».

Allora sarà davvero una Chiesa, per dirla con Bergoglio, «che comprende, accompagna, accarezza».

Sanità

Sanità obsoleta e cattiva politica: binomio distruttivo. A tu per tu con Nerina Dirindin.

Il Covid ha messo a dura prova il Servizio Sanitario Nazionale. Quali sono stati i punti di forza e di carenza?

Grazie alla Costituzione e alla legge 833 del 1978, l’Italia ha potuto affrontare l’emergenza Coronavirus senza aggiungere alle tante sofferenze per la malattia e alla paura della morte la preoccupazione del costo di trattamenti che avrebbero potuto essere insostenibili per molte famiglie italiane. Grazie alla Carta costituzionale e al Ssn, nessuna persona esposta al rischio di disoccupazione, fenomeno purtroppo non raro in questa profonda crisi economica, ha temuto di perdere il diritto alle cure insieme al posto di lavoro.
Non è poco. E ce ne stiamo rendendo conto (forse) solo ora, con la pandemia.
Abbiamo la fortuna di vivere in un paese che ha saputo dotarsi di un servizio sanitario disegnato in modo da garantire a tutti, indistintamente, la tutela della salute. Un patrimonio che ci è stato consegnato dalle generazioni che ci hanno preceduto e che dovremo consegnare intatto ai nostri figli, anzi possibilmente migliorato. Perché la sanità pubblica è un patrimonio che tutti noi prendiamo in prestito dai nostri figli.
Dal lato delle carenze, la pandemia ha colpito il nostro paese in un momento in cui il Ssn aveva raggiunto il suo punto di massima debolezza. Personale dipendente ridotto di oltre 40 mila unità nell’ultimo decennio, mancato ricambio generazionale di medici e infermieri (la cui età media è ormai da tempo superiore ai 50 anni), aumento del precariato e del ricorso a personale esterno (attraverso equivoche forme di intermediazione di mano d’opera), ospedali obsoleti e insicuri (poco flessibili di fronte a una emergenza pandemica), servizi territoriali impoveriti, scarsa cultura della prevenzione nei luoghi di vita e di lavoro, dotazione di posti letto ospedalieri fra le più contenute dell’Europa continentale, diseguaglianze geografiche e socio-economiche in crescita, disimpegno dei vertici decisionali a tutti i livelli.

Lo stato sociale (sanità, scuola, assistenza, previdenza) ha subito negli anni tagli e rimodulazioni di spesa; non pensa che occorra una inversione di rotta visto quanto accaduto con la pandemia virale?

Di fronte alle tante debolezze del nostro welfare, l’unica strada che possiamo cercare di percorrere è quella di impegnarci seriamente a “immaginare un altro mondo”, verso il quale procedere senza egoismi e inutili distinguo, con un paziente lavoro di trasformazione di ognuno di noi e della società.
«Storicamente le pandemie hanno forzato gli uomini a rompere con il passato e a immaginare un nuovo mondo. Questa volta non è diversa». Così scrive Arundhati Roy, scrittrice indiana e attivista dei diritti umani, per ricordarci che «abbiamo bisogno di un cambiamento». Un cambiamento reale, che non può limitarsi alle tante affermazioni di circostanza. Un cambiamento che ci impone di guardare al futuro senza il peso delle carcasse, degli errori del passato, delle sudditanze culturali e politiche nei confronti di chi guarda alla sanità solo come a un settore potenzialmente molto redditizio per gli operatori privati. L’emergenza coronavirus è in tal senso una opportunità.

La ricerca sui vaccini è stata tempestiva, ma l’Europa ha dimostrato le sue debolezze disorganizzative, sia nella distribuzione che nel contrastare la pandemia. Lei che opinione ha al riguardo?

La partita che si sta giocando per l’accesso al vaccino, essenziale per sconfiggere il virus, si sta rivelando complessa e iniqua. A oggi oltre 234 milioni di dosi sono state somministrate in tutto il mondo, di queste il 75% sono concentrate in soli 10 paesi mentre la maggior parte dei paesi a medio e basso reddito sono rimasti sostanzialmente esclusi da questa prima fase della campagna vaccinale.
Per questo abbiamo chiesto al Governo italiano di impegnarsi a operare ogni sforzo nell’ambito dell’Unione Europea, del G20 di cui ha la presidenza e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) per garantire la tutela della salute al di sopra di ogni protezione della proprietà intellettuale. E per rendere i vaccini economicamente accessibili, consentendo una produzione su larga scala per soddisfare l’intera domanda globale.

Questa situazione pandemica ha evidenziato le fragilità psicologiche di ognuno di noi specialmente se disabili, anziani, vulnerabili, persone sole. Noi come Chiesa abbiamo dato il massimo supporto spirituale e sociale. Lo stato invece?

