Carceri, Caligaris: “In Sardegna situazione drammatica”
di Mario Girau.
«Il carcere così come lo conosciamo (a parte qualche eccezione) non è in grado di svolgere la funzione per la quale è stato istituito».
Maria Grazia Caligaris, socia fondatrice dell’associazione culturale di volontariato sociale Socialismo Diritti Riforme, da quasi vent’anni ha puntato i riflettori del suo impegno personale, politico (consigliera regionale per una legislatura) e anche di giornalista sul pianeta complesso come quello carcerario, caleidoscopio di problemi che molto spesso escludono un soluzione unica, uguale per tutti. «Il reintegro sociale – dice la professoressa Caligaris, per molti anni insegnante di Lettere alle scuole superiori – non può avvenire senza interventi individualizzati con personale altamente qualificato e in numero adeguato ai reali bisogni. A Cagliari-Uta per oltre 500 detenuti ci sono 7 funzionari giuridico-pedagogici. In Sardegna ci sono tanti giovani laureati con specializzazioni nel settore socio-psico-culturale che potrebbero svolgere un importante ruolo».
L’esperienza del carcere è sicuramente sconvolgente per una persona “normale”, ma lascia il segno anche in quelle dalla scorza molto dura e non certo “stilnovisti” per vocazione.
L’ingresso in un Istituto Penitenziario è un’esperienza drammatica, sempre. Lo è anche per chi, suo malgrado, vi fa ritorno dopo avere riassaporato la libertà. La detenzione segna l’esistenza di una persona in maniera indelebile. Ne condiziona la vita personale e familiare per più generazioni. Diventa ancora più pesante quando l’iter della giustizia porta dietro le sbarre una persona dopo che sono trascorsi 5/10/12 anni dal reato, quando cioè la sua esistenza ha trovato un equilibrio e non ha più commesso alcun atto riprovevole. Anche un singolo episodio, non particolarmente grave, può avere effetti devastanti.
Perché tutto questo succede?
La detenzione trasforma la persona in un numero, la infantilizza, per qualunque necessità deve fare una domandina, cioè compilare un prestampato che seguirà all’interno un tortuoso iter prima di poter avere una risposta. Non sempre peraltro la si ottiene. Il peggior nemico è l’inattività. Trascorrere intere giornate dentro una cella con due o tre persone (quando va bene) su una branda porta alla depressione. Le due ore d’aria, per giunta trascorse spesso in uno stretto corridoio o in uno spazio con alte mura di cemento, non aiutano. Non tutti i detenuti hanno la capacità di adattarsi alla cattività. Talvolta hanno problemi sanitari che la vita in carcere amplifica. Se i disturbi sono psichici, il ricorso a farmaci crea dipendenza e il detenuto tende a diventare vittima della sua condizione.
Per le donne in carcere probabilmente è ancora peggio
Le donne detenute, che costituiscono una percentuale di circa 4/5% (in Sardegna sono 37 mentre i ristretti complessivamente 2051), vivono la perdita della libertà con più sofferenza rispetto alla maggior parte della componente maschile. Le donne vivono un profondo senso di colpa, pensano ai figli che non possono accudire, ai familiari lontani. Guardano a una realtà familiare preoccupante. Se sono mamme con creature di pochi mesi (perlopiù straniere extracomunitarie e/o Rom) vivono la carcerazione con i bimbi al seguito, spaventate dalla condizione ma anche incapaci di trasformare quella drammatica esperienza in un’occasione di crescita, nonostante il forte impegno delle Agenti della Polizia Penitenziaria e delle educatrici (funzionari giuridico-pedagogici prevalentemente di sesso femminile).
È possibile trasformare il carcere veramente in una struttura rieducativa?
C’è una precondizione fondamentale, da aggiungere a quanto detto in precedenza: lo Stato deve investire sul versante della formazione e della specializzazione di giovani professionisti nel settore socio-psico-culturale – perché la nostra società produce malessere esistenziale, violenza e delinquenza – da impiegare dentro il mondo carcerario. Ciò è particolarmente importante per i minori – anche se la realtà detentiva minorile è molto più ricca di occasioni di recupero – e per i giovani adulti che a 20 anni si ritrovano in cella con persone molto più anziane in tutti i sensi.
Che cosa fare per evitare prigioni sovraffollate? Costruire nuove carceri non sempre è possibile.
Costruire nuove carceri non serve. Occorre invece pensare a risanare la società promuovendo nuovi modelli di comportamento attraverso un sistema valoriale in cui il consumismo abbia un peso minore di quello attuale e dove le persone, di ogni età, possano condividere progetti solidali e di integrazione reale. La marginalizzazione, che si rivela una pratica molto in uso, non sembra produrre effetti positivi. Sul fronte della detenzione, sarebbe opportuno investire nelle Colonie Penali. In Sardegna sono tre (Isili, Is Arenas e Mamone) praticamente vuote. Lo scorso 31 agosto a Isili erano presenti 68 detenuti per 117 posti; a Is Arenas 70 per 176 e a Mamone 133 per 360. Investire sul lavoro realizzando percorsi riabilitativi per piccoli gruppi di ristretti affini per problematiche psico-sociali. Rafforzare le Comunità terapeutiche e le Case-famiglia per persone con doppia diagnosi. Oggi le dipendenze sono molteplici: dalla ludopatia alla cocaina ai farmaci. Sfumature diverse richiedono spazi e operatori penitenziari organizzati in equipe psico-socio-pedagogiche. Ci sono i detenuti in Alta sicurezza e quelli al 41bis. C’è il problema dei sex offender, con qualche iniziativa interessante ma non sufficiente. C’è la questione dei suicidi e degli atti di autolesionismo. Giusto chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma le REMS (Residenze per le misure di sicurezza) non sono sufficienti per i malati psichiatrici più gravi e pericolosi e non ci sono adeguate strutture per chi è sofferente mentale ma deve scontare una pena. Così finiscono dietro le sbarre persone malate.
Non c’è lavoro per un ex detenuto. La vita non riparte da zero soprattutto per i più deboli e una vita da disperati riapre spesso le porte del carcere.
Non è facile parlare della detenzione. È un capitolo con tanti paragrafi in cui protagonista è la sofferenza individuale e quella degli operatori troppo spesso lasciati soli. In Sardegna mancano all’appello 5 direttori e 10 vicedirettori. Il personale sia della Polizia Penitenzia sia degli educatori non è sufficiente per garantire attività e prospettive. Attualmente è in crisi anche quello amministrativo. Un quadro desolante per un sistema che dovrebbe essere un esempio di efficienza. Il volontariato è importante, ma non può e non deve supplire quanto piuttosto collaborare con l’Istituzione e fare da pungolo per migliorare il sistema. Promuovere una cultura che guardi alla persona oltre il reato e la condanna. Lo Stato non può considerare la detenzione come uno spazio-parcheggio in cui collocare in modo indiscriminato persone con analoghe condanne e aspettare che il tempo trascorra. Senza interventi mirati, una persona anche dopo 20 anni galera, se autonomamente non farà il salto di qualità dedicandosi con fatica allo studio, resterà quello che era. Tornerà alla vita di prima, invecchiato, incattivito, senza lavoro. Lo Stato avrà così perso l’ennesima partita.
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