Editoriale
Padrini e madrine nella pratica dell’iniziazione cristiana
In un documento approvato ad experimentum per tre anni dai vescovi della Sardegna, le nuove linee-guida sul ruolo dei padrini e delle madrine nei sacramenti dell’iniziazione cristiana e sulle modalità della loro scelta. Nasce la figura del testimone.
I vescovi della Sardegna, nella seduta della Conferenza Episcopale Sarda del 17-18 ottobre scorso, hanno offerto ai presbiteri e ai fedeli alcune innovative linee di orientamento sul tema dei padrini e delle madrine nella pratica dell’iniziazione cristiana. Dopo aver ribadito che la comunità ecclesiale si deve adoperare per formare dei cristiani autentici e non solo dei “battezzati”, i vescovi hanno riaffermato «che tutta la comunità ecclesiale e, in concreto, tutta la comunità parrocchiale, si deve sentire responsabile dell’iniziazione cristiana dei fanciulli, dei ragazzi e degli adulti», chiamata – com’è – «a vivere questa responsabilità come vera e primaria missione evangelizzatrice». In particolare, nell’esaminare il percorso dell’iniziazione cristiana, dal Battesimo alla Confermazione, passando attraverso la partecipazione piena e consapevole all’Eucaristia, hanno richiamato il ruolo insostituibile dei genitori, quello dei catechisti, dei padrini, degli altri familiari e degli amici, e, ovviamente, quello del parroco.
Per quanto riguarda, in modo specifico, il ruolo dei padrini e delle madrine, oltre a sottolineare che, alla luce della normativa generale della Chiesa, deve essere previsto un solo padrino e una sola madrina per il Battesimo e un solo padrino o una sola madrina per la Confermazione, hanno anche invitato le comunità a riflettere sul «grande valore che il padrinato ha assunto lungo i secoli nella Chiesa, quale segno efficace della partecipazione del popolo di Dio alla crescita spirituale dei fedeli», e ammonito a sfuggire alla «tentazione di vedere nella richiesta della presenza dei padrini una sorta di adempimento formale o di consuetudine sociale in cui rimane ben poco visibile la dimensione di fede», richiamando nel contempo alla necessità di pensare «percorsi essenziali di preparazione insieme ai genitori, affinché i candidati a essere padrini riflettano sull’assunzione di responsabilità connessa con questo ruolo e sulla loro testimonianza di fede».
I vescovi, con attenzione pastorale hanno anche esaminato il caso in cui la persona che si desidera designare come padrino o madrina manchi di qualcuno dei requisiti necessari; in tale circostanza, si concede che tale persona possa essere designata come testimone del sacramento, giacché esprime una positiva vicinanza parentale, affettiva ed educativa. Resta ovviamente inteso che anche per il testimone è da prevedere un percorso di formazione al sacramento che si celebra; i padrini e gli eventuali testimoni, infatti, «non devono essere figure isolate ma vanno inseriti nel cammino che la comunità parrocchiale compie in vista dell’iniziazione cristiana dei candidati», compiendo «un percorso di preparazione personale, per approfondire il significato del sacramento che sarà celebrato e per saper offrire al neo battezzato e al neo cresimato un serio aiuto spirituale per la sua vita cristiana».
A tutti, infine, genitori e familiari, catechisti, padrini e testimoni, i vescovi affidano «il compito di continuare l’impegno dell’accompagnamento educativo cristiano anche dopo la celebrazione del sacramento», in collaborazione con il parroco, come pastore che rappresenta il vescovo in ciascuna comunità parrocchiale. A questo riguardo, nel documento si ricorda anche che il sacerdote abilitato a rilasciare il certificato d’idoneità per il padrino o la madrina è il parroco dove si ha il domicilio o il quasi domicilio.
I balenti del pullmann
di Augusta Cabras
La notizia rimbalza velocemente. Il passaparola ha inizio e il web fa la sua parte. Ancora una volta si racconta di un atto di vandalismo sul pullman dell’Arst che riaccompagna gli studenti a casa dopo una mattinata passata a scuola. Il cuore della notizia è che alcuni ragazzi delle scuole superiori, nel tempo del tragitto scuola-casa distruggono un pullman. Sedili divelti, strappati, segni di un atto vandalico la cui origine non è chiara. Perché la domanda è solo una ma le risposte possono essere tante.
Perché un gruppo di ragazzi sente la necessità di distruggere qualcosa che, se anche non gli appartiene personalmente, dovrebbe considerare, per quel senso civico che dovremmo possedere, cosa di tutti e quindi anche cosa propria? Da dove nasce un gesto come questo? Dalla rabbia? Dalla noia? Dalla voglia di infrangere le regole e spostare il limite delle proprie azioni? O dalla necessità di affermare Io ci sono e questo è il mio modo di farvelo sapere? O è forse voglia e desiderio di far vedere a se stessi e agli altri di cosa si è capaci e fino a dove si riesce ad arrivare? O nasce da quella cosa che localmente chiamiamo balentia? Difficile dare una risposta certa e univoca quando si parla di ragazzi che attraversano anni di continua evoluzione. L’input al gesto è forse solo una delle cose sopra scritte, o forse tutte o forse nessuna.