L’emergenza è stata affrontata dalla sanità pubblica con grande dispendio di energie, risorse, professionalità e senso di responsabilità, soprattutto da parte di medici e infermieri. Di fronte a una situazione del tutto eccezionale, molti si sono prodigati per alleviare le sofferenze e contrastare l’epidemia. Di questo dobbiamo essere tutti grati. Ma non abbiamo fatto tutto il necessario e forse neanche tutto il possibile.
L’emergenza ci ha insegnato molto: ci ha insegnato che la rete dei servizi distrettuali, servizi vicini ai luoghi in cui vivono le persone e che possono intervenire prima che le condizioni di salute peggiorino in modo irreparabile, deve ritornare a essere uno dei pilastri fondamentali della sanità pubblica. Ci ha fatto capire che dobbiamo chiedere alle università di investire di più, e meglio, nella formazione dei medici e di tutti gli altri professionisti della salute. E che dobbiamo imparare a programmare la formazione del personale sanitario in base ai bisogni della popolazione e non alle esigenze del mondo accademico.
La pandemia ci ha insegnato, inoltre, che dobbiamo favorire ovunque possibile la permanenza degli anziani nell’ambiente in cui hanno vissuto da autosufficienti, nella comunità di cui hanno fatto parte, fra una moltitudine di persone in grado di offrire loro stimoli e solidarietà, e non solo fra persone con la loro stessa condizione di fragilità. Le morti nelle Rsa devono interrogarci non solo sulla organizzazione dell’assistenza nelle strutture in presenza di una pandemia, ma prima di tutto sul superamento delle strutture residenziali come soluzione ordinaria alla fragilità delle persone. Non è una questione di spesa pubblica. È una questione culturale, perché dobbiamo imparare a rispettare anche chi non è più produttivo.

In Sardegna come si può potenziare il Sistema Sanitario dal centro alla periferia, in particolare in queste situazioni particolari?

La Sardegna, come altre regioni, deve imparare a liberare la sanità dagli appetiti della (cattiva) politica e dagli interessi dei privati for profit. Deve imparare a confrontarsi regolarmente con il resto del Paese, perché il confronto è sempre illuminante. Deve rafforzare la prevenzione collettiva, nei luoghi di vita e di lavoro delle persone, nelle scuole e nelle comunità. Deve adeguare il suo sistema per renderlo capace di far fronte a eventi che ormai non sono più imprevedibili: le epidemie globali fanno parte della nostra vita, non dell’imponderabile. Deve attrezzarsi per progettare gli interventi che saranno possibili grazie all’ingente quantità di risorse europee pensando al futuro delle prossime generazioni, evitando di restare prigioniera delle vecchie ricette, puntando a una vera riqualificazione della sanità nella consapevolezza del compito storico cui siamo tutti chiamati. (Ted)

VESCOVI SARDI

La Sardegna per San Francesco

A conclusione delle intense giornate di ascolto della Parola di Dio in occasione degli esercizi spirituali guidati da Mons. Francesco Cacucci, la Conferenza Episcopale Sarda il 25 e 26 febbraio si è riunita per la programmata assemblea ordinaria. Le due giornate hanno visto i Vescovi condividere inizialmente le problematiche delle rispettive Diocesi in questo tempo, purtroppo ancora sottoposto – nonostante segnali confortanti – all’imprevedibilità della diffusione della pandemia. È emerso il desiderio di contribuire al cammino delle comunità cristiane offrendo segnali e sguardi unitari, che incoraggino i cristiani a guardare con fiducia al futuro, anche attraverso la riformulazione di percorsi di formazione alla fede, adeguati al momento storico che stiamo vivendo, e che coinvolge anche la dimensione sociale ed economica della nostra terra.

Dopo aver esaminato gli aspetti amministrativi riguardanti l’attività ordinaria della Conferenza Episcopale, della Facoltà Teologica e del Seminario Regionale, si è provveduto all’approvazione dei bilanci dei Tribunali ecclesiastici dell’Isola. I Vescovi hanno inoltre rivisto la bozza della Nota sull’Esortazione di papa Francesco Amoris laetitia, aggiungendovi delle integrazioni, con l’obiettivo di promulgarla nei primi mesi del 2021, a cinque anni dalla sua pubblicazione e nell’anno dedicata alla stessa Esortazione. La riflessione ha anche preso in esame il programma generale che vedrà i Vescovi sardi insieme alle chiese locali, protagonisti del pellegrinaggio ad Assisi il 3 e 4 ottobre prossimo, in occasione dell’offerta dell’olio per la lampada che arde presso la tomba di S. Francesco. Dopo vent’anni, spetta infatti alla Sardegna compiere questo gesto, in collaborazione con la Presidenza della Regione, il sindaco del capoluogo e i sindaci rappresentanti dei comuni, insieme ai tanti pellegrini che, se le condizioni sanitarie lo permetteranno, saranno presenti. Tra le comunicazioni dell’incontro, da segnalare l’attenzione posta al tema della Liturgia e della Lingua sarda, percorso che procede, approfondendo in questa fase l’aspetto liturgico e linguistico.

La Conferenza ha preso atto anche dei criteri fatti conoscere dalla CEI per la partecipazione alla 49ma Settimana sociale dei cattolici italiani, prevista nel prossimo mese di ottobre a Taranto. L’indicazione dei delegati di ciascuna Diocesi permetterà, entro il mese di aprile, di programmare un percorso di preparazione diocesana e regionale. La Conferenza inoltre ha ritenuto di condividere l’iniziativa promossa dall’Associazione La Sardegna verso l’UNESCO e, in sintonia con il patrocinio già espresso dai massimi enti amministrativi e culturali regionali, appoggia l’iniziativa volta ad ottenere il riconoscimento dei monumenti della civiltà nuragica come patrimonio identitario della Sardegna di valore universale. L’assemblea dei Vescovi ha provveduto infine alla nomina di padre Ilario Bianchi del PIME, della diocesi di Sassari, all’Ufficio regionale per le Missioni.

La Conferenza si riunirà prossimamente il 12 e 13 aprile. Durante tale sessione i Vescovi dedicheranno del tempo a continuare il dialogo di conoscenza e di approfondimento della concretezza della vita dell’Isola, grazie all’incontro con le realtà istituzionali e sociali della Sardegna.

+ Corrado Melis, segretario

Chiesa e Lavoro

Come la Chiesa in Sardegna ha creato lavoro

Le dieci Diocesi della Sardegna nel triennio 2018 – 2020 hanno attivato 3703 posti di lavoro, per 228 interventi, nei diversi settori dei Beni Culturali Ecclesiastici e della Nuova Edilizia di Culto.
Le risorse messe in campo – per un totale di 54.002.866,78 euro, di cui 9.190.094,92 per i Beni Culturali Ecclesiastici e 44.812.771,86 per la Nuova Edilizia di Culto – sono arrivate direttamente dall’8xMille alla Chiesa Cattolica e da contributi degli enti pubblici, delle Diocesi e delle comunità parrocchiali.

I numeri degli investimenti, spesi sui territori diocesani, sono significativi:

Ales-Terralba euro 3.774.795,90;

Alghero-Bosa 6.471.497,00;

Cagliari 5.981.178,00;

Iglesias 4.386.956,02;

Lanusei 7.465.898,86;

Nuoro 7.279.159,00;

Oristano 4.615.831,00;

Ozieri 3.938.049,00;

Sassari 3.715.286,00;

Tempio-Ampurias 6.374.216,00.

Questo concreto impegno della Chiesa sarda è un piccolo segno di quella speranza che fiorisce nel giorno che viviamo e che apre alla speranza più grande dell’essere per sempre gli uni accanto agli altri, una sola famiglia in Cristo.

Ogni Diocesi si avvale dei propri competenti Uffici diocesani per i Beni Culturali Ecclesiastici e per la Nuova Edilizia di Culto che si occupano di restauri e funzionalizzazione edilizia, valorizzazione di musei, archivi e biblioteche diocesane, catalogazione di beni culturali mobili e immobili, installazione di impianti di sicurezza, restauro di organi a canne e custodia, mediante volontari associati, di edifici di culto.

I progetti coordinati e valutati dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana hanno portato, in Sardegna:

  • ad attivare, nell’ultimo triennio, un centinaio di cantieri di restauro architettonico;
  • a mettere in campo, per una più puntuale azione di conoscenza, e di salvaguardia, un esteso programma di catalogazione e studio dei beni storici artistici mobili e immobili;
  • a rendere fruibili e a valorizzare, a favore delle comunità di pertinenza, degli studiosi e dei visitatori, la grande mole dei patrimoni archivistici bibliotecari e museali ecclesiastici.
  • Queste attività, oltre a sensibilizzare e portare all’azione gruppi di volontari associati, hanno permesso di qualificare specifici operatori, mediante periodici corsi di specializzazione voluti dalla CES e dalla CEI.

Gli stessi Uffici diocesani, all’interno della Consulta Regionale per il Patrimonio Ecclesiastico della Sardegna, stilando accordi, con l’approvazione e la supervisione della Conferenza Episcopale Sarda, anche con la Regione Autonoma della Sardegna.
L’ultimo in ordine di tempo, tuttora in corso, è “Sardegna in cento chiese”, un piano di recupero e valorizzazione dello straordinario patrimonio storico-artistico e architettonico di pertinenza ecclesiastica e che rientra nel più ampio Piano Operativo Regionale per i fondi strutturali europei.

Nell’ultimo triennio le Diocesi hanno potuto realizzare ex novo o rifunzionalizzare, in tutta l’Isola, diversi complessi parrocchiali. Questi, oltre a svolgere la loro precipua funzione di luoghi di culto e di incontro dei fedeli, svolgono una inderogabile azione di cura e di attenzione alla persona umana, ponendosi come punti di riferimento nella riqualificazione di aree urbane degradate, nei settori dell’assistenza ai poveri, di formazione alla socialità per giovani e non, e di promozione socio culturale per le comunità di riferimento.