Franco Tegas, sindaco di Talana, paese dei ragazzi protagonisti del pessimo gesto, amareggiato e addolorato per quanto accaduto non lascia correre l’episodio e chiama a raccolta genitori e figli in un’assemblea partecipata. Il fatto che in tantissimi abbiano risposto al mio appello lo considero il segnale di un interesse verso i ragazzi e la loro educazione e il segno di una sensibilità che condanna gesti e comportamenti inaccettabili. Il Sindaco Tegas è determinato. È consapevole delle difficoltà oggettive legate all’età dei ragazzi ma non vuole cedere terreno alla possibilità che attorno a loro ci sia quel vuoto su cui si possono sviluppare e sedimentare comportamenti, stili, atteggiamenti negativi che si ripercuotono sulla vita dei ragazzi, delle loro famiglie e di tutta la comunità. Lo ha fatto in questa occasione ma molto il suo Comune fa e continuerà a fare per l’educazione, attuando progetti specifici per bambini e ragazzi, mettendo in campo professionisti in ambito sociale, educativo, culturale, investendo importanti risorse economiche in un momento in cui i tagli indiscriminati ai fondi per gli Enti Locali non lasciano molto margine d’azione.
La tendenza è quella di costruire o almeno di provare a costruire e rafforzare la cultura del rispetto, dell’accoglienza, del riconoscimento del bello negli altri, nella natura, nelle cose. Il cammino da fare è lungo e impervio ma l’educazione dei bambini e dei ragazzi rappresenta la sfida più importante e impegnativa a cui le istituzioni insieme alle famiglie sono chiamate, in un lavoro di rete, supporto e condivisione di metodi, strategie, azioni e obiettivi. Famiglia, scuola, parrocchia, associazioni per il tempo libero devono lavorare compatti, disponendo tutte le energie possibili per far crescere bambini e ragazzi rispettosi di sé stessi, del prossimo, delle cose, delle regole per il vivere civile. Sembrerebbe facile negli intenti e nella volontà di ogni soggetto che educa ma le difficoltà sono immense. E forse lo sono sempre state. Perché quando si parla di umanità non abbiamo ricette valide a priori o bacchette magiche che agevolano il lavoro. La complessità di ciascuno rende il lavoro educativo altrettanto complesso.
Di fronte a episodi come quello più recente viene da chiedersi dove si stia sbagliando con i bambini e con i ragazzi. Il senso di fallimento degli adulti e soprattutto delle famiglie dei ragazzi protagonisti di gesti vili è grande quando ci si rende conto di non essere riusciti a trasmettere valori basilari come il rispetto. Ma si sa, i bambini e i ragazzi imparano molto dagli adulti. Non ci resta che chiederci che esempi siamo capaci di dare, che linguaggio usiamo, che pensieri esprimiamo, che atteggiamenti abbiamo e quanto di tutto questo trasferiamo ai nostri figli in maniera volontaria e involontaria. Non ci resta che chiederci quando siamo credibili agli occhi dei nostri ragazzi quando parliamo loro di rispetto delle regole, di onestà, di bene. Loro ci guardano, ci osservano, forse ci imitano e colgono l’aderenza o lo scollamento tra il nostro dire e il nostro essere. Avere questa consapevolezza può spaventare ma costituisce di fatto il grande potere che abbiamo in mano, perché siamo noi a poter offrire ai nostri figli una linea da seguire, i valori positivi su cui potranno costruire la loro vita e gli appigli a cui sostenersi nei momenti di debolezza e incertezza. In ogni caso di fronte al male generato da azioni negative non ci si può abbattere e fermare. E’ necessario che i genitori per i loro figli e le comunità per tutti i cittadini agiscano e reagiscano al di là dell’indignazione e lontane dal rischio di giustificare comportamenti ingiustificabili. I ragazzi non possono essere protetti e spalleggiati. I ragazzi vanno messi di fronte alle proprie responsabilità, ripresi con forza e senza sconto alcuno e aiutati nel riconoscimento dell’errore e delle sue conseguenze. Ma questo non può bastare. Chi commette un errore va aiutato e sostenuto nel riconoscimento costante di una strada retta da seguire. Perché in ogni ragazzo c’è un terreno da cui può nascere il bene. E questa è la nostra speranza.
Se la legalità non è un valore ma un prerequisito
di Augusta Cabras
Parla anche di politica, don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, nell’ultima delle serate organizzate dalla diocesi nel contesto delle iniziative della Pastorale del turismo.
La lunga storia dell’Orientale Sarda
di Augusta Cabras
Avere notizie sui nuovi e imminenti lavori per il completamento della nuova 125 è un’ardua impresa. Anzi è un’impresa impossibile.
Gina e Andrea. L’amore in uno sguardo
di Augusta Cabras
Una mamma e il suo figlio disabile. La storia di un amore vero, forte, grande. E di un lungo dispiacere: dover prendere atto che nel nostro territorio manca una struttura non ghettizzante, ma aperta alla comunità, dove i ragazzi con disabilità possano svolgere attività diverse, manuali, sportive, creative, seguiti da personale specializzato.
Giubileo dei giovani a Lanusei
Sono stati tantissimi i ragazzi della nostra diocesi che il 24 aprile hanno risposto alla chiamata “per nome” a partecipare alla giornata giubilare che il vescovo Antonello Mura ha voluto dedicare loro, nell’incontro di riflessione a Lanusei sulla loro fede. L’ufficio diocesano di Pastorale Giovanile ha accolto e gestito l’evento, primo passo verso una maggiore responsabilità nei confronti delle tematiche della fede e in direzione della propria crescita personale. Un incontro fatto anche di riconciliazione che si è concretizzata nella visita al luogo diocesano della misericordia, e che si è aperto con un intenso incontro che ha significativamente avuto luogo nel salone del centro Caritas. Il primo a parlare è stato proprio il vescovo che nella lectio divina, traendo spunto dal brano evangelico del giovane ricco, ha ricordato ai presenti come «seguire Cristo non è un affastellarsi di rinunce, ma un susseguirsi di moltiplicazioni di vita»; come allora, Gesù chiede ancora oggi a tutti i giovani di «lasciare tutto per avere tutto», e li riconosce e ama singolarmente («non siamo solo guardati, ma siamo visti»).
È stata poi la volta di un dibattito-intervista che il vescovo Antonello ha voluto personalmente condurre di cui sono stati protagonisti Silvia Melis, suo figlio Luca Usai e Carlo Cabras: oltre un’ora intensa e coinvolgente che ha tenuto tutti col fiato sospeso. Inizialmente sono state le parole di Silvia Melis, nel 1997 (all’epoca aveva 28 anni) ostaggio dei banditi, che ha narrato il cammino di perdono dei suoi sequestratori: un’esperienza di riconciliazione con chi l’ha rapita e con la sua stessa vita che le è stata rubata per 265 giorni. «Non puoi riuscire a superare le tue esperienze di dolore – ha detto la donna – se non ti riconcili con gli altri e con te stessa: solo il perdono per il male che ti è stato fatto, può consentirti di ricominciare una vita serena». A farle il controcanto è stato suo figlio Luca, che all’epoca del sequestro aveva 5 anni, e che era stato abbandonato dai banditi nell’auto della madre: «Non ho mai pensato di rimproverare nessuno, ma penso sempre che sia necessario ripartire: mi sento sempre in debito con Dio perché mi ha restituito viva mia madre». Cosa ti è costato di più?, ha insistito il vescovo con Silvia. «Certo, durante il sequestro a volte mi è venuto di chiedermi dove fosse Dio e perché mai permettesse quella cosa orribile che stavo vivendo. Ma in quelle lunghe giornate e, soprattutto, in quelle lunghe notti mi ha sempre soccorso la preghiera che mi ha consentito di trovare la forza per andare avanti». Disperata? «Mai. Ho considerato quei giorni, mentre li vivevo, un’occasione straordinaria che mi era donata per far crescere la mia fede, e sperare senza riserve in Colui che tutto può era tutto quello che mi restava da fare». Hai mai incontrato chi ti ha sequestrato? «No. Quelle persone erano e sono rimaste anonime, anche se durante il sequestro ha perfino cercato di dialogare con loro per provare a capire il senso del loro gesto».
È stata, quindi, la volta di Carlo Cabras, 32 anni, originario di Sorso, con alle spalle una lunga esperienza di volontariato in Kosovo, Uganda e Iraq, sempre in situazioni di frontiera. È stato uno svago il tuo andare in giro? «No – ha risposto il giovane alla provocazione del vescovo -. È stata una felice scelta di vita: sono stato papà, amico, fratello di tanti sofferenti … Dal di fuori può perfino sembrare un macello, la mia vita; ma per me è un capolavoro. Quei volti sfasciati, quei corpi mutilati dalla guerra mi accompagnano sempre: è la vetrata in cui mi si manifesta Dio». Carlo ha, quindi, narrato i due incontri più straordinari della sua vita, quello con un coetaneo portatore di handicap («non sono io l’handicappato – gli aveva detto quello -, sei tu») e quello con don Benzi, incontrato una notte quasi di sfuggita: «il suo sguardo mi ha dato la docilità e la forza di vivere integralmente il vangelo. Dovunque mi mandi io vado, mi sono detto quella notte». Poi il racconto della guerra vista in presa diretta, il terrore per le autobombe scoppiate appena fuori casa e gli interrogatori e le ispezioni della polizia che poco si fidava di lui. La cosa più bella che ti sia capitata? «Il sorriso dei feriti quando li chiamavo per nome e il sentirmi, a mia volta, chiamare baba (papà) da tanti bambini resi orfani dalla guerra».
Al termine, dopo un fuoco di fila di domande da parte di tanti che volevano saperne di più, tutti a compiere il pellegrinaggio penitenziale alla porta santa, con un’attenzione e una partecipazione che il vescovo ha voluto personalmente sottolineare